Scritto da Alessandro Pizzo
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La domanda che i più pongono innanzi alla Shoah è insieme la più semplice e la più angosciosa, ovvero “come fu possibile tutto ciò?”. La palese dimensione dell’impresa titanica di braccare ovunque in Europa l’ebreo, di trasportarlo in luoghi appositi e circoscritti e qui di avviarlo allo sterminio sconvolge la coscienza, e un misto di incredulità e di disgusto accompagna tale domanda. Tuttavia, ci si sente di premettere che, purtroppo, non v’è una risposta, semplice o complessa che sia, unica o definitiva, ma sono solo possibili alcune considerazioni.
Il nemico mortale dei nazisti non appare affatto l’ebreo in quanto tale, ovvero sotto la forma di una tipologia sociologica incarnata da soggetti reali, ma, e piuttosto, la modernità, qui intesa nella particolare accezione di condizione culturale in virtù della quale divengono progressivamente più sfumati, equivoci e complessi i confini del limes che separa i buoni dai cattivi, i sani dai malati, i forti dai deboli[1]. La modernità mette a repentaglio i perimetri rassicuranti della cultura tedesca a cavallo fra XIX e XX secolo, agendo direttamente sul ventre irrazionale delle masse le quali, improvvisamente, fanno esperienza di precarietà, di fragilità, di difficoltà. Di colpo, tali masse si sentono esposte all’ambiguità di tempi storici che scalzano i rassicuranti confini mentali di un tempo e insorgono contro la modernità. È in questa dinamica che si colloca l’efficace proposta politica nazionalsocialista, ovvero la personificazione del nemico. L’ebreo, da questo punto di vista, è la vittima designata, l’idolo polemico del secolo, il capro espiatorio delle colpe del tempo. Si tratta, detto altrimenti, del particolare processo simbolico in virtù del quale i sentimenti di ostilità collettiva si rivolgono non contro l’ebreo in quanto tale, ma contro l’ebreo in quanto metafora viva della modernità.
Secondo Bauman, la sfortuna degli ebrei, tedeschi prima ed europei in seguito, fu di trovarsi a ridosso della doppia condizione di paria a cavallo di due esclusioni: la differenza etico-religiosa con il resto della popolazione ospitante; e, l’essere considerati estranei in patria. In altri termini, le vittime dell’antisemitismo ebbero «lo status […] di “stranieri in patria”, scavalcando con ciò un confine vitale»[2]. La figura dell’ebreo, di per sé piuttosto rarefatta e impalpabile, diviene il centro unificatore di livelli plurimi, tutti accomunati dalla sola leva emozionale ed affatto razionale. Così, l’ebreo è sintesi di confusione semantica, di inquietudine psicologica e di lotta politica. Con il definitivo avvento della modernità, e del nazionalismo, la presenza ebraica diviene di per sé un «problema», un elemento perturbatore delle coscienze nazionali delle masse, un ostacolo per la gretta burocrazia delle cancellerie europee. Infatti, scrive ancora Bauman, «gli ebrei rappresentavano un’eccentricità»[3]. Né con gli uni né con gli altri, irriducibili alle comunità nazionali costituite, un’eccezione alla norma, allo standard, alla «comprensione media e vaga» della complessa e difficile realtà circostante, per dirla provocatoriamente, e non a caso, à la Heidegger[4].
Di conseguenza, gli ebrei divengono, nella percezione equivoca ed emotiva delle masse coeve «il prototipo e il modello principe di ogni anticonformismo, eterodossia, anomalia, aberrazione»[5]. In altri termini, nel gioco dialettico della retorica pubblica del tempo, l’ebreo è l’eccezione, la dissonanza, l’anomalia, l’aberrazione. Un pericolo per la durata, sicurezza e stabilità delle identità nazionali dal momento che l’ebreo, per la sua certo particolare storia, è un nemico dai contorni vischiosi, e questa sua natura rischia di contagiare l’identità nazionale. La natura vischiosa dell’identità estranea degli ebrei diviene una vischiosità in sé che rischia di passare alle masse ospitanti. La metafora è così servita su un piatto d’argento: gli ebrei sono agenti patogeni; focolai di contagio; latori di un virus indesiderabile. E, ripetendo la medesima dinamica, nella retorica pubblica, divengono il virus stesso da eliminare. Paradossalmente l’ebreo è sito di attivazione di varie reazioni prima emotive e successivamente politiche; l’ebreo è latore di significati terzi ed esterni a lui stesso e se ne fa catena di trasmissione.
In quanto eccezione, anomalia, deviazione dalla norma o standard, e, quindi, elemento di inquietudine e di paura, l’ebreo, o, per meglio dire, il suo doppio retorico, il suo fantasma politico, la sua controfigura negli incubi delle masse nazionali dei primi decenni del XX secolo, divenne il nemico da combattere. Il primo effetto della modernità fu la selezione degli ebrei «come bersaglio principale della resistenza antimodernista»[6]. Per effetto di una coagulazione di moventi e sentimenti di varia natura, l’ebreo diviene obiettivo di lotta contro la complessità moderna. Infatti, la modernitas indica la situazione emotiva delle masse europee agli inizi del Novecento, ovvero un’esperienza di vita sfuggevole ed effimera. E agli occhi delle masse chi incarnava questa modalità esistenziale se non gli ebrei? Quel che è in partenza la condizione soggettiva di molti diviene stile di vita di terzi, un’alterità individuata in un gruppo sociale interclasse e internazionale, e, per questo motivo, percepita come pericolosa. Ne consegue che causa della vischiosa ed inquieta percezione delle masse sono gli ebrei.
