Recensione a: Colin Crouch, Combattere la postdemocrazia, Laterza, Bari-Roma 2020, pp. 196, 18 euro (scheda libro)
Scritto da Riccardo Evangelista
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Combattere la postdemocrazia, l’ultimo saggio di Colin Crouch, arriva a diciassette anni da Postdemocrazia, l’opera che ha rappresentato, nella terminologia come nell’atmosfera, il manifesto di un’epoca. È lo stesso Crouch, nella prefazione, a precisare il rapporto tra i due testi e il significato del suo nuovo lavoro: «Nel 2003, in Postdemocrazia, scrissi che gran parte del mondo occidentale era avviata verso una condizione in cui la democrazia si riduceva all’ombra di sé stessa […]. Se la postdemocrazia ci ha condotti fin qui, gestirla non è più sufficiente, occorre combatterla» (p. IX). La postdemocrazia identifica una condizione storica nella quale l’esistenza delle normali istituzioni democratiche e delle sue più tipiche procedure (elezioni periodiche, suffragio universale, divisione dei poteri) non riflette l’effettivo coinvolgimento dei cittadini nelle decisioni politiche, che vengono invece prese da centri di potere non controllabili, autoreferenziali e spesso opachi. Nella misura in cui le élite economiche permeano i governi e li piegano alle proprie logiche, la democrazia in quanto esercizio consapevole del potere fatalmente si svuota e perde di senso, mentre l’opinione pubblica viene manipolata con facilità attraverso campagne di comunicazione altamente selettive e costose, mutuate direttamente dalla pubblicità commerciale.
È un quadro fosco quello che Crouch ribadisce, apparentemente senza vie d’uscita. A differenza di Postdemocrazia, al cui spirito sostanzialmente ottimistico – «Era ancora assai popolare l’idea della democrazia capitalistica come suprema conquista istituzionale dell’umanità» (p. XI) – facevano seguito proposte ancorate alla difesa dell’esistente, Combattere la postdemocrazia risulta più perentorio e tagliente nella descrizione degli eventi recenti. Tuttavia, sembra costruito per individuare scintille di cambiamento alla luce delle rapide e per molti aspetti imprevedibili trasformazioni dell’ultimo ventennio. Il risultato principale è che la dettagliata analisi dei primi capitoli si accompagna al tentativo dialettico, talvolta faticoso ma sempre lucido, di stanare le faglie della postdemocrazia e individuare possibili brecce tra le sue contraddizioni. Dopotutto, «le conquiste della democrazia hanno lasciato una importantissima eredità di pratiche, atteggiamenti, valori e istituzioni, che è tuttora viva» (p. 5): nessun fenomeno storico, anche qualora la sua spinta propulsiva si fosse esaurita, permette il ritorno a una situazione preesistente. Se questo insegnamento prezioso, sottolinea Crouch in uno dei passaggi più ispirati, è motivo di fondato ottimismo, al contempo genera preoccupazione perché proprio il mantenimento formale delle istituzioni democratiche può impedirci di vedere quanto, in realtà, la nostra democrazia si sia indebolita.
Una rivelazione inequivocabile in tal senso è stata la crisi economica del 2008, a cui sono dedicate le pagine centrali del testo, soprattutto in riferimento al contesto europeo. Le politiche scelte dalle istituzioni internazionali per contrastare la recessione, questo l’argomento principale della sua riflessione, hanno rappresentato esempi perfetti di postdemocrazia avanzata, rivelandone pertanto le conseguenze più pericolose. È ormai largamente riconosciuto, sottolinea Crouch riprendendo questioni già affrontate ne Il Potere dei giganti (Laterza 2014), che la globalizzazione selvaggia, iniziata con le riforme neoliberali degli anni Settanta e Ottanta, abbia acuito le disuguaglianze economiche in tutte le economie di mercato, producendo una classe transnazionale di ultramiliardari e un manipolo di imprese multinazionali dominante in praticamente ogni settore. I processi di liberalizzazione finanziaria – generati dalla stessa ideologia avulsa dalla storia secondo cui solo se il capitale viene lasciato libero di muoversi, senza i lacci e i lacciuoli della regolazione pubblica, è in grado di massimizzare la produzione di ricchezza – hanno permesso alle banche di preoccuparsi sempre meno dell’erogazione di credito finalizzato agli investimenti produttivi di medio-lungo periodo, concentrandosi invece sulle attività speculative, che promettevano guadagni immediati e rendimenti crescenti agli azionisti. L’esito è stata una recisione traumatica del rapporto tra crescita economica e occupazione, fondamentale per legittimare il mercato anche agli occhi di partiti e movimenti di sinistra. In poco più di un trentennio il capitalismo aveva compiuto un salto qualitativo irreversibile, di cui ben pochi avevano avuto contezza: «La ricchezza non veniva creata attraverso la produzione di beni e servizi reali, ma attraverso la rivalutazione costante di titoli finanziari acquistati e rivenduti all’infinito» (p. 51). Un’economia di carta sovrastava le vite reali, determinandole.
