Connettività globale. “Connectography” di Parag Khanna
- 18 Aprile 2017

Connettività globale. “Connectography” di Parag Khanna

Recensione a: Parag Khanna, Connectography, Fazi Editore, Roma 2016, pp. 614, 26 euro (scheda libro)

Scritto da Luca Gaddi

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La connettività è destino. Non ci sono dubbi che questo sia il mantra di tutta la tesi argomentata da Parag Khanna in Connectography. D’altronde il XXI secolo è spesso, e a giusta ragione, considerato il secolo della globalizzazione e della connettività, e già oggi, neanche 40 anni dopo il crollo della Cortina di Ferro, praticamente ogni parte del pianeta è più o meno direttamente connessa col resto del mondo. Sembra quindi inevitabile che la connettività delle principali rotte economiche, infrastrutturali e delle risorse, diventerà il nuovo motore delle relazioni internazionali, avendo un impatto che sconvolgerà le fondamenta stesse dell’ordine internazionale. Già a inizio libro l’autore utilizza una metafora che non lascia spazio a dubbi, affermando come “La competizione per la connettività sarà la corsa agli armamenti del XXI secolo”.

Il perché la connettività, intesa come sviluppo o invenzione di nuove forme di infrastrutture (anzi, nel l’autore parla soprattutto di “megainfrastrutture” e “megalopoli”), sia l’obbiettivo essenziale del nuovo millennio lo si capisce osservando un semplice fatto. Con quasi 8 miliardi di popolazione il mondo persiste a convivere con un sistema di infrastrutture tutt’altro che all’altezza, in troppi casi ancora arretrato in termini di connettività, sia essa logistica o dei servizi.

A questo proposito, all’autore preme che, a livello teorico e pratico, venga compresa la profonda differenza tra “geografia politica” e “geografia funzionale”, anche perché sulla base di questa differenza si potranno poi comprendere correttamente i principali fenomeni del “mondo delle connessioni” in cui stiamo vivendo. Geografia politica è quella che possiamo riscontrare su una qualsiasi cartina politica del mondo. Geografia funzionale è quella che, per ragioni tangibili legate alla connettività, va analizzata e tenuta in considerazione per comprendere fenomeni, dinamiche e flussi. Le divisioni politiche, rappresentate in primis dai confini di una cartina politica, possono essere facilmente sfaldate dalle reti di connettività transnazionali garantite da specifiche megainfrastrutture, le cui dimensioni ed estensioni territoriali hanno talmente superato i confini statuali da essere definite come “entità extra-statuali”.

Il concetto su cui però si regge l’opera di Parag Khanna è quello di “supply chain”, inteso come il sistema completo di produttori, distributori e venditori che trasformano il materiale grezzo (sia fisico che ideale) in beni e servizi da immettere nel mercato. Stando a tale definizione, le supply chain sono il sistema nervoso globale che finisce per connettere qualsiasi economia o parte del mondo, plasmando un mondo dove non si sperimenta la fine dello Stato, ma dove non è più lo Stato vestfaliano a plasmare le relazioni internazionali. A fare ciò sono invece i flussi costanti della ricchezza e delle persone, del capitale umano e di quello finanziario.

L’ambivalenza positiva e negativa delle supply chain è importante da sottolineare, ci ricorda come ogni fenomeno politico ed economico abbia intrinsecamente pro e contro. L’aspetto più positivo è semplice da cogliere, le supply chain sono di per sé base della connettività e del mondo regolato da megainfrastrutture che ne collegano i vari poli, un mondo di connettività porta ad ogni uomo opportunità inimmaginabili anche soltanto trent’anni fa, in primis dal punto di vista dell’accrescimento del benessere. L’aspetto più negativo, invece, è lo stratosferico impatto ambientale che tutto il “supply chain world” ha sul mondo stesso, portando ad uno sfruttamento senza precedenti di legname, petrolio, metalli e gas naturale. Inoltre, tra i beni e servizi che sono prodotti, distribuiti e venduti tramite supply chain va sottolineata la componente “destabilizzante”, ossia un ingentissimo traffico di armi, droga ed esseri umani, a beneficio unico di grandi gruppi criminali transnazionali. Inevitabile poi come qualunque grande potenza ambisca ad un pieno controllo del mondo delle supply chain, tuttavia questo risulta strutturalmente impossibile. Al momento, per esempio, USA e Cina sono in contrapposizione proprio sul controllo di una sempre maggiore fetta del supply chain world, ma inverosimilmente potranno controllare ogni singola supply chain esistente. Si può invece affermare che nel prossimo futuro la potenza più influente non sarà quella più grande in termini di armamenti, bensì quella più connessa.

