Il commercio internazionale: teoria e criticità
- 16 Aprile 2018

Il commercio internazionale: teoria e criticità

Scritto da Gianluca Piovani

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Il commercio internazionale è un tema economicamente molto interessante e discusso. Solitamente se ne sostiene unicamente l’utilità ed il relativo beneficio in termini di crescita economica e sviluppo. Come tutti i fenomeni complessi, tuttavia, i commerci internazionali presentano alcune contraddizioni. Il presente articolo si propone di occuparsi degli effetti del commercio internazionale sulle disuguaglianze a livello mondiale: è vero che i commerci stimolano la crescita dei paesi poveri così come di quelli ricchi? Nel corso dell’articolo si intende fornire alcuni accenni introduttivi al fenomeno del commercio internazionale, chiarendo il tema scelto può risultare di particolare interesse nel panorama del dibattito economico, per poi presentare i risultati delle indagini condotte dagli autori al riguardo.

Il pensiero economico mainstream non ha alcun dubbio riguardo la rilevanza in positivo dei commerci internazionali. Il liberismo nasce appunto affermando la necessità di lasciare liberi i mercati, di modo che la celebre mano invisibile teorizzata da Adam Smith possa massimizzare il benessere contemporaneamente della società e dei singoli individui. Se in Portogallo si produce buon vino ed in Inghilterra buon panno, liberalizzare i commerci farà in modo che Portogallo e Inghilterra si specializzino ciascuno nel settore in cui sono più efficienti. In tal modo il Portogallo colonizzerà il mercato inglese del vino e così l’Inghilterra quello Portoghese del panno, portando buon vino in Inghilterra e buon panno in Portogallo. Al contrario, proteggere con dazi e quote restrittive l’industria nazionale portoghese di produzione del panno può risultare essere una misura svantaggiosa: il protezionismo causa un’allocazione delle risorse distorta verso settori che risultano inefficienti danneggiando l’economia nazionale. Riallocare i lavoratori di panno portoghese nel settore del vino comporta necessariamente dismettere o diminuire la produzione di panno, il che nel breve periodo costituirebbe uno shock negativo ma in un’ottica più saggia potrebbe apportare indubitabili benefici nel medio e lungo termine[1].

Non tutti gli studiosi sono concordi con le teorie di cui sopra. I mercati sono uno strumento straordinario ma hanno bisogno di essere guidati e così lo stato deve intervenire per evitare concorrenza sleale, ad esempio in termini di tutela della proprietà intellettuale e di indebiti aiuti pubblici. Spesso il ruolo dello Stato in Cina è stato criticato per sostenere troppo generosamente alcuni settori e di sfruttare in modo indebito la proprietà intellettuale altrui copiando a basso costo prodotti il cui sviluppo è stato costoso. In tale modo il mercato può venire sviato e drogato dando luogo ad una competizione falsata. Anche il presidente statunitense Donald Trump, dimostratosi ostile e critico nei confronti della globalizzazione e dei commerci tra nazioni, ha ricevuto severe critiche per l’approccio protezionistico. Nonostante da un punto di vista storico si sia assistito ad una crescente liberalizzazione dei commerci internazionali, alcune istanze del protezionismo rimangono tuttora attuali.

 

Commercio internazionale e disuguaglianza

Un fenomeno al centro della critica ai commerci internazionali è quello della delocalizzazione. Grazie alla globalizzazione, per le aziende è sempre più facile spostare produzioni con i relativi posti di lavoro da paesi sviluppati a paesi in via di sviluppo in cui i salari sono più bassi. In tale modo viene mutato l’equilibrio tra domanda ed offerta negli stessi paesi sviluppati causando un generalizzato ribasso dei salari. Il risultato di tale modello di produzione è un aumento dei profitti delle imprese e dei capitalisti ed una riduzione generalizzata dei salari con possibili ripercussioni negative anche sulla disoccupazione. Tali cambiamenti nel mercato del lavoro colpiscono in particolar modo i lavori più facilmente delocalizzabili, ovvero quelli per cui sono richieste competenze tecniche più modeste ed i cui addetti in genere fanno già parte dei percentili più bassi dei redditi. In tal modo la globalizzazione ha effetti positivi sulla classe più ricca della popolazione dei paesi sviluppati (proprietari di impresa) colpendo invece la più povera (lavoratori delocalizzabili): per questo motivo la globalizzazione è stata indicata come fattore di aumento della diseguaglianza e, conseguentemente, della tensione sociale che ha contribuito all’affermarsi di partiti populisti e xenofobi.