Quando nel 2007 si sono manifestate le prime insolvenze di un meccanismo insostenibile da ogni punto di vista, la bolla speculativa è esplosa. Prevedibilmente, il potere economico accumulato dalle banche e dalle imprese giganti nei decenni precedenti ha determinato le strategie politiche adottate da governi e organizzazioni internazionali per affrontare la crisi incombente. Esattamente in questo passaggio storico, spiega Crouch, è emersa la ferrea relazione tra le dottrina neoliberista e la postdemocrazia, in altri termini tra la deregolamentazione del settore finanziario e la sostanziale impotenza delle istituzioni pubbliche nel contrastare gli effetti della recessione sul ceto medio e le classi popolari. Succubi del ricatto implicito al “too big to fail”, gli stati non hanno esitato a salvare i principali istituti di credito, trasformando direttamente un colossale fallimento (economico e morale) del settore privato in debito pubblico: «Il salvataggio del sistema ha comportato costi ingenti e gravi conseguenze negative per quasi tutti, ad eccezione del settore finanziario. Per salvare le banche sono state spese nel mondo molte migliaia di miliardi di dollari di denaro pubblico» (p. 58).
Il comportamento speculativo dei mercati finanziari è ricominciato immediatamente con nuovo vigore, come se nulla fosse successo, sfruttando con ancora maggior spregiudicatezza l’effetto leva (la possibilità di scommettere sui rendimenti dei titoli attraverso denaro preso in prestito), evidentemente incoraggiati dalla consapevolezza di un puntuale e incondizionato ripianamento pubblico delle perdite future. Il modello politico postdemocratico, espresso «quasi alla lettera» (p. 64) dalla liberalizzazione dei mercati finanziari, ha così dettato i passi della riconfigurazione economica dell’Occidente, all’insegna dell’austerità perenne: «Poiché nell’ottica dominante neoliberista il debito pubblico è un male per principio, si è dovuto fare di tutto per ripianare questi debiti più rapidamente possibile, e ciò ha generalmente indotto a ridimensionare i programmi pubblici di spesa, dalla sanità all’istruzione, dall’assistenza sociale alla sicurezza e alla pubblica amministrazione» (pp. 58-59). Il malcontento profondo che ne è scaturito ha lacerato la società, colpendola prima economicamente e poi psicologicamente: «La riduzione della spesa pubblica ha innescato un calo generale della domanda e, dunque, una aumento dei fallimenti di aziende, della disoccupazione e della povertà […] con un conseguente aumento del senso di insicurezza» (p. 59).
La frustrazione e la rabbia, come insegnano le vicende del Novecento, devono trovare uno sbocco. Combattere la postdemocrazia riserva le pagine più intense proprio a dimostrare come la gestione scriteriata della crisi spieghi la maggiore novità di questo decennio, costituita dalla diffusione dei movimenti xenofobi e della cosiddetta alt-right. Crouch definisce il fenomeno «la politicizzazione del pessimismo nostalgico» (p. 101), che nella complessità e nelle specificità nazionali pare sorretto da ragioni e retorica comuni. I partiti tradizionali della sinistra socialdemocratica e della destra liberale si sono infatti dimostrati incapaci di dare risposte credibili agli esiti postdemocratici della globalizzazione e di conseguenza l’illuministica fiducia nel progresso umano, di cui erano portatori, si è sgretolata: «I nuovi movimenti conservatori riempiono il vuoto che così si crea, raccogliendosi attorno alla visione di un’età dell’oro passata, non necessariamente storica – di un mondo che appartiene di diritto ai nostalgici e rischia di essere invaso. Gli invasori sono, in senso letterale, i migranti» (p. 101). La posizione di Crouch è ricca di spunti originali: mentre i movimenti della nuova destra sembrano offrire una soluzione credibile alla postdemocrazia, in realtà, attraverso un manicheismo reazionario, propongono un rimedio che è peggiore del male: «Se si rimane aggrappati a qualcosa che rischia di scomparire, se qualsiasi conflitto, in un mondo sempre più piccolo, si riduce a un gioco a somma zero, non c’è altra prospettiva che un’accesa competizione per lo spazio – sia letterale che metaforico – e il tentativo di eliminare anche fisicamente gli avversari» (p. 110).