Del perché la connettività giochi un ruolo tanto importante nel ridefinire le relazioni internazionali nel prossimo futuro si può fornire una serie di esempi, tutti riguardanti specifici attori-Stato. I paesi più imprevedibili militarmente, più pericolosi per la stabilità internazionale e più aggressivi sono, per molti aspetti, i paesi con meno connettività a livello globale, paesi come Corea del Nord, Yemen, Repubblica Centrafricana e Iran. Dall’altra parte, si possono invece osservare piccolissime potenze che tuttavia giocano un ruolo cruciale nell’arena internazionale, proprio grazie alla loro amplissima e sempre più integrata rete di connettività globale, è il caso di paesi come l’Olanda, Singapore o la Norvegia.

Le sempre maggiori opportunità date dalla connettività e dalla possibilità di sviluppare nuove infrastrutture non cancelleranno ostilità e conflitti. Tuttavia è molto probabile che, visto i molteplici effetti benefici a livello regionale delle supply chain, molte aree sottosviluppate o caratterizzate da tensioni si “plachino”. L’autore dipinge un quadro molto completo, e auspica che un’estensione delle supply chain e delle megainfrastrutture tra India, Pakistan e Bangladesh potrebbe portare ad una “pax indica”, stabilizzando una delle arene geopolitiche più tese della storia. Lo stesso discorso potrebbe poi valere per il Medio Oriente, lo sviluppo di supply chain potrebbe rimediare al prolungato fallimento dell’impianto geopolitico degli accordi Sykes-Picot, portando alla cosiddetta “pax arabica”. Una sempre maggiore integrazione tra le economie del Sud-Est asiatico, come sta già accadendo con l’ASEAN, potrebbe portare ad una “pax aseana” caratterizzata da interdipendenza delle economie sul Mar Cinese Meridionale. E infine, gran parte degli Stati africani potrebbero uscire da una condizione di povertà, sottosviluppo e dipendenza economica dall’Occidente, se inseriti correttamente nella grande arena delle supply chain e dello sviluppo di infrastrutture, in questo modo si realizzerebbe la “pax africana”.

 

Terza guerra mondiale o tiro alla fune?

Il supply chain world non vedrà la fine dei conflitti interstatali, ma verosimilmente una sempre maggiore interdipendenza e connessione tra le grandi potenze, che aiuterà a prevenire conflitti. Gli attriti che esistono fra queste oggi sono proprio su questioni strettamente connesse all’accaparramento di supply chain, se tensioni vi sono, sono proprio sull’ottenere maggiori connessioni a scapito del rivale geopolitico. In questo scenario non si andrebbe, fortunatamente, a produrre una Terza Guerra Mondiale, bensì una sorta di “tiro alla fune” per stabilire la potenza “più connessa”. Terminata la Guerra Fredda l’attenzione del Pentagono su quale sarebbe stata la zona rossa per lo scoppio della Terza Guerra Mondiale è andata subito su Taiwan, eppure oggi l’integrazione commerciale tra Cina e Taiwan è tale da aver quasi cancellato la possibilità di rapporti aggressivi tra le “due Cine”. L’India è parte del “diamante delle democrazie” alleate al fine di contenere l’espansione militare cinese (India, Giappone, USA e Australia), eppure il governo Modi si è sempre ben guardato dal peggiorare drasticamente i rapporti con Pechino, anzi, i rapporti economici tra India e Cina hanno raggiunto una mole stratosferica. Oggigiorno si fa infuocata la questione sulle isole Senkaku/Diayou tra Cina e Giappone, e già diverse dimostrazioni di forza indiretta sono avvenute nelle acque contese. Tuttavia la valutazione dei leader e delle burocrazie di ambo le parti dovrebbero presto giungere alla conclusione che è più conveniente la pace tra i due attori, dopotutto, il Giappone ha bisogno di sbocchi nel mercato cinese e la Cina ha bisogno della sofisticata tecnologia giapponese. Chiaramente la crescita militare cinese non può essere risolta soltanto tramite la connettività e l’integrazione commerciale, è difatti un serio problema geopolitico che scatena tensioni, specie nel Sud Est asiatico. Se però la presenza militare americana persistesse nell’area per i prossimi decenni, nelle basi militari e nei punti d’appoggio infrastrutturali, si potrebbe garantire un ombrello di sicurezza tale da permettere alla diplomazia di attenuare le tensioni e agli investitori di sviluppare le supply chain della regione, esattamente come fu fatto col Piano Marshall in Europa, fino alla nascita della CECA.

