Scritto da Andrea Boitani, Giorgio Rodano
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Riceviamo e pubblichiamo volentieri questo contributo che approfondisce la figura di Franco Rodano, intellettuale e uomo politico che rivestì un ruolo di grande rilievo nella storia repubblicana italiana.
Lo scorso mese di luglio ricorreva il quarantesimo anniversario della morte di Franco Rodano (1920-1983), un importante politico e intellettuale della seconda metà del secolo scorso. Crediamo che oggi, dopo tanti anni, ben pochi si ricordino di lui e ben pochi giovani ne abbiano sentito parlare. Ma Rodano è un personaggio che merita di essere conosciuto, proprio perché è stato un protagonista della vita politica italiana per quarant’anni, a partire dal 1940. Può sembrare un uomo del passato, della Prima Repubblica, che pensava e agiva confrontandosi con le idee e i problemi che agitavano quei tempi. E indubbiamente lo è stato. Tuttavia, non è stato solo questo, perché nelle sue riflessioni e nei suoi lavori ha esplorato temi che anche a mezzo secolo di distanza mantengono una significativa attualità.
Recentemente la figura di Franco Rodano è stata richiamata in un articolo del Corriere della Sera (17 luglio 2023). Era un articolo dedicato alla morte del quasi centenario Luigi Bettazzi, un vescovo che negli anni Settanta del secolo scorso si era molto speso per il dialogo tra i cattolici e i comunisti, al punto di spingersi, sfidando le resistenze e l’ostilità delle gerarchie ecclesiastiche dell’epoca, a scrivere, nell’estate del 1976, una lettera all’allora segretario del Pci Enrico Berlinguer, in cui gli proponeva, appunto, l’apertura di un dialogo. Berlinguer rispose solo un anno dopo, ma accettava la proposta. L’autore dell’articolo del Corriere congetturava che la lettera di risposta fosse stata “scritta se non a quattro mani, certo con il consiglio di Franco Rodano”. La congettura era plausibile perché Rodano era conosciuto come l’“eminenza grigia” di Berlinguer (lo era già stato, in precedenza, di Palmiro Togliatti) e un cattolico comunista, anzi Il cattolico comunista, come recita il titolo della monografia che nel 1981 gli avrebbe dedicato il filosofo Augusto Del Noce. Ancora più diffusa era l’etichetta, giornalistica e sbrigativa, che lo definiva “cattocomunista”, anzi, in un certo senso, come il padre fondatore di quella corrente politica che andava appunto sotto il nome di cattocomunismo.
L’eminenza grigia
Entrambe le etichette contengono qualcosa di vero e qualcosa di leggendario, ma comunque non gli rendono giustizia. Per quanto riguarda quella dell’“eminenza grigia”, è vero che, per gran parte della sua vita Rodano ha fatto politica senza mai ricoprire cariche, né di partito né istituzionali; così pure è vero che molti politici importanti (del Partito Comunista soprattutto, ma anche di altri partiti della Prima Repubblica, come la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista e quello Repubblicano) apprezzavano i suoi consigli e vi ricorrevano spesso. Ed è vero che Rodano e Togliatti erano amici (con Berlinguer, forse a causa del carattere schivo di quest’ultimo, il rapporto era più distaccato). Ma c’era stata una fase importante della sua vita in cui Rodano si era impegnato nella politica in prima persona.
Ci riferiamo agli anni Quaranta del secolo scorso, quando Rodano fondò e diresse, con altri, varie iniziative politiche, tutte caratterizzate da un netto antifascismo e da una altrettanto netta adesione alle istanze del movimento operaio: erano, in successione, il Movimento dei Cooperativisti Sinarchici, il Partito Comunista Cristiano, il Movimento dei Cattolici Comunisti e il Partito della Sinistra Cristiana. Nei primi anni Quaranta, caratterizzati dalla guerra e dall’occupazione tedesca, l’impegno politico comportava un forte rischio personale. Rodano partecipò in posizioni di vertice (con Mario Alicata e Pietro Ingrao) alla resistenza romana contro il fascismo prima e contro i tedeschi poi. Fu anche imprigionato (liberato il 25 luglio del 1943) e dall’8 settembre di quello stesso anno passò in clandestinità.
Nel 1945, dopo la conclusione della guerra e la Liberazione, il Partito della Sinistra Cristiana venne sciolto e Rodano, con altri esponenti di quel partito, si iscrisse al Pci. Al suo interno, Rodano svolse un’intensa attività pubblicistica: sul settimanale Rinascita, di cui fu per vari anni redattore, e sul Politecnico di Elio Vittorini, della cui redazione romana fu responsabile.