Questi argomenti hanno però un difetto originario, ovvero quello di adottare un unico punto di vista: quello dei paesi sviluppati. L’altra faccia della globalizzazione è quella di portare lavoro nei paesi in via di sviluppo, dando la possibilità di importare conoscenze e know-how dai paesi più ricchi, stimolando la crescita ed offrendo preziose possibilità di sviluppo. Le aziende che delocalizzano infatti esportano tecnologia, capitale fisico e devono erogare ai lavoratori una formazione che gli permetta di svolgere adeguatamente il proprio lavoro. I salari e le tasse che vengono pagate ai paesi che accolgono le nuove strutture delocalizzate possono portare ricchezza e benessere alla popolazione e aiutare lo stato a finanziare investimenti e welfare. In accordo con questa tesi la globalizzazione può essere letta come un trasferimento dai lavoratori dei paesi sviluppati in primis al capitale e in seconda istanza ai lavoratori dei paesi in via di sviluppo. Di conseguenza si potrebbe argomentare che, seppur la globalizzazione aumenti la disuguaglianza all’interno dei paesi sviluppati, la diminuisca a livello globale tra paesi sviluppati e non. Sebbene sia un fenomeno di aggiustamento doloroso, l’internazionalizzazione dei commerci potrebbe in fin dei conti aiutare a portare maggiore uguaglianza e parità di diritti a livello mondiale tra i lavoratori.

Anche in questo caso esiste una tesi alternativa, cioè che la delocalizzazione al contrario comporta uno sfruttamento neo-colonialistico dei paesi emergenti. La piaga del lavoro infantile impoverisce anziché arricchire il capitale umano, così come alcuni altri tipi di lavoro molto duro e poco retribuito come quello in miniera o ancora di orari di lavoro disumani per stipendi al limite della sussistenza. Si sono così sviluppate scuole di pensiero rispetto alla teoria dello sviluppo economico che sostengono le ragioni del protezionismo per i paesi poveri. Il protezionismo in questi casi, congiunto a politiche di incentivo dei consumi e degli investimenti basati sul ruolo dello stato, potrebbe costituire un argine contro lo sfruttamento dei paesi sviluppati permettendo una fase di accumulazione del capitale interno più “tranquilla” e svincolata dai ritmi frenetici e predatori delle economie già avanzate. Il libero commercio internazionale diverrebbe conveniente solamente una volta raggiunto un grado di sviluppo sufficiente da permettere di disporre di prodotti che possano competere sul mercato in uno scambio alla pari. Tale è il caso dello stato di Israele: in una prima fase questo si è infatti affidato a governi di sinistra e protezionisti che hanno mobilitato grandi investimenti e lavori pubblici grazie alla spesa statale. Una volta raggiunto un grado di sviluppo sufficientemente avanzato, il modello guidato dal ruolo dello stato si è rivelato insostenibile a causa dell’aumento della spesa pubblica improduttiva e dell’inflazione ed ha portato al potere una destra più liberista. Ora Israele trae notevole forza economica dal suo ottimo posizionamento nei commerci internazionali grazie al settore high tech, sviluppato originariamente dall’esercito grazie alla spesa statale.

 

Dati usati per lo studio

Considerato che la teoria è divisa riguardo gli argomenti di cui sopra, può essere interessante indagare con dati messi a disposizione da organismi internazionali. Da un punto di vista metodologico l’approccio dell’articolo non prevede la verifica di una teoria piuttosto di un’altra tramite studi quantitativi: anche la matematica è in realtà un’opinione, i dati possono essere visti in vari modi e rielaborati con modelli e prospettive diverse. Uno studio quantitativo può tuttavia fornire materiale aggiuntivo su cui riflettere al pari di qualsiasi altra argomentazione. Le conclusioni di questo articolo non pretendono di essere definitive, bensì invece di provocare il lettore a riflettere su un tema complesso che è troppo spesso banalizzato nei dibattiti pubblici. La vulgata per cui il commercio internazionale è il bene e il protezionismo in stile Trump è il male o viceversa, è una versione semplicistica di una realtà molto più sfumata in cui sia il protezionismo che il libero commercio internazionale presentano molteplici sfumature di grigio.

