Recensione a: Maristella Cacciapaglia, Con il Reddito di Cittadinanza. Un’etnografia critica, Meltemi, Milano 2023, pp. 138, 12 euro (scheda libro)
Scritto da Agostino D’Amico
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L’Italia non è un contesto territoriale coeso. E l’arretramento costante dei salari, anche in relazione agli altri Paesi dell’area OCSE[1], ben descrive la situazione di un Paese in cui il patto tra capitale e lavoro – ovvero una mediazione tra esigenze di accumulazione economica e redistribuzione di una parte di quella ricchezza creata – è ormai uno scenario da antologia novecentesca. Scarsa coesione significa anche fragilità territoriale che spesso si traduce in lavoro povero, problema che in diversi Paesi è oggetto di risposte sperimentali attraverso il ricorso allo strumento del salario minimo legale o al cosiddetto reddito di base universale. La politica italiana ha deciso invece di prenderne atto e agire timidamente con la policy denominata “Reddito di Cittadinanza”. Un dispositivo che ha fortemente polarizzato il dibattito politico e mediatico attorno a posizioni favorevoli o contrarie, dove a prevalere sono stati gli atteggiamenti intrisi di risentimento verso la povertà e i poveri. In questo scenario di immagini falsate, a risultare determinante è stata la rappresentazione degli stessi beneficiari come portatori di una colpa da espiare, narrazione questa assai comune a livello di dibattito pubblico e già emersa con forza durante l’ondata neoliberale iniziata negli anni Ottanta. Documenti quali il Patto per il lavoro, o il Patto per l’inclusione sociale o ancora il Patto per l’utilità collettiva, sembrano tradire una prospettiva che lega la condizione di povertà ad una sorta di incapacità individuale di riscattarsi dallo scivolamento in una situazione di esclusione sociale, mostrando la difficoltà a mettere in discussione quelle che sono invece le cause sociali che generano l’aumento di povertà all’interno di una collettività. A prevalere è dunque un approccio riparatorio e compensativo che fatica a costruire un discorso sulla povertà in grado di coglierne la sua reale complessità e dinamicità.
Il testo di Maristella Cacciapaglia, Con il Reddito di Cittadinanza. Un’etnografia critica, pubblicato da Meltemi nel giugno 2023, rappresenta un tentativo di indagare l’antropologia alla base di un certo fenomeno sociale collegandola alle principali dinamiche di trasformazione legate soprattutto al mondo del lavoro. Lo studio prende le mosse dunque dai tracciati di vita povera che si esplicano alla luce della condizione del territorio di appartenenza – nel caso di studio la Taranto dei giorni nostri, una periferia della periferia dell’economia-mondo. Se nel passato la tensione tra capitale e lavoro veniva inglobata e risolta principalmente nello stabilimento Ilva, oggi le trasformazioni della struttura occupazionale descritte mettono a dura prova la tenuta di un sistema socioeconomico in cui sembra limitarsi ulteriormente il campo dell’agency dei protagonisti della ricerca: i cittadini lavoratori (o potenziali) poveri, un binomio per nulla casuale in quanto risulta essere la condizione abilitante per l’accesso al Workfare State. Un’impalcatura costituita da misure economiche, attività formative e di orientamento realizzate con investimenti pubblici e che fanno da paracadute alla flessibilità richiesta al lavoratore moderno. Ampliando poi gli orizzonti teorici, in una chiave di lettura marxiana «il workfare può – altresì – essere considerato funzionale alla creazione di una versione moderna e più istruita dell’esercito industriale di riserva» (p. 15), dove ad essere ignorata è la possibilità di autodeterminazione degli individui, dal momento che la formazione segue esclusivamente la domanda di lavoro. Non sembra più sufficiente essere cittadini: ciò che è ancor più necessario nel sistema neoliberale è lo spirito individuale di partecipazione al gioco. Il gioco economico capitalista.