La fine della fase pubblica dell’esperienza politica di Rodano venne determinata da un episodio che ne condizionò fortemente l’esistenza futura. Così lo racconta lo storico Massimo Papini nella voce dedicata a Rodano sul Dizionario biografico degli italiani della Treccani: “Per un articolo riguardante le condizioni economiche del basso clero, alla fine del 1947 ricevette l’ingiunzione a ritrattare tramite decreto della Sacra congregazione del Concilio per aver violato un articolo del diritto canonico. Di fronte al suo rifiuto fu escluso dai sacramenti e dalla sepoltura ecclesiastica. L’interdizione fu ritirata solo dopo il Concilio Vaticano II”. Dopo di allora, e per molti anni, Rodano “visse piuttosto appartato. I suoi interventi pubblici furono per lo più con articoli o saggi anonimi o firmati con pseudonimi”. Ma, come si è detto, i suoi rapporti con la politica e con i politici del Pci (e non solo) restarono intensi. Così nacque la leggenda dell’“eminenza grigia”. Non fu una scelta libera: Rodano rinunciò a fare politica attiva perché era cattolico e aveva deciso di rispettare, suo malgrado, la sanzione che gli era stata comminata dalle gerarchie della comunità cui si sentiva di appartenere. Inoltre, probabilmente, i tempi non erano ancora maturi perché una figura come la sua – che si collocava nell’intersezione di due mondi (quello cattolico e quello comunista) ancora molto distanti da una prospettiva, se non di incontro, per lo meno di dialogo – potesse svolgere un ruolo politico di primo piano. C’era ancora da percorrere una “lunga marcia” attraverso quei due mondi.
Il comunista cattolico
D’altra parte, Rodano era anche convintamente comunista oltre che cattolico. Di qui l’etichetta un po’ sprezzante (stando al vocabolario della Treccani) di “cattocomunista” che gli è rimasta appiccicata addosso. Se, come tende a fare sbrigativamente la pubblicistica, assumiamo come definizione di cattocomunismo “la fusione ideologica e integralistica dell’approccio cattolico e di quello comunista”, allora Franco Rodano non era cattocomunista. Questo perché, in tutta la sua vita, e sia pure con diversi argomenti, egli ha sempre professato sul tema un atteggiamento laico, basato sulla netta separazione tra religione e politica.
In una prima fase (anni Quaranta) Rodano aveva fondato tale separazione sulla distinzione, in Marx, tra materialismo dialettico e materialismo storico: respingeva il primo, giudicandolo una visione complessiva del mondo sostanzialmente atea, mentre accettava il secondo, giudicandolo uno strumento di analisi storica e scientifica della realtà sociale che poteva essere utilizzato per l’azione politica. In una fase successiva della sua vita, quando negli anni Sessanta – con l’esperienza della Rivista Trimestrale, un periodico di ricerca e di cultura politica, economica e filosofica che diresse con Claudio Napoleoni – la critica del pensiero di Marx si fece molto più approfondita e severa, la questione della laicità e della connessa separazione tra politica e religione venne fondata su basi completamente nuove.
Per arrivare a illustrarle conviene ripercorrere (sia pure, inevitabilmente, per sommi capi) i temi principali delle riflessioni di Rodano a partire dall’inizio degli anni Sessanta. Non sarà possibile illustrarli tutti. In particolare, verrà sacrificato quello delle idee di Rodano sulle questioni di politica internazionale. Ed è un peccato. Per quanto possano apparire fuori moda (come è inevitabile quando si parla di riflessioni che risalgono a più di cinquant’anni fa), erano assai ricche di spunti che meriterebbero di essere riconsiderati per ragionare sui problemi di oggi.
Il capitalismo
Uno dei principali nodi problematici su cui invece ci soffermeremo, e su cui il pensiero di Rodano si è a lungo affaticato, era costituito dalla natura e dall’evoluzione storica del capitalismo, e in particolare del capitalismo moderno, così come si era venuto trasformando nella seconda metà del secolo scorso, quello che, prendendo a prestito il titolo di un saggio di John Kenneth Galbraith (The Affluent Society, 1958), chiamava il suo “assetto opulento”. Semplificando drasticamente una ricerca sviluppata attraverso una serie di saggi di impegnativa lettura, molti dei quali comparsi sulla Rivista Trimestrale (qualcuno scritto a due mani con Napoleoni) e poi ripresi nelle sue lezioni alla Sispe – la Scuola italiana di scienze politiche ed economiche, da lui fondata, sempre con Claudio Napoleoni, alla fine degli anni sessanta – possiamo dire che per Rodano l’assetto sociale del capitalismo opulento era stato preceduto logicamente (e per certi versi anche storicamente) da altri due assetti: una fase precapitalistica, che Rodano, per motivi che diventeranno chiari tra breve, chiamava quella delle “società signorili”; e quella del “capitalismo puro” (anche in questo caso vedremo tra breve il perché dell’aggettivo).