Se per Clausewitz la guerra è “continuazione della politica con altri mezzi”, secondo l’autore il “tiro alla fune” per le supply chain è altresì la continuazione della guerra con altri mezzi. Grazie a precise strategie geoeconomiche, basate sui flussi delle supply chain, un paese può dunque tirare la fune sempre più efficacemente verso la sua direzione, senza dover sparare un colpo d’arma. Qui lo Stato gioca poi un ruolo fondamentale, specie se volto a tutelare un’industria strategica per la posizione del paese nel supply chain world.

Come Paul Kennedy ha affermato in Ascesa e declino delle grandi potenze, è anzitutto la potenza economica a fare di uno Stato una “grande potenza militare”, non il contrario. Nel supply chain world, la grande potenza che vuole mantenere tale status, deve saper mettere in atto una sua grand strategy, che unisca intelligenti strategie geoeconomiche a un sempre più limitato uso della forza bellica. Quest’ultimo non va completamente eliminato, potrebbe tuttavia venire perlopiù concentrato nella protezione di investimenti strategici o ad altissima tecnologia esposti a pericoli. Il primato geopolitico delle supply chain è ormai realtà innegabile, tuttavia non tutte le potenze riescono a coglierlo, e a stabilire una politica estera concentrata su questo.

Le alleanze che si sviluppano nel supply chain world dunque sono definibili “alleanze infrastrutturali”, dove concetti come l’appartenenza a club quali la NATO, o il defunto Patto di Varsavia, sono concetti obsoleti. Le alleanze politico-militari del supply chain world, già formatesi o che si andranno a formare nei prossimi decenni, sono anzitutto alleanze basate su convenienze economiche dettate dal flusso di specifiche supply chain. Le relazioni internazionali saranno sempre caratterizzate da un aspetto diplomatico e, inevitabilmente, da uno strettamente materiale, basti pensare al contesto latinoamericano, profondamente mutato di tempi della dottrina Monroe, quello che difatti era il backyard degli USA oggi è una delle principali mete di investimenti cinesi. In tutto ciò si delinea dunque una graduale perdita di rilevanza del ruolo politico dei governi, che nelle parti del mondo più interessate da investimenti diretti esteri non possono sopravvivere se non scendendo a compromessi con grandi multinazionali, che daranno a quel paese un rinnovato ruolo nel supply chain world.

Oltre ai gasdotti che collegano Russia, Europa e Turchia, un simbolo di come la connettività sarà il cardine del XXI secolo è senza dubbio la cinese “Via della Seta”, mastodontico progetto di collegamento di vari nodi urbani dalla Cina al Turkmenistan, coinvolgente altre nazioni della zona. Quelle che un tempo erano le aree più isolate del mondo oggi vengono rese parte di una diversificata rete di collegamenti, portando un beneficio unico alla loro economia, e ancora una volta è la Cina ad essere in testa al progetto. Ancora, la ferrovia Transeurasiatica (potenziamento della Transiberiana) parte sì da Chongqing, ma raggiunge addirittura la Germania, nella stazione di Duisburg, la Germania è altresì collegata alla Cina dalla ferrovia Europa-Cina, tra Amburgo e Zhengzhou. La gara alla connettività sta venendo giocata dalla Cina molto bene, soprattutto grazie all’istituzione di un organo finanziario con un capitale di dieci volte quello del Piano Marshall, ossia l’AIIB (Asian Infrastructure Investment Bank).

Se per Halford Mackinder il controllo del mondo sarebbe stato naturalmente conferito alla potenza che avesse controllato l’Heartland (territori dall’estremo Est europeo all’Asia centrale), negli ultimi due secoli abbiamo potuto constatare che, in realtà, il controllo del mondo si regge sul dominio di specifiche rotte marittime e oceaniche (e oggigiorno anche aerospaziali). I principali imperi globali della storia lo hanno dimostrato, e alcuni tra questi hanno inoltre dimostrato che non sempre c’è stato bisogno della violenza per raggiungere una posizione di dominio, è stato il caso storico dell’Olanda e del controllo di prosperi hub commerciali da Rotterdam a Jakarta. Le analogie tra il modello di “dominio dei mari” olandese e la strategia geoeconomica cinese di oggi sono molte, dalla realizzazione di grandi ZES (Zone Economiche Speciali) agli investimenti atti alla creazione di redditizie infrastrutture. Inoltre, come l’Olanda dell’epoca, l’attuale rete di commercio internazionale della Cina non è caratterizzata da enormi trasporti navali militari che proteggono mercantili carichi d’oro, bensì è composta da una sterminata flotta di navi commerciali che seguono le rotte marittime delle infrastrutture e delle supply chain.