La serie di considerazioni sistemiche offerte nel testo traccia una cornice generale utile al lettore per meglio comprendere le evoluzioni socioeconomiche già consumate e quelle ancora in atto. Seppur genericamente, con metamorfosi del lavoro si fa riferimento all’istituzionalizzazione del lavoro salariato[2]: il richiamo frequente nel volume attiene al passaggio dal fordismo al postfordismo, dove la disconnessione tra crescita economica e lavoro è una delle manifestazioni principali, le cui conseguenze ricadono tanto nella sfera individuale quanto in quella collettiva al punto da indurre a (ri)pensare alla possibile formazione e categorizzazione di una nuova classe sociale – la underclass. Dove un primo aspetto comune è l’insicurezza sociale, una condizione a cui sono destinati un numero sempre crescente di individui, un numero sempre crescente di famiglie, una porzione sempre più ampia della società[3]. Anche se va detto che la condivisione delle condizioni di depauperamento materiale di un gruppo sembra non rappresentare più quella base di partenza funzionale per una rappresentazione endogena ed esogena in classi sociali. Motivo per il quale rimane attivo l’impegno di quegli studiosi che, nel riconoscere la dipartita della classe operaia dalla lotta di classe, ambiziosamente ricercano nuove matrici attraverso cui categorizzare la società rimanendo fedeli alla realtà sociopolitica.
La metodologia d’indagine adottata, quella etnografica, è senza dubbio il valore aggiunto del lavoro, anche alla luce del suo scarso utilizzo nella sociologia economica mainstream. Grazie alla possibilità di godere delle parole dei percettori, l’etnografia offre l’occasione di una ricostruzione della personale conformazione dell’immaginario dei beneficiari. In relazione a quest’ultimo, che nel senso comune è stato rappresentato attraverso espressioni volgari come “divanisti”, risultano funzionali le interviste effettuate ai navigator, in quanto protagonisti nella costruzione di traiettorie d’incontro tra domanda e offerta di lavoro. La loro posizione privilegiata – anche se solo in via teorica, vista la condizione di lavoratori precari[4] – risulta dunque funzionale sia per avere un punto di vista depurato rispetto alle rappresentazioni simboliche dei percettori, sia per una conoscenza sulla tenuta reale del sistema economico territoriale.
Un sistema dove la precarizzazione delle condizioni d’impiego è la diretta manifestazione delle trasformazioni della struttura occupazionale, quindi dell’organizzazione del lavoro: terziarizzazione, decentramento ed esternalizzazioni sono solo alcuni dei concetti diventati nel tempo delle antifone alla promessa del benessere collettivo. Una mistificazione degli sviluppi reali resa possibile anche grazie all’abbandono da parte delle grandi confederazioni sindacali dell’azione collettiva e del conflitto come strumento per riequilibrare l’asimmetria di potere contrattuale nel rapporto di lavoro. E in assenza di potere sociale «i lavori a tempo pieno e indeterminato sono in effetti divenuti un mito [individuale] da rincorrere» (p. 19). Anche se, seguendo un’impostazione althusseriana, i sindacati parimenti “gestiscono” i lavoratori: dunque «il potere sindacale è paragonabile a quello di un corpo di ufficiali incaricati di inquadrare le truppe»[5]. Un’affermazione che acquista ulteriore peso se si considera l’organizzazione del lavoro come l’indissolubile unione di una tecnica di produzione e una tecnica di dominio padronale[6].
Il richiamo nel testo ad autori come Karl Polanyi, Luciano Gallino e André Gorz aiuta ad andare oltre la visione esclusivamente economica del lavoro, della persona, della vita. Individui sempre più considerati solo attraverso la lente del capitalismo, dunque mera forza-lavoro da sfruttare all’interno del processo produttivo; uno sfruttamento sorretto dall’espropriazione continua di quel complesso di attività che rientrano nella riproduzione sociale intesa in senso ampio[7]: è quanto emerge dalla chiara fotografia senza filtri che Cacciapaglia ci restituisce della Taranto produttiva-riproduttiva quando afferma che, riferendosi alle percettrici, «la loro quotidianità è scandita dal carico di cura che portano sulle loro spalle» (p. 65). Una dinamica certamente non solo tarantina visto il carattere sistematico e sistemico delle cosiddette “catene della cura familiare”. Dunque nonne, zie, amiche svolgono in sostituzione quel lavoro di cura che in presenza di un salario familiare sufficiente sarebbe effettuato da una donna stipendiata, molto spesso razzializzata, e che viene invece demandato o paradossalmente scaricato su un anello ancor più basso dell’ingranaggio.