Le società signorili sono quegli assetti in cui una minoranza (i “signori”) si appropria dei frutti del lavoro (schiavistico, o comunque servile) della maggioranza, e grazie a questo “sfruttamento” del lavoro si libera dalla necessità (di lavorare) e consegue uno status di libertà sostanzialmente senza vincoli, se non appunto quelli che i signori arbitrariamente pongono a se stessi. Quando l’ultima incarnazione della società signorili, quella medievale, entra in crisi (rinviamo agli scritti di Rodano per una illustrazione dei motivi) subentra il capitalismo.
Con esso viene generalizzata la trasformazione dei servi in lavoratori salariati. Questi vengono utilizzati non più per produrre il sovrappiù di beni e servizi che nel precedente assetto serviva a garantire la libertà dei signori, ma per valorizzare il capitale (il fine della produzione diventa il profitto) promuovendone l’accumulazione, all’interno di un processo, spinto dalla concorrenza tra i capitalisti, in teoria senza limiti. Quello appena descritto, in cui l’intero capitale viene continuamente e integralmente reinvestito nell’attività produttiva, è appunto il capitalismo “puro”.
Come sottolineato da Marx, delle cui analisi Rodano e Napoleoni sono largamente debitori, il processo dell’accumulazione del capitale appena descritto soffre di insanabili contraddizioni che ne compromettono radicalmente la dinamica. Marx poneva l’accento sul ruolo delle crisi economiche che periodicamente distruggono il capitale e rallentano, quando non interrompono temporaneamente, l’accumulazione (e sulla propensione dei capitalisti a sfuggire al vincolo della concorrenza). Rodano e Napoleoni identificano un altro elemento (parzialmente) stabilizzante, che rende il capitalismo meno “puro”, consentendo l’accumulazione al prezzo di rallentarla. Esso è costituito dal residuo precapitalistico di un consumo signorile, che nel nuovo assetto prende la forma di rendita. Questo “consumo improduttivo” (distinto da quello “produttivo” finanziato dai salari dei lavoratori) sottrae risorse all’accumulazione ma fornisce al mercato quel riferimento esterno che consente alle imprese di orientare i propri investimenti.
Come si è detto, il passaggio all’assetto “opulento” è relativamente recente, risalendo alla seconda metà del secolo scorso e in particolare al ventennio tra il 1950 e il 1970; un periodo che gli storici economici hanno chiamato, non a caso, la golden age del capitalismo mondiale e in cui appunto le economie di tutto il mondo conobbero una fase di crescita senza precedenti. Rodano e Napoleoni ponevano l’accento su due elementi che avevano consentito tale trasformazione: la capacità delle politiche economiche (di stampo keynesiano) di stabilizzare l’economia attorno alla piena occupazione smussando le fluttuazioni e, soprattutto, la grande crescita del “consumo improduttivo” dei lavoratori, resa possibile dal fatto che, per la prima volta nella storia del capitalismo, le loro retribuzioni potevano crescere stabilmente e significativamente al di sopra di quel livello di sussistenza e riproduzione a cui erano state confinate fino ad allora; veniva meno, infatti, il ruolo depressivo esercitato dalla disoccupazione sui salari (quello che Marx chiamava l’“esercito industriale di riserva”). Perciò il capitalismo opulento era anche il capitalismo caratterizzato dall’esplosione dei consumi individuali di massa.
Naturalmente, anche questo nuovo assetto del capitalismo aveva i suoi problemi. Dopo alcune avvisaglie già negli anni Sessanta (su cui meritano di essere lette ancora oggi le riflessioni lungimiranti e per certi aspetti presaghe di Rodano e Napoleoni), alla fine di quel decennio il precedente equilibrio dei mercati a livello mondiale venne travolto da una serie di shock che coinvolsero i salari, le materie prime (il petrolio) e i tassi di cambio, e che inaugurarono una dinamica del capitalismo a un tempo più debole e più turbolenta. Insomma, anche la società opulenta stava rapidamente cominciando a fare i conti con molte delle sue contraddizioni.