Questo articolo si basa su un campione di dati open source raccolto dal sito della Banca Mondiale (https://data.worldbank.org/). Seppure fossero disponibili dati riguardanti tutti i paesi del mondo, abbiamo escluso quelli con meno di un milione di abitanti per evitare di falsare il campione con casi “particolari” come ad esempio il Lussemburgo o il Vaticano. Del totale di 152 paesi con almeno un milione di abitanti, abbiamo poi escluso i seguenti 8 poiché presentavano dati incompleti: Afghanistan, Venezuela, Haiti, Libya, Puerto Rico, Qatar, Kosovo, Timor-Leste.

Per ognuno dei paesi è stato scaricato il reddito reale pro capite annuo in dollari contemporanei. Il reddito reale è una misura del reddito calcolata in modo tale da essere comparabile tra differenti paesi. Consideriamo che l’unico bene acquistabile in Italia ed USA sia un panino Big Mac e che questo costi 5 dollari in Italia e 10 negli Stati Uniti. Un reddito nominale di 5 dollari in Italia sarà equivalente in termini reali ad uno nominale di 10 dollari negli USA perché il loro potere d’acquisto è identico (ed equivalente ad un panino Big Mac)[2]. I calcoli statistici richiesti per l’aggiustamento del reddito reale sono più complessi di quelli sopra in conseguenza del fatto che esistono più beni in un’economia; d’altra parte il principio seguito per ottenere il reddito reale a partire da quello nominale è lo stesso. Il reddito reale pro capite è il reddito reale totale di una nazione diviso la sua popolazione. La valuta utilizzata dalla Banca Mondiale per questa variabile è il current $ (dollari USA di oggi). Sono state quindi calcolate la variazione di reddito reale pro capite tra il 1995 ed il 2015 in valore assoluto (cioè semplicemente come differenza tra il reddito reale pro capite del 1995 e quello del 2015) ed in variazione percentuale rispetto al valore del 1995. D’ora in avanti si farà riferimento alla variabile “variazione di reddito reale pro capite tra il 1995 ed il 2015 in valore assoluto” come Δ ed a “variazione di reddito reale pro capite tra il 1995 ed il 2015 in %” come a Δ%.

Per ognuno dei paesi sono stati inoltre scaricati l’export in % del PIL e l’import in % del PIL. L’export in % del PIL è la quantità % di prodotto interno lordo che viene esportata nel resto del mondo; al contrario l’import in % del PIL è la quantità di prodotti in % del prodotto interno lordo che viene importata dal resto del mondo. Le due variabili descritte in questo paragrafo sono state calcolate come valore medio tra il 1995 ed il 2015. D’ora in avanti si farà riferimento alla variabile “export in % del PIL” come a “Ex%” ed alla variabile “import in % del PIL” come a “Im%”.

 

Coefficiente di Gini e statistiche descrittive

Il primo indicatore analizzato è stato il coefficiente di Gini calcolato tra i redditi reali pro capite dei paesi del campione (cioè tra il reddito dei diversi paesi, non come media dei coefficienti di Gini interni a ciascun paese). Il coefficiente di Gini è una misurazione della diseguaglianza e può oscillare tra 0 ed 1: 0 indica massima uguaglianza ed 1 massima disuguaglianza. I risultati del coefficiente di Gini sono riportati di seguito:

 

Anno Coefficiente di Gini
1995 0,5805128026
2000 0,5713595663
2005 0,5542981411
2010 0,5219617338
2015 0,5112324037

 

Il coefficiente di Gini ha subito una variazione rilevante verso una maggiore uguaglianza nell’intervallo temporale studiato. Questo è un risultato molto chiaro ed indica che nel recente ventennio preso in considerazione è diminuito il gap tra i redditi degli abitanti di paesi ricchi e poveri. Ciò suggerisce che gli effetti della globalizzazione nel suo complesso sono stati positivi per lenire le diseguaglianze e le disparità a livello mondiale. D’altra parte, questo tipo di analisi riflette una tendenza che può essere il risultato di fattori molto diversi fra loro i quali comprendono, ma non si limitano, agli scambi internazionali (ad esempio internet, mezzi di trasporto più efficienti, etc). Abbiamo quindi proseguito il nostro studio approfondendo con più precisione l’influenza degli scambi internazionali nel determinare la gerarchia di sviluppo tra paesi ricchi e non.