A giusta ragione, oggigiorno sentiamo affermare che il Pacifico sia rapidamente divenuto il perno dell’economia mondiale, e non soltanto per il ruolo giocato dalla Cina. Tuttavia il supply chain world è qualcosa di molto più complesso, la sua vastità non può essere ridotta al solo (per quanto vasto) scenario del Pacifico. Grande competizione per la gestione di infrastrutture e supply chain avviene anche sul vecchio perno dell’economia mondiale, l’Atlantico. La costruzione di un secondo grande canale centroamericano per il passaggio di transatlantici mercantili darà un nuovo enorme impulso alla competitività infrastrutturale nel Mar dei Caraibi. Paradisi fiscali e hub tax free poi si sono recentemente sviluppati, con grande apprezzamento dei magnati americani, a Porto Rico e a Panama.

Per il suo ruolo cruciale nella supply chain mondiale del petrolio e del gas, presto anche l’Artico, collegando una vasta area circolare composta da Canada, Alaska, Groenlandia, Scandinavia e Russia, diverrà un pivot della competizione per l’accaparramento di risorse naturali. Il tutto partirà chiaramente dalla realizzazione di infrastrutture atte all’estrazione, in cui parteciperanno, allargando il quadro della competizione, compagnie estrattive dal resto del mondo.

 

La connettività: verso una società globale

Il McKinsey Global Institute ha realizzato un suo Connectedness Index per stabilire quali fossero le città effettivamente più connesse e integrate nel supply chain world, in termini di volume dei flussi di beni, servizi, persone e dati. I risultati hanno stabilito che di tante grandi metropoli al mondo, solo sei sono considerabili “hub di prima categoria”, città quali New York, Londra, Hong Kong, Tokyo, Singapore e Dubai. Quest’ultima si avvia forse, più di tutte quelle citate precedentemente, ad essere il vero frutto della connettività quale destino, un grande centro cosmopolita, privo di un’eredità culturale e centro di flussi di denaro, persone e culture che cancellano il concetto di Stato vestfaliano. Da quando poi gli Emirati Arabi Uniti hanno aperto le porte alla Cina, questi sono diventati il ponte tra gli investitori cinesi e l’Africa, affamata di infrastrutture e ricca di forza lavoro a bassissimo costo. La pressione di questo fenomeno è tale che la popolazione nativa del paese è diventata minoranza nella propria stessa casa, rispetto agli stranieri con interessi negli Emirati Arabi. Coloro che si interessano di sociologia urbana, economia internazionale o semplicemente geopolitica, dovranno tener conto che il fenomeno di Dubai potrebbe essere solo un’anticipazione di quanto accadrà nel resto del mondo. Un mondo di enormi città come fulcro dell’integrazione, dell’incontro tra domanda e offerta, e quali hub centrali del flusso delle supply chain.

In barba alla critica di coloro che argomentano come la presenza di multinazionali sia il disastro per il benessere del cittadino medio di ogni paese (abbassamento dei salari, distruzione dei diritti sindacali, trionfo del capitale, ecc.), il supply chain world dimostra che solo grazie alla presenza di multinazionali in molti paesi in via di sviluppo ci sia stato non solo un aumento del benessere medio, ma anche un rialzo degli standard qualitativi dei prodotti e delle condizioni lavorative dei dipendenti. Soltanto la fornitura di beni pubblici e servizi di assistenza basilare sono una ragione per sostenere come l’intervento di multinazionali centrali nel supply chain world, in paesi poveri in infrastrutture ed economia, renda questi attori privati non-statali un sostituto ben più efficace dello Stato. Rispettivamente in Liberia e in Nigeria, Firestone e Shell non hanno soltanto investito e creato posti di lavoro, ma hanno anche dato un contributo decisivo alla lotta alla povertà e alla creazione di un basilare sistema sanitario accessibile. In quelle aree del mondo dove si sperimenta una miseria al limite del contrastabile, per esempio in Somalia, una soluzione valida potrebbe essere l’inserimento di una supply chain semplice, come quella della pesca. In questo modo si porterebbe non solo lavoro e crescita economica, ma i giovani somali avrebbero possibilità di scelta, invece che essere inevitabilmente arruolati tra le fila delle bande di pirati.