La politica e la rivoluzione
Rodano non aveva aspettato quegli shock per criticare radicalmente il capitalismo (opulento) e per propugnare un suo radicale superamento. È il tema della necessità della gestione, attraverso la politica, della dinamica della struttura sociale. Ed è anche, quando la politica non si mostra all’altezza di questo suo compito, e frena la crescita sociale, invece di accompagnarla e promuoverla, il tema della necessità di cambiamenti radicali, ossia appunto della rivoluzione. Un’esigenza, quest’ultima, che Rodano condivideva con Marx, ma che assumeva per lui un significato profondamente diverso da quello che gli aveva assegnato il grande maestro del movimento operaio internazionale.
Per Marx, come è noto, la fuoriuscita rivoluzionaria dal capitalismo si sarebbe dovuta articolare in due fasi: nella prima la guida del processo di accumulazione del capitale sarebbe passata nelle mani dei lavoratori (dittatura del proletariato) per essere finalizzata a quello “sviluppo delle forze produttive” (oggi diremmo crescita della produttività) che non avrebbe potuto manifestarsi a pieno fino a quando la gestione dell’accumulazione fosse rimasta nelle mani dei privati; la seconda fase sarebbe iniziata soltanto quando, grazie allo sviluppo delle forze produttive, “tutte le sorgenti delle ricchezze sociali [avessero cominciato a scorrere] in tutta la loro pienezza”. In questa “fase più elevata della società comunista” – è sempre Marx che parla – sarebbero scomparse la subordinazione servile degli individui alla divisione del lavoro e il contrasto tra lavoro intellettuale e il lavoro fisico; e anzi il lavoro avrebbe cessato di essere soltanto un mezzo per procacciarsi la sussistenza, per diventare manifestazione di un’attività libera e “il primo bisogno della vita”, dato che per Mark la “pratica attività sensibile” (per usare le parole di Rodano) è nella natura dell’uomo. In sintesi, il passaggio rivoluzionario dal capitalismo alla società comunista (mediato dalla fase della dittatura del proletariato) si configura come il passaggio da un “mondo della necessità”, in cui il lavoro è subordinato alle esigenze della sussistenza e al comando del capitale, a un “mondo della libertà”, in cui appunto l’attività dell’uomo (il lavoro) è in grado di esprimersi senza alcun vincolo se non quelli che si è liberamente posto.
Negli anni della loro collaborazione alla Rivista Trimestrale (che poi si interruppe nel 1970) Rodano e Napoleoni avevano sottoposto il pensiero di Marx a una critica severa, arrivando alla conclusione che il sistema marxiano non reggeva al vaglio dell’analisi scientifica, a partire dalle insolubili difficoltà della sua teoria del valore-lavoro, che ne costituiva la struttura portante. Ma c’era di più. Le loro critiche riguardavano anche il processo rivoluzionario imperniato sulla dittatura del proletariato e sulla natura del comunismo.
Un’antropologia alternativa
In particolare, Rodano era convinto che ci dovesse essere un nesso molto forte tra rivoluzione e democrazia (un tema che meriterebbe di essere approfondito molto di più di quanto sia possibile in queste pagine). E soprattutto non condivideva la visione marxiana della società comunista, che comporta il passaggio dal “mondo della necessità” al “mondo della liberà”. La considerava figlia di un’antropologia ancora di tipo sostanzialmente signorile, secondo cui, appunto, l’uomo è veramente se stesso solo quando è libero dalla necessità del lavoro, e può svolgere la sua attività in modo incondizionato confrontandosi con fini e obiettivi liberamente (e arbitrariamente) scelti. Per Marx, insomma, il compito storico del proletariato era quello di creare le condizioni per cui lo status che nella società signorile era riservato solo a pochi (grazie allo sfruttamento del lavoro di molti) fosse accessibile a tutti.
Le riserve di Rodano riguardavano innanzitutto la possibilità che l’obiettivo di raggiungere per tutti una condizione di libertà dal bisogno fosse realizzabile in linea di principio. Secondo lui dietro quell’obiettivo c’era una concezione fissistica (e un po’ naturalistica) dei bisogni stessi. Ma gli anni della società opulenta mostravano, semmai, che la prospettiva di una crescita e di una complicazione senza fine dei bisogni – per quanto, in quel caso, realizzata in forme distorte, perché solo quantitative e perché alimentata prevalentemente dalle politiche delle imprese – fosse un’ipotesi molto più plausibile e realistica.