Il campione di 144 paesi è stato diviso in 5 sotto campioni, selezionati in ordine di ricchezza crescente. Tali campioni contengono 29 paesi ciascuno (tranne il segmento intermedio che ne contiene 28) e sono denominati MR (Molto Ricchi), R (Ricchi), M (Medi), P (Poveri), MP (Molto Poveri). A seguire alcune statistiche descrittive di interesse sul campione di riferimento di 144 paesi:

 

Reddito Reale Pro Capite medio (anno di riferimento 2015) MAX MIN
Molto Ricchi 49,834 86,306 34,048
Ricchi 24,414 33,377 17,263
Medi 12,884 16,384 8,745
Poveri 5,712 8,637 3,454
Molto Poveri 1,849 3,342 668

 

Num paesi

NAM= Nord America; EU=Europa; OC= Oceania; AS=Asia; SAM=Sud America; AF=Africa

NAM EU OC AS SAM AF
Molto Ricchi 2 15 2 10 0 0
Ricchi 0 14 0 6 6 3
Medi 2 4 0 11 5 6
Poveri 4 3 1 8 2 11
Molto Poveri 0 0 0 4 0 25

 

Popolazione in milioni (anno di riferimento 2015)

NAM= Nord America; EU=Europa; OC= Oceania; AS=Asia; SAM=Sud America; AF=Africa

NAM EU OC AS SAM AF
Molto Ricchi 356 407 28 249 0 0
Ricchi 15 124 0 359 195 4
Medi 37 15 0 1,785 308 204
Poveri 0 48 7 1,803 13 382
Molto Poveri 0 0 0 225 0 561

 

Notiamo come la disparità nei redditi sia forte tra diversi campioni. Il campione dei paesi molto ricchi ha un reddito reale pro capite medio pari a 50,000 dollari mentre quello molto povero di soli 2,000. Quasi due terzi della popolazione dei paesi molto poveri è africana, mentre anche il resto della popolazione dell’Africa vive comunque in maggioranza in paesi Poveri o al massimo Medi. Europa, America ed Oceania sono i continenti più ricchi; l’Italia è al 26° posto con un reddito medio di 37,407$. La grande quantità di popolazione nella fascia di pasi Medi e Poveri asiatica è dovuta rispettivamente a Cina ed India.

 

Il modello: la regressione lineare

I dati raccolti sono stati rielaborati utilizzando uno strumento statistico denominato regressione lineare. La regressione lineare è uno degli strumenti statistici più utilizzato in letteratura ed è una componente fondamentale di numerosi modelli più avanzati. Nel seguito dell’articolo si procederà presentando questa metodologia in modo tale da permettere a tutti i lettori di comprenderne i risultati e seguire il filo logico dell’argomentazione. Alcuni tecnicismi possono risultare impegnativi ma possono al pari essere una preziosa occasione per imparare a conoscere uno degli strumenti principe dell’analisi statistica in modo comunque agile e divulgativo.

La regressione lineare è un metodo di stima di coefficienti nella forma che segue:

y=α+βx

Dove y ed x sono variabili, α e β sono i coefficienti stimati. Per spiegare il significato di questo strumento statistico, consideriamo un primo esempio concreto:

Δ=α+β*Ex%

In questo caso la variabile y è la variazione del reddito pro capite in valore assoluto (cioè Δ) e x l’export in % di PIL (cioè Ex%). Il coefficiente α raccoglie una sorta di rumore statistico di fondo, diciamo all’incirca la variazione media di Δ. Il coefficiente β è quello più interessante e rappresenta l’effetto di Ex% su Δ. Per chi fosse pratico di piano cartesiano, una regressione lineare descrive una retta nel piano di coordinate Δ ed Ex%, di coefficiente angolare β e di intercetta α. In altre parole, il reddito medio Δ tende a crescere, per un generico paese, di α in ogni intervallo di tempo (nel nostro caso ogni 20 anni), ma se aumentiamo dell’1% l’export di quel paese in % sul suo PIL (o in genere di una quantità pari a Ex%1) allora a questo α si deve aggiungere β (più in generale Δ1=α+β*Ex%1). Similmente un incremento del 2% di Ex% aggiungerà ad α la quantità 2*β e così la sottrazione di Ex% sottrarrà multipli di β a Δ. In altre parole β misura l’effetto di Ex% su Δ, ovvero nel nostro caso dell’export sul reddito pro capite il che è esattamente lo scopo del nostro studio.