 

Il disagio della cyberciviltà

Tra le megainfrastrutture del supply chain world, Internet è l’unica che gode di “invisibilità” e difficile governabilità. A livello di investimenti, di trasmissione dati e di connettività, le telecomunicazioni hanno ampliamente superato qualsiasi altra forma tangibile di creazione di interconnessioni sul pianeta, e ciò non viene fatto dagli Stati, ma da Google e Facebook. Stati che generalmente hanno sofferto di esclusione dal resto del mondo (non avendo sbocchi sul mare) oggi hanno la possibilità di connettersi a questo tramite l’installazione di un cavo di fibra ottica, dove la connessione non è fisica può essere digitale. È dunque un mondo plasmato di modo che la completa sconnessione dal resto del mondo sia pressoché impossibile, un mondo dove “I distretti finanziari di New York, Londra e Tokyo sono molto più vicini fra loro di quanto il Bronx sia vicino a Manhattan”.

La Rete non è caratterizzata da nessun tipo di governance, e al massimo può essere limitata da regolamentazioni statali. Giusto negli ultimi anni si sono osservate tendenze ad una “balcanizzazione” di Internet, che ha assunto le forme di un’arena geopolitica dove alcuni Stati hanno alzato la voce sul proprio ruolo, indubbiamente gli USA tramite gli strumenti della NSA, ma anche Germania, Russia e Cina. Questi ultimi due Stati in particolar modo hanno negli ultimi anni impostato la propria politica di sicurezza interna di modo che l’accesso a Internet venisse limitato ai propri cittadini, ma il governo potesse ledere la loro privacy. Se questa seconda opzione è stata facilmente praticata, scarso successo hanno avuto operazioni come la prima, dal momento che esistono sistemi di aggiramento dei controlli molto efficaci, come Tor, VPN e uProxy.

Date queste premesse, è possibile preoccuparsi di una cyberguerra tra Stati? Pare di sì. Il cyberattacco al programma nucleare iraniano grazie al virus Stuxnet, l’operazione di hackeraggio cinese contro l’Ufficio del Personale Governativo americano e la dichiarazione di guerra all’ISIS realizzata da Anonymous sono solo esempi di ciò che pare a tutti gli effetti uno scenario progressivamente più instabile.

Non tutti i mali vengono per nuocere comunque, difatti il costante sviluppo delle ICT ha portato anche benefici all’economia mondiale e al progressivo sviluppo del benessere personale in aree del mondo che solo grazie alla connettività hanno potuto ottenere ciò. Non si può negare che la connessione ai flussi globali porti nuove forme di lavoro e crei benessere, la supply chain del mondo digitale è forse la maggiore responsabile per la colossale crescita indiana, un paese che ora ha tanti programmatori informatici quanti gli Stati Uniti.

 

Conclusione

Con le sue luci e le sue ombre, il supply chain world è quanto di più tangibile ci sia riguardo la realtà economica internazionale contemporanea. Se si parte dal presupposto per cui nella situazione attuale non vi è veramente più nessuno di escluso, essendo ogni mercato integrato in una filiera mondiale di connettività, allora i benefici che si potrebbero apportare all’umanità sono indubbi. Se la globalizzazione e la connettività hanno fatto tanto, elevando i livelli di benessere di centinaia di milioni di persone in pochi decenni, c’è comunque ancora tanto da fare, con altrettante persone che vivono tuttora senza strade, elettricità e con poco cibo. Passare da una geografia degli Stati a una geografia funzionale (basata sulla necessità delle masse e sulle possibilità degli assetti economico-politici) è dunque una necessità primaria, per sfruttare al meglio le possibilità offerteci dal mondo della connettività, prima fra tutte la possibilità di evitare una Terza Guerra Mondiale.

Il mondo Stato-centrico e le istituzioni su cui l’ordine mondiale liberale si è retto sino ad ora risultano obsolete, ma non incorreggibili. Se invece, grazie ad attenti investimenti e ad intelligenti lavori di diplomazia, si potranno moltiplicare le connessioni, aumenteranno le megalopoli multiculturali, aperte economicamente e culturalmente, rendendo obbiettivo primario dell’agenda internazionale il mantenimento del supply chain world, a scapito di eserciti e armamenti nucleari. Sarebbe la possibilità di far collassare il mondo dei confini nazionali, scatenando un mondo di flussi economici e sociali, dove il capitale umano potrà mettersi in gioco al meglio e ovunque preferisca.

Scritto da
Luca Gaddi

Classe '94, di Bologna. Si è laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l'Università di Bologna. I suoi principali interessi accademici sono nell'ambito degli Studi Strategici, della conflittualità internazionale e della geopolitica. Si è occupato di progetti di policy games MUN (Model United Nations) e ha svolto, come studente, attività di analisi geopolitica al Geneva Institute of Geopolitical Studies.

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