Anche in coerenza con questo punto, Rodano contrapponeva a quella marxiana una diversa antropologia. Questa – invece che sul “rifiuto del limite” e sulla “rapina dell’assoluto” (per usare due sue tipiche espressioni) – era fondata sull’idea della positività del finito, in cui appunto i bisogni, anche quelli più schiettamente individuali, non solo hanno una natura evidentemente comune (tutti hanno fame e sonno, freddo e caldo), ma non sono dati una volta per tutte, essendo invece suscettibili di un indefinito accrescimento (la lettura, lo sport, la mobilità, le vacanze, l’arte). In questo approccio anche il lavoro, una volta superate le forme primitive e ormai marginali dell’autoconsumo, ha una evidente natura collettiva. Questa si manifesta chiaramente nelle forme in cui viene prevalentemente utilizzato: forme, nel mondo moderno, organizzate dalle imprese e dai mercati, ma in un ambiente plasmato dalle istituzioni e dalla politica. Il lavoro è finalizzato a produrre le risorse necessarie per soddisfare i bisogni dati nella fase storica in cui si vive. Ma è anche il mezzo – data la razionalità degli uomini, la loro propensione a coordinarsi e la loro capacità di accrescere la produttività – per consentire all’umanità di andare oltre la situazione storicamente data e per affrontare bisogni via via più complessi e ricchi. In questo quadro il “mondo della necessità” ha una chiara connotazione dinamica ma rappresenta lo stato normale della condizione umana, mentre il “mondo della libertà” per tutti rappresenta un’utopia irraggiungibile.
Nel corso della storia passata, questa capacità di crescita qualitativa, sia pure restando all’interno del mondo della necessità, è stata spesso ostacolata, se non addirittura paralizzata, dall’assetto della società e dai meccanismi economici vigenti (Marx avrebbe detto dai “rapporti di produzione”). Così è stato appunto nel mondo signorile, quando la capacità razionale del lavoro di produrre surplus è stata messa al servizio della libertà dei “signori”. Così è stato nel capitalismo, quando il lavoro è stato messo al servizio della valorizzazione del capitale e della sua accumulazione, mentre la compressione dei salari verso il livello di sussistenza impediva l’evoluzione dei bisogni e del consumo verso forme più ricche. Così è stato nella società opulenta, quando la crescita dei consumi di massa c’è stata, ma ha assunto la forma della soddisfazione dei bisogni esistenti in forme più elaborate, anche in questo caso pregiudicando l’emergere di bisogni nuovi e più ricchi.
Ne consegue che per Rodano l’obiettivo della rivoluzione non può e non deve essere l’impossibile realizzazione di un “mondo della libertà” esteso a tutti, ma deve essere quello di rimuovere gli ostacoli che impediscono alla razionalità del lavoro di essere messa nella condizione di affrontare i sempre nuovi e più complessi bisogni che nel corso dell’evoluzione storica si manifestano all’orizzonte. Il che richiede – e qui ritroviamo una certa sintonia con Marx – un profondo cambiamento dell’assetto sociale e dei meccanismi economici in essere. Ma richiede anche, a differenza di Marx, che la costruzione del futuro sia affidata a meccanismi di consenso democraticamente organizzati, perché le caratteristiche della società futura non sono scritte una volta per tutte nella dialettica della storia.
Rodano e il pensiero cristiano
Ci sono nessi tra l’antropologia che Rodano contrappone a quella di Marx e il suo essere cristiano e cattolico? Rodano non avrebbe mai accettato di dirsi un pensatore cristiano (per lui l’indipendenza del pensiero è sempre stata un valore importante). Ma non c’è dubbio che abbia avuto un’intensa educazione cattolica (soprattutto da parte della madre). Sicché certi temi importanti del messaggio cristiano – che avevano alimentato e ancora suffragavano, almeno in parte, la sua visione antropologica – li aveva metabolizzati e assorbiti fin dall’infanzia.
C’era, per esempio, il fatto che per i cristiani il “mondo della libertà” (l’assoluto o, con un linguaggio più interno al cristianesimo, il paradiso) non è immanente ma trascendente. C’era l’influenza del messaggio che afferma, in linea di principio, l’uguaglianza di tutti gli uomini: figli di Dio e fratelli in Cristo. Come dice Paolo di Tarso (Lettera ai Galati) “non vi è giudeo né greco, né servo né libero, non vi è né uomo né donna” perché – aggiunge subito – “tutti siete uno solo in Cristo Gesù”. Ancora Paolo (Lettera ai Filippesi) afferma