In seguito si riporta una tabella contenente i valori di β calcolato rispetto ad Ex% ed Im% per ciascuno dei segmenti di paesi Molto Ricchi, Ricchi, Medi, Poveri, Molto Poveri. Tale stima è ripetuta due volte, una per stimare la variazione in valore assoluto del PIL (tabella Δ) ed una per stimare la variazione in percentuale del PIL (tabella Δ%). In seguito alle tabelle vengono riportati alcuni esempi con la speranza di chiarire in modo più semplice il significato di queste stime a tutti i lettori:

 

Δ
Export Import
Molto Ricchi 130.24 139.91
Ricchi 114.87 123.55
Medi 32.60 -1.44
Poveri -10.27 -13.32
Molto Poveri 1.66 1.62

 

Δ%
Export Import
Molto Ricchi 0.34 0.41
Ricchi 7.43 10.65
Medi -0.43 2.55
Poveri -2.49 -2.56
Molto Poveri -1.08 1.88

 

Interpretiamo il valore del primo coefficiente riportato, 130.24. Questo valore indica che un aumento dell’1% nell’export di un paese molto ricco causa un aumento del reddito reale pro capite di 130.24 $ nell’arco di 20 anni. Nella seconda tabella invece, un aumento dell’1% nell’export di un paese molto ricco causa un aumento del reddito reale pro capite dello 0.34% nell’arco di 20 anni. Notiamo come l’aspettativa riguardo il risultato del coefficiente β è che sia concorde tra le due tabelle Δ e Δ%: un aumento di X dollari del reddito reale pro capite corrisponderà anche ad un aumento percentuale di una certa misura Z%. Talvolta invece i segni dei coefficienti non sono coerenti: notiamo che per un paese del segmento Medi un aumento di 1% di Ex% causa un aumento di 32 dollari del reddito reale pro capite ma invece lo riduce dello 0.43%, generando quindi un risultato contradditorio.

La regressione lineare è una tecnica statistica straordinariamente utile e accreditata nel mondo accademico; d’altra parte essa ha dei limiti e può presentare alcune incoerenze logiche. Come tutti i risultati quantitativi necessita di una interpretazione e non può essere accettata acriticamente. L’interpretazione di questo risultato apparentemente contradditorio sarà ripresa nel seguito della trattazione (vedi paragrafo dedicato all’interpretazione del β dei paesi medi).

 

Interpretazione dei risultati del modello

Analizziamo i risultati della regressione per gruppi di paesi. Per i paesi molto ricchi l’aumento di Ex% ed Im% ha un effetto concorde. In valore assoluto questo aumento è considerevole ed è pari a circa 135$. D’altra parte, in termini % questo effetto è al contrario poco rilevante perché i paesi del campione MR partono da un livello di reddito tale per cui un aumento di 135$ incide relativamente poco in termini percentuali (circa 0.35-0.40%). Un paese molto ricco in altre parole trae giovamento dai commerci ma non in modo tale da incidere notevolmente sul suo reddito e livello di vita.

I paesi ricchi sono quelli che forse più di tutti traggono giovamento dagli scambi internazionali. La variazione in senso assoluto del reddito pro capite è infatti di poco inferiore a quella di un paese molto ricco (circa 120$ contro 135$) ma d’altra parte questo valore è molto più rilevante in termini di variazione percentuale del reddito stesso. L’impatto positivo atteso da variazioni dell’1% di Ex% o Imp% nel corso di un ventennio è infatti pari a circa l’8-9% del reddito pro capite, il che rappresenta uno shock positivo molto forte. Questo dato suggerisce che un paese ricco può partecipare ai commerci internazionali da una posizione paritaria e non di svantaggio e può inoltre utilizzare il commercio per importare conoscenza e know how dai paesi più sviluppati innescando un così detto processo di “catch up” (“acchiappamento”) nei confronti dei paesi molto ricchi.

Nel caso di paesi Medi i risultati sono contradditori ed i segni dei coefficienti di Δ e di Δ% sono opposti. Ciò è sintomo del fatto che l’effetto del commercio internazionale su questi paesi è poco significativo: da un lato infatti un paese Medio ha alcuni prodotti che riesce a valorizzare sui mercati internazionali ed ha ampi margini per iniziare un processo di “catch up”, d’altra parte l’effetto positivo di questi fattori viene controbilanciato da quello che in precedenza è stato esemplificativamente descritto come uno sfruttamento neo colonialista da parte dei paesi più ricchi. I paesi Medi sono un’area grigia di transizione tra paesi ricchi e poveri per i quali i commerci internazionali non hanno un effetto statistico chiaro. L’incoerenza nei segni può essere interpretata come un errore di incertezza statistica intorno a un coefficiente il cui valor atteso è all’incirca zero.