Non solo: se con riproduzione sociale intesa in senso ampio ci si riferisce anche al diritto di vivere in un ambiente salubre, va ricordato che la città che fa da sfondo alla ricerca è tra quelle più colpite da un disastro ecosociale. Taranto diventa così co-protagonista insieme ai percettori. Perché a definirlo esclusivamente ambientale, il disastro, si rischia di oscurare gli eccessi di mortalità nei tre quartieri di Taranto più vicini all’area industriale: Tamburi, Borgo e Paolo VI. Un chiaro esempio di come i danni ambientali si intersecano con i danni e le conseguenze sociali, un’interdipendenza che necessita di un approccio transambientale qualora si intenda pensare altrimenti. Un approccio questo, teorico e pratico, il cui obiettivo è la convergenza delle varie contraddizioni del capitale, ambientali, sociali ed economiche, e che intende smascherare i percorsi di sviluppo sostenibile presentati politicamente come la soluzione finale risolutiva, mentre invece risultano essere insostenibili a causa di quella che Cacciapaglia definisce «governance allargata» (pp. 55), ovvero una rete interorganizzativa che per sua natura è portatrice di interessi plurimi individuali, in quanto costituita attraverso l’ibridazione tra margine di profitto e allocazione delle risorse ecosociali. Qui a prevalere è la razionalità economica quale principio esclusivamente riferibile all’ordine sociale istituzionalizzato capitalistico[8]. Non stupisce allora lo scenario offerto dal caso delle palazzine LAF[9]: «Il reparto confino dove i dipendenti considerati scomodi venivano riuniti, internati ogni giorno, senza svolgere alcuna mansione per l’intero arco delle ore lavorative» (p. 51), una chiara manifestazione della dimensione economica che si sovrappone alla dimensione politica.
In conclusione, grazie soprattutto ai temi connessi al lavoro affrontati anche teoricamente nella prima parte, è possibile prendere consapevolezza e affermare che nel mondo moderno sembra emerge sempre più una declinazione dell’ideale di libertà piuttosto peculiare nel rapporto capitale-lavoro: se dal punto di vista del capitale sussiste una libertà per i lavoratori nella scelta di riconvertirsi, dal punto di vista del lavoro la libertà assume un carattere negativo, in quanto la scelta è indotta ex ante. Carattere negativo dal momento che si è liberi di accettare un contratto di lavoro o si è liberi di “morire per disperazione” (per citare un noto libro degli economisti Anne Case e Angus Deaton)[10] qualora si decida di non partecipare o di ostacolare il processo produttivo, o come nel caso dei percettori del Reddito di Cittadinanza di non avallare percorsi eterodiretti.
Uno scenario complessivo per cui i vecchi padri costituenti italiani hanno ben pensato di lasciare delle prescrizioni normative come garanzia per una possibile risoluzione: se nella seconda parte dell’art. 4 della Costituzione italiana si afferma che «ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società», è nell’art. 3 che emerge il conflitto attraverso cui i lavoratori possono conquistare i mezzi materiali propedeutici alla realizzazione di una libertà sostanziale e non formale: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
[1] Si veda il capitolo 1 del Rapporto 2023 dell’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche per un cospicuo resoconto sulla situazione dei salari.
[2] Si veda André Gorz, Metamorfosi del lavoro. Critica della ragione economica, Bollati Boringhieri, Torino 1992.
[3] Il Rapporto Povertà Caritas 2023 dal titolo Tutto da perdere focalizzato su povertà ed esclusione sociale segnala che in Italia i poveri assoluti nel 2022 salgono da 5 milioni 317mila a 5 milioni 674mila (+ 357mila unità); se invece si considerano i nuclei, si contano 2 milioni 187mila famiglie in povertà assoluta, a fronte dei 2 milioni 22mila famiglie del 2021 (+165mila nuclei).
[4] I navigator sono stati assunti inizialmente con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, e che nel maggio 2022 con il “Decreto Aiuti” hanno visto l’ultima contrattualizzazione a gestione statale dal momento che la tensione è terminata definitivamente nel novembre 2022 con la manifestazione dell’impossibilità di proroga governativa.
[5] Si veda Bernard Edelman, La légalisation de la classe ouvrière, Christian Bourgois, Parigi 1978, pp.182.
[6] Si veda André Gorz, Critique de la division du travail, Le Seuil, Parigi 1973.
[7] Si veda Nancy Fraser, La fine della cura. Le contraddizioni sociali del capitalismo contemporaneo, Mimesis, Sesto San Giovanni 2016.
[8] Si veda Nancy Fraser, Capitalismo. Una conversazione con Rahel Jaeggi, Mimesis, Sesto San Giovanni 2019.
[9] Un caso su cui nel 2006 si è pronunciata la sesta sezione penale della Cassazione con sentenza n. 31413 confermando nei reati quella della Corte di appello di Taranto che aveva condannato per le vicende di mobbing alcuni fra titolari, dirigenti e quadri dello stabilimento Ilva.
[10] Anne Case e Angus Deaton, Morti per disperazione e il futuro del capitalismo, il Mulino, Bologna 2021.