Il Presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, viene individuato come l’esempio perfetto di pessimismo nostalgico, che si fa programma politico attraverso il rimpianto esplicito per il passato (le dittature militari), la passione per la violenza in quanto soluzione immediata, il fondamentalismo cristiano, la concezione tradizionalista del ruolo della donna, l’omofobia, la negazione del cambiamento climatico, il disprezzo per le minoranze etniche e per la scienza. È lampante come molti di questi caratteri siano presenti, con più o meno enfasi, in tutta la narrazione della nuova destra europea, passando da Orbán in Ungheria per arrivare a Salvini e Meloni in Italia. Trump, da questo punto di vista, ha rappresentato più il tentativo di un difficile compromesso tra la grande finanza statunitense e il “proletariato” spaventato dalla concorrenza internazionale che una possibile tendenza generale. In generale, comunque, «i leader populisti di questo tipo sono sostanzialmente al riparo dalle forme di disillusione alle quali sono esposti i normali movimenti politici […]. Tutto ciò che l’alt-right ha da offrire ai propri sostenitori è la legittimazione del diritto all’odio: un’offerta che non risente minimante di cose come l’inflazione o i vincoli della spesa pubblica» (pp. 112-113).
La maggiore novità di Combattere la postdemocrazia rispetto ai precedenti saggi di Crouch sta proprio nel tentativo di capire come le risposte date dal pessimismo nostalgico al problema della precarietà esistenziale e materiale odierna possano indurci a riflettere sulle condizioni di fondo delle attuali società occidentali: «Siamo ormai destinati a esistere solo come masse di individui con deboli legami reciproci, travolti da qualsiasi cosa accada? Il pessimismo nostalgico sta proponendo una risposta a questo tipo di domanda: il radicamento senza compromessi nella nazione e nell’etnia, in alleanza con le altre forme di conservatorismo sociale» (p. 130). Le sinistre e le destre liberali quali narrazioni positive, tipiche di una società aperta, possono offrire? Il declino della classe e della religione, che Crouch individua come le principali identità condivise che hanno contribuito alla costruzione della democrazia nel secolo scorso, richiede la ricerca di nuove categorie unificanti, capaci di opporsi alla deriva individualistica delle nuove destre.
È a questo punto, però, che il discorso di Combattere la postdemocrazia diventa meno convincente. Se «l’attrazione che l’alt-right esercita sui poveri è riconducibile all’idea che le questioni materiali contino meno di quelle culturali» (p. 152), sostiene Crouch, allora i movimenti ambientalisti e per i diritti delle donne rappresentano la risposta con più possibilità di rigenerare la democrazia a fronte di obiettivi comuni, non più procrastinabili. Senza voler sottovalutare l’importanza delle questioni ecologiche e di genere, certamente essenziali per le sfide progressiste del futuro, ad essere dubbia è la stessa premessa di fondo, secondo cui la nuova destra risponderebbe a un bisogno primariamente culturale. Come ha giustamente scritto il sociologo britannico poche pagine prima, poiché «la destra politica è contraria all’uguaglianza, il populismo di destra è costretto a definire i propri nemici in termini diversi dalla ricchezza e dal potere» (p. 107). Ciò significa che le questioni materiali, rimanendo cruciali, vengono occultate da una narrazione costruita appositamente per indirizzare il malcontento popolare verso obiettivi diversi da quelli a cui i ricchi che detengono il potere postdemocratico sono sensibili, quali ad esempio l’iniqua distribuzione della ricchezza, la precarizzazione del lavoro, l’evasione fiscale. In seguito alla crisi del 2008, l’abilità di condurre la “guerra tra poveri” da parte della nuova destra si è dimostrata la sua principale carta vincente, nonché uno dei tratti distintivi della postdemocrazia matura, per cui è certa una sua continuazione con esiti difficilmente prevedibili.
Dalle ambizioni propositive che emergono dal testo, ci si sarebbe aspettato da Crouch anche un’analisi più strutturata del maggiore antidoto contro l’istituzionalizzazione delle disuguaglianze: l’istruzione di qualità, soprattutto in ambito umanistico, accompagnata dalle possibili vie per riposizionare la ricerca scientifica al centro della società. Non è un caso se le vittime predilette e di lungo corso della rivoluzione conservatrice neoliberista siano state la scuola e l’università che, valutate in base a criteri di remunerazione economica, hanno perso buona parte della loro libertà edificante, condizione necessaria per combattere la postdemocrazia dalle sue fondamenta.