I paesi Poveri sono invece evidentemente penalizzati dal commercio internazionale. I coefficienti riguardanti gli effetti di Ex% ed Im% sono tutti negativi e coerenti nell’ammontare: in valore assoluto un aumento dell’1% del PIL all’esposizione al commercio internazionale causa una perdita ventennale nel reddito reale pro capite di 10$, che può apparire risicato in valore assoluto ma è pari ad una perdita di circa 2.5 punti in termini percentuali. Per i paesi poveri sembra prevalere l’effetto di sfruttamento da parte dei paesi più ricchi. Sia per l’export che per l’import si ha probabilmente una ragione di scambio non equa o comunque non sostenibile per questi paesi. Immaginiamo il semplice esempio di un contadino di un paese in via di sviluppo che lavora i campi zappandoli o con l’uso di animali: come si può immaginare che possa trarre in qualche modo giovamento dallo scambio con paesi in cui si utilizzano estensivamente fertilizzanti chimici e mezzi meccanizzati? Nel caso in cui costui o il suo stato per lui abbia necessità di acquistare prodotti dai paesi ricchi (farmaci, attrezzi tecnologici, energia, consulenza per costruire infrastrutture avanzate, etc) si troverà nella difficile posizione di avere da chiedere ma non avere da offrire. In altre parole, rimarrà schiacciato dalla legge della domanda e dell’offerta in modo tale che dovrà subire una ragione di scambio penalizzante e predatoria. Per questo ad esempio un europeo in vacanza in paesi poveri si stupisce di quanto possa comprare con i suoi euro grazie al tasso di cambio estremamente favorevole.

Per i paesi molto poveri l’effetto del commercio internazionale sembra infine poco rilevante. Il gruppo di paesi molto poveri ha un reddito medio inferiore a 2,000$ pro capite, cioè ai limiti della sussistenza. La partecipazione attiva al commercio internazionale per questi paesi avviene su base sporadica e poco significativa e per questo i coefficienti riportati sono talvolta discordi e comunque prossimi allo zero.

I paesi medi e poveri sono quelli per cui gli effetti del commercio internazionale sono meno positivi. Questo gruppo di paesi tuttavia comprende la Cina e l’India, paesi che notoriamente riversano sui mercati internazionali grandi quantità di prodotti. Come è spiegabile ciò? Al contrario di quanto si crede l’export medio nel periodo ‘95/’15 di Cina ed India in % del loro PIL è inferiore a quello medio degli altri paesi del loro campione. Il valore di Ex% cinese è infatti pari al 21% contro quello del campione dei paesi Medi di 33%; l’equivalente valore per l’India è invece 15% contro una media del campione dei paesi Poveri di 36%. La Cina anzi è un paese protezionista che limita la sua partecipazione ai commerci internazionali tramite stretti controlli sul movimento dei capitali e per esempio obbligando le aziende straniere a partecipare a joint ventures per entrare nel suo mercato interno. L’impressione che Cina ed India siano campioni del commercio internazionale è dovuta al fatto che, in valore assoluto, il loro PIL totale è talmente enorme che anche una percentuale “bassa” impiegata nell’export è in grado di avere impatti considerevoli sui mercati internazionali. Nel caso della Cina la percezione di essere un grande esportatore è accresciuta dal fatto che la bilancia commerciale di questo paese è notevolmente positiva, cioè che le importazioni sono ancora minori delle esportazioni. Infine notiamo come entrambi i paesi siano abbastanza protezionisti ed in essi lo stato abbia un ruolo importante all’interno dell’economia, in particolar modo in Cina. Considerando Cina ed India casi di successo, ciò sembra confermare le teorie in base alle quali, nelle prime fasi di sviluppo di un paese, è da preferirsi una parziale chiusura agli scambi internazionali, utilizzando invece il ruolo e l’intervento dello stato per innescare e sviluppare l’accumulazione di capitale che poi porterà il paese a svilupparsi.