La Shoah e la razionalità moderna
Il passo successivo, di per sé quasi automatico, fu di rimuovere la causa, fare igiene, vale a dire eliminare gli ebrei stessi, fonte di incertezza, di anomalia, di contagio. Nel lessico nazista questa esigenza, quasi medica, di fare pulizia divenne l’eliminazione degli indegni a vivere, gli oggetti di esistenza indegna, le zavorre da avviare «pietosamente» ai forni. Non si lasci sfuggire il portato implicito delle soppressioni eufemisticamente «pietose». L’ottica assunta è eminentemente mondana, risultato di un mero calcolo utilitaristico e relativo all’equilibrio precario dei costi e dei benefici. E qui si apre lo squarcio più inquietante per la domanda di partenza. Infatti, non vi furono vere giustificazioni teoriche dietro l’opzione della soppressione fisica degli indegni, ma un’astratta, efficiente e banale razionalità burocratica. In altri termini, la dimensione etico-politica dell’operazione medesima scolora, e la si ammanta di una fittizia neutralità oggettiva. Pertanto, una volta che era stato fissato l’obiettivo, l’intera catena umana si mise al lavoro per realizzarlo. Lo stupore di Hanna Arendt, al riguardo, è fuori luogo, benché abbia avuto l’indubbio merito di metter a fuoco la banalità del male nazista. In fin dei conti, e guardando la questione da un altro punto di vista, la rivolta antimoderna, e del tutto mondana, messa in atto dal Reich millenario, si servì di uno dei principali artefatti della modernità, ovvero della razionalità burocratica. Fu la burocrazia a decidere e realizzare il «come» dello sterminio, non il «cosa». La decisione fu dei vertici, la realizzazione un banale compito burocratico, né più né meno. Può, e deve farci, orrore, ma l’organizzazione della Shoah fu una mera impresa della razionalità strumentale, senza dubbi, rimorsi, esitazioni.
La burocrazia tedesca, a tutti i suoi livelli, fu ligia al dovere, efficiente nelle operazioni. La burocrazia tedesca fu complice attiva, consapevole ed ottusa. Per questo, la dimensione che colpisce l’occhio dei posteri è quella dell’industria coscientemente volta allo sterminio, alla de-umanizzazione, alla soppressione; una vera e propria catena di montaggio strumentale alla visione escatologica del nazionalsocialismo. Infatti, quando pensiamo all’Olocausto, non dobbiamo limitarci a considerare le eliminazioni come un aggregato di ferocia, ma dobbiamo sforzarci di considerarle come strumentali, come un passaggio ritenuto essenziale per l’edificazione di un nuovo modello sociale, un mezzo per l’instaurazione della bioingegneria nazista. In altri termini, l’orrore industriale è un aspetto dell’esperimento di ingegneria sociale tentato dai nazisti.
Antimoderno, lo sterminio si valse dei migliori ritrovati della razionalità moderna. Potrebbe suonare vagamente paradossale, ma non lo è. A ben guardare, infatti, salta agli occhi la particolare dissociazione espressa da tutti i gerarchi nazisti rispetto alla realtà; essi erano davvero convinti di dover edificare ex novo una nuova società, migliore della precedente, più sana, migliore, eterna. L’estrema modernità di tale visione è ben visibile nel suo stesso radicamento mondano. Hitler, ma anche Goebbles, Himmler, e gli altri, esprimono una filosofia della storia profondamente incarnata nella realtà del mondo, con l’espulsione di qualsivoglia ancoramento ultraterreno e con una prospettiva quotidiana prettamente materiale. Nelle loro speculazioni concepiscono davvero la loro missione nei termini di un mondanismo razionale. Ne consegue, pertanto, che il Reich va edificato subito, senza aspettare oscuri futuri. L’agognata società migliore deve essere costruita immediatamente ricorrendo a risorse materiali ed umane, mobilitando verso lo scopo ultimo, che non è da venire, un non ancora, ma una realtà attuale, un già qui. La frenesia nazista di plasmare il mondo, di imporre la propria forza, la propria autorità, la propria volontà, deriva da questo profondo convincimento pagano il quale considera tutto strumentale al conseguimento dell’obiettivo finale, dei mezzi per raggiungere l’obiettivo prefisso, passaggi obbligati per purificare il mondo intero. Se, dunque, le cose vanno fatte velocemente e bene, le stesse vanno fatte mobilitando le masse. Su questo punto, in molti insistono sul carattere ingannevole della propaganda che avrebbe ammaliato l’opinione pubblica tedesca. Appare, invece, e tristemente, più realistico immaginare che fossero accondiscendenti, favorevoli o omissivi rispetto al progetto di igienizzazione messo in atto dai nazisti, e che, burocraticamente, vi partecipassero, chi più chi meno. Ed è questo il punto: come igienizzare al meglio lo spazio vitale? A questo punto, pare opportuno illustrare meglio il retroterra culturale dello sterminio nazista.
