Scritto da Tommaso Brollo
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Già nel 2014 The Economist inaugurava il suo “crony-capitalism” index, ossia una misura dell’incidenza del capitalismo selvaggio sulle nostre economie1. Il giornale britannico notava come una quota consistente dei redditi da capitale fosse da ascrivere ad una forma di capitalismo corrotto, che si appoggia allo Stato per perpetuare i suoi privilegi su fattori della produzione scarsi. In particolare, con una misura assai conservativa del grado d’inselvatichimento del capitalista2, rilevavano come più del 20% della ricchezza dei miliardari dei paesi sviluppati e ben il 60% della ricchezza dei loro omologhi del Terzo Mondo avesse un’origine non riconducibile al merito individuale.
Oxfam, organizzazione internazionale impegnata da tempo nella denuncia dell’aggravarsi delle disuguaglianze di reddito e ricchezza su scala globale, ha recentemente pubblicato il suo rapporto annuale “Un’economia per il 99%”3. Nulla di nuovo sul fronte occidentale: le disuguaglianze sono sempre più marcate, il divario tra i più ricchi e i più poveri si sta approfondendo, i profitti consegnati agli azionisti sono sempre di più, i salari sono sempre più compressi mentre il potere contrattuale dei lavoratori sta cadendo a livelli ottocenteschi. Alcuni dati danno la dimensione del dramma umanitario: 21 milioni di persone sono costrette in regimi di lavoro forzato che generano profitti per più di 150 miliardi annui; sul costo di un iPhone, circa il 60% finisce in profitti, mentre solo il 5.8% rappresenta il costo del lavoro, con Apple che è già stata oggetto di accuse di sfruttamento nei suoi stabilimenti cinesi, dove gli operai si alternano su turni di 12 ore sotto un aspro regime di controllo e disciplina. Tra i molti aspetti interessanti del rapporto, l’organizzazione ha rivisto i calcoli dell’Economist, stimando che ben il 43% della ricchezza dei miliardari può essere ascritta a rapporti privilegiati con il potere, mentre più di un terzo deriva da accumulazione precedente, ossia per via ereditaria.
Un elemento emerge costantemente dalla riflessione sulle disuguaglianze: che non c’è niente di automatico, niente di liberale, niente d’inevitabile nella miseria. L’allocazione dei beni, sia a livello nazionale che a livello internazionale, è oggetto di scelta politica e non di qualche processo di massimizzazione. Non esistono sistemi economici ottimali. Esistono sistemi con vincitori e vinti. E spetta alla politica distinguere. Questo chiaro insegnamento lo possiamo trovare in David Ricardo e Piero Sraffa: la ripartizione del surplus non è a-problematica, non è legata alla produttività marginale, ma è il risultato del conflitto tra salariati e capitalisti: «Supponendo che il grano e le merci manufatte si vendano sempre allo stesso prezzo, i profitti saranno elevati o bassi a seconda che i salari siano elevati o bassi»4. Questo per la disuguaglianza interna ad ogni paese. Per quanto riguarda i differenziali tra paesi, Ricardo non è affatto d’aiuto. Per il luminare britannico, la ripartizione del surplus a livello internazionale segue la statica dei vantaggi comparati, ossia distribuisce internazionalmente il lavoro nel modo più efficiente, favorendo la specializzazione di ogni paese nel campo in cui sia relativamente più bravo dei suoi partner commerciali. Il libero flusso di oro e argento s’incarica di organizzare questa divisione internazionale del lavoro. Di fatto, la visione di Ricardo è quella di un sistema perfezionato di baratto, a beneficio delle manifatture di Manchester. Ricardo, come Smith prima di lui, ignora «le grandi invenzioni, le disparità dei livelli di sviluppo che hanno permesso le colonizzazioni, le immense migrazioni di popoli verso il nuovo e nuovissimo continente, le grandiose esportazioni di capitale per investimento nei paesi nuovi»5 Più interessante l’approccio di Marcello de Cecco, che afferma chiaramente come i vantaggi comparati non siano un dato, ma siano da acquisire. Acquisirli è compito dello Stato, con politiche industriali, macroeconomiche, commerciali – alla bisogna, anche protezionistiche.
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