 

Conclusioni sul commercio internazionale

L’analisi di cui sopra mette in luce alcuni temi interessanti. Da un lato, la diminuzione del coefficiente di Gini nei redditi dei paesi mostra come negli ultimi 20 anni il mondo in via di sviluppo si sia avvicinato a quello sviluppato. D’altro canto, il coefficiente di Gini rileva un semplice fatto senza indagarne le cause: se da un lato è plausibile ipotizzare che la globalizzazione nel suo insieme abbia avuto un effetto positivo nel ridurre il coefficiente di Gini e quindi le diseguaglianze, la successiva parte del nostro studio suggerisce invece come il ruolo dei commerci internazionali non sia stato altrettanto benefico. Se il meccanismo degli scambi internazionali sembra abbia portato crescita e prosperità ai paesi Molto Ricchi e Ricchi, è sostanzialmente neutro per quelli Medi e Molto Poveri mentre al contrario colpisce in negativo quelli Poveri. Ciò può essere spiegato ipotizzando uno sfruttamento di tipo neo coloniale tra paesi sviluppati e non. Se davvero un’eccessiva apertura ai commerci può quindi danneggiare invece di stimolare la crescita dei paesi in via di sviluppo, il commercio internazionale sembra di conseguenza avere portato un effetto negativo netto in termini di aumento della diseguaglianza sia nei paesi ricchi che tra paesi ricchi e poveri. Nei paesi ricchi infatti la globalizzazione dei mercati si manifesta con la delocalizzazione e quindi la diminuzione dei salari dei lavoratori più deboli, con il conseguente incremento dei profitti delle aziende che operano in questi settori ed incremento del tasso di disoccupazione. Lo spostamento della produzione nei paesi poveri, con relativo incremento dei commerci con questi, sembra inoltre avvenire in maniera predatoria. Invece che essere di aiuto a colmare il divario di reddito reale pro capite con i paesi sviluppati, gli scambi avvengono in modo tale da danneggiare le economie dei paesi più deboli. I risultati di questo studio sembrano quindi suggerire l’opportunità di regolamentare maggiormente le relazioni tra paesi in via di sviluppo e sviluppati, sia per proteggere il benessere ed il patrimonio in termini di livelli di eguaglianza e parità di diritti dei paesi sviluppati, sia per ricondurre ad un’ottica più equa e solidale il commercio con i paesi in via di sviluppo.

Le considerazioni di cui sopra non riguardano tuttavia il commercio internazionale in genere ma solamente le relazioni tra paesi sviluppati e non. Quanto suggerito da questo articolo è che le relazioni commerciali tra paesi sviluppati e non avvengono in modo non paritario, danneggiando il reddito dei paesi poveri ed aumentano la disuguaglianza interna di quelli ricchi (seppur arricchendoli). Conseguenza di questa analisi è che sarebbe una scelta giustificata per i paesi più poveri adottare misure protezioniste per tutelare il loro sviluppo economico da relazioni commerciali cui non sono ancora abbastanza maturi per partecipare. È noto come le misure liberiste e di apertura di mercato richieste in cambio di aiuti economici dal fondo monetario internazionale a paesi poveri in difficoltà hanno talvolta fallito e quanto indicato sopra potrebbe in parte spiegare questa evidenza. D’altra parte il commercio internazionale in condizioni paritarie tra paesi ricchi arreca vantaggi in termini di crescita del reddito medio e non aumenta la disuguaglianza a causa della delocalizzazione e della competizione a ribasso, poiché le condizioni salariali dei paesi sviluppati sono molto più omogenee di quelle tra paesi sviluppati e non. Di conseguenza è necessario distinguere i due differenti casi di commercio internazionale tra paesi ricchi, diciamo paritario, e tra paesi ricchi e poveri, diciamo non paritario: nel primo caso questo apporta un contributo positivo in termini di ricchezza e crescita, nel secondo potrebbe invece essere desiderabile intervenire con misure regolatorie, magari in sede multilaterale (ad esempio sfruttando il WTO), per limitarne gli effetti negativi.