In effetti, l’operazione dello sterminio è un misto di cultura scientifica di primo ordine e di equivoche ricezioni di varianti grossolane di freudismo e darwinismo. Queste ultime hanno costituito il nocciolo duro del progetto politico nazista, e segnatamente la psicologia delle masse e un dinamismo biologico incentrato sulla salute, sulla forza, sulla lotta per la sopravvivenza. Questo mix micidiale rende possibile l’orrore, ovvero progettare una sorta di utopia biopolitica incentrata su una traduzione biologico-psicologica alquanto grossolana dei concetti politici di amicus e hostis. Il limes, in altri termini, viene sposato dallo spazio esterno alle dimore interne delle coscienze umane. Così facendo, quale tedesco avrebbe mai potuto non sapere? La differenza tra amico e nemico opera ora a livello coscienziale. E se l’amico è il prossimo con il quale vivere nel nuovo eden terreno e il nemico colui che attenta alla mia sicurezza e al bene della mia specie[7], bisogna “sanificare” il mondo intero.
La dimensione industriale della Shoah
Nella neolingua della burocrazia nazista, sanificare significa eliminare, vale a dire sopprimere le vite indegne di essere vissute. In termini biopolitici, fare igiene della razza, e, in concreto, fare opera di eugenetica, di miglioramento della razza stessa. Ora, considerare terzi dei germi da eliminare comporta considerare i germi stessi dei non-uomini, degli involucri vuoti da sondare, picchiare, uccidere[8]. Solo così diviene possibile immaginare l’industria dello sterminio, vale a dire un’enorme macchina di progressiva de-umanizzazione delle persone[9] e di successiva soppressione fisica.
A questo punto, pare ora possibile scorgere un barlume di sensatezza alla domanda di partenza, oltre, ovviamente, a render conto dell’atteggiamento di auto-assoluzione che i vari responsabili dei crimini nazisti assunsero dopo la fine del conflitto. In fin dei conti, infatti, per tutti costoro lo sterminio di esseri umani non fu un problema perché il loro problema fu, molto più semplicemente, quello di ricondurre l’alveo della moralità «all’imperativo di essere un buon lavoratore: efficiente, diligente ed esperto»[10]. Pertanto, e questo appare sicuramente rilevante, la buona coscienza dei burocrati tedeschi, ma anche della maggior parte della popolazione civile, consentì allo sterminio non in nome di un benaltrismo di genere superiore, ma, molto più banalmente, perché si restrinse alla neutralità oggettiva della razionalità burocratica.
Il problema non fu affatto stabilire se fosse moralmente lecito privare di umanità delle persone umane, ma come fare ciò in maniera efficiente. L’efficienza è la caratteristica che meglio di tante altre rivela il mostro inquietante dello sterminio nazista, vale a dire la sua dimensione industriale efficiente. Essa mostra il caratteristico paradosso del totalitarismo nazista, vale a dire mettere in atto una rivolta contro la modernità servendosi del suo portato di maggiore rilevanza, ovvero la razionalità burocratica. Ma una razionalità burocratica che si metta al servizio della costruzione semantica della dottrina nazionalsocialista si priva di connotati morali o politici, perseguendo una finalità materiale, vale a dire compiere determinati processi assiologicamente neutri nella maniera più efficiente possibile, come privare della vita persone per le quali altri stabiliscono se sia un bene vivere o meno[11].
[1] Si consenta rinviare a A. Pizzo, La filosofia dello sterminio dei disabili, in “Filosofia e Nuovi Sentieri/ISSN 2282-5711”, url: https://filosofiaenuovisentieri.it/2017/07/02/la-filosofia-dello-sterminio-dei-disabili/.
[2] Cfr. Z. Bauman, Modernità e Olocausto, Il Mulino, Bologna, 2010, p. 59.
[3] Ivi, p. 62.
[4] Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano, 2000, p. 21.
[5] Cfr. Z. Bauman, op. cit., p. 65.
[6] Ivi, p. 74.
[7] Cr. A Luzzato, Postfazione a: A. Wieviorka, Auschwitz spiegato a mia figlia¸ Einaudi, Torino, 1999, p. 70: «o quella di aderire e di sostenere attivamente il regime o quella di esserne una vittima designata?»
[8] Cfr. P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 2007, p. 26: «il sistema concentrazionario […] aveva lo scopo primario di spezzare la capacità di resistenza degli avversari».
[9] Cfr. M. Marzano, La filosofia del corpo, Il Melangolo, Genova, 2010, pp. 81 – 82
[10] Cfr. Z. Bauman, op. cit., p. 79.
[11] Cfr. G. Aly, Zavorre. Storia dell’Aktion T4; l’«eutanasia» nella Germania nazista. 1939 – 1945, Einaudi, Torino, 2017, p. 98.