Come per tutti i fenomeni complessi, la tentazione di semplificare il dibattito è forte. Difficilmente ci si spinge ad analizzare razionalmente i pro ed i contro del commercio internazionale in modo approfondito e pacato, molto più spesso il confronto è guidato da posizioni aprioristiche e considerazioni valoriali assolute che distinguono il bene e il male senza studiare nel dettaglio una realtà complicata. È giusto avere una società aperta e favorevole ai commerci e allo scambio indipendentemente dalle conseguenze, o al contrario è giusto colpire nazioni estere e ostili con dazi e misure protezionistiche senza riflettere invece anche sui benefici dei commerci e sulle conseguenze cui può portare una guerra commerciale. Si consideri un esempio concreto: i commerci internazionali sono accusati dall’amministrazione Trump di distruggere lavoro e non avvenire negli interessi degli USA. Come per tutti i populismi, vi è una verità di fondo in quello che viene sostenuto: la tesi per cui la delocalizzazione e la globalizzazione sono state gestite in modo discutibile ed hanno danneggiato i ceti più deboli è condivisibile ed ha alcune basi di verità così come si è tentato di mostrare nel presente articolo. D’altra parte la soluzione non può essere certamente eliminare completamente i commerci internazionali: questa misura comporta infatti colpire anche i commerci tra paesi sviluppati i quali invece sono una fonte di ricchezza e benessere che non vi è ragione di sottoporre a sanzioni. Il commercio con i paesi in via di sviluppo dovrebbe essere gestito in maniera diversa e più regolata, ma la soluzione non è sabotare la rielezione dei giudici del WTO per bloccarne le attività e agire in via unilaterale magari provocando una guerra commerciale.

In conclusione ricordiamo come questo studio non voglia essere definitivo ma sia volto a stimolare idee e dibattito. L’apparato analitico statistico e formale da un lato non è paragonabile a quello di team di professionisti specializzati, come ad esempio ci si potrebbe aspettare da un paper di una Banca Centrale o da una università. D’altra parte l’approccio adottato è più snello e meno complesso rendendo possibile la divulgazione e l’approcciarsi anche da parte di un pubblico ampio ad una buona approssimazione di quello che può essere uno studio di letteratura economica. Un punto che per l’autore è importante inoltre è la discutibilità dei modelli matematici utilizzati in ambito economico. Dal momento che esistono scuole di pensiero economico molto diverse le controversie tra queste non possono essere risolte solamente da studi matematici, altrimenti avremmo già da tempo un pensiero economico unico. Un modello matematico può commettere errori, può riguardare solo una parte di un argomento, considerare solamente alcuni casi e determinate condizioni, applicarsi al passato e non necessariamente al futuro etc. etc. La matematica è quindi uno strumento aggiuntivo e non sostitutivo del dibattito. Le tesi presentate nell’articolo sono aperte e per questo si ritiene di concludere con un incoraggiamento al lettore prima di tutto ad ascoltare e leggere con attenzione, ma in seguito a riflettere sempre in modo indipendentemente e critico, in questo caso così come in tutti gli altri.

La globalizzazione, l’immigrazione, le conseguenze e le cause della crisi economica sono elementi di modernità che hanno talvolta colpito e messo alla prova la coesione del tessuto sociale. La risposta più facile è quella dell’opposizione e dello scontro contro una realtà difficile e complessa, e anche da ciò deriva il successo dei populismi. Fare politica contro ed in negativo tuttavia non costruisce una soluzione ed è una scelta perdente nel medio lungo termine. Similmente non si può opporsi agli oppositori difendendo aprioristicamente lo status quo senza riconoscerne i limiti e la problematicità. La posizione risultante non può che essere sfumata, e nel caso concreto si spera di avere mostrato come il commercio internazionale in alcuni casi sia benefico mentre in altri possa risultare più controverso. Tentare di fare chiarezza, riflettere e confrontarsi su temi complessi può contribuire a smorzare i toni ideologici del dibattito portando a sviluppare invece un dibattito costruttivo che possa permettere di sviluppare politiche non in negativo bensì in positivo e lungimiranti.


[1] L’esempio utilizzato è quello del così detto Big Mac Index, un indicatore calcolato dall’Economist: www.economist.com/content/big-mac-index

Scritto da
Gianluca Piovani

Nato nel 1991 a Bologna, ha conseguito la laurea magistrale in Finanza Intermediari e Mercati presso l’Università di Bologna. Durante il periodo universitario ha fatto parte del Collegio Superiore dell’Università di Bologna. Ha collaborato con la rivista elettronica «Il Chiasmo». La sua esperienza lavorativa inizia con ricerca economica in Prometeia e prosegue in Banca di Bologna con la gestione patrimoniale. Attualmente lavora per la multinazionale Crif e si occupa di servizi informatici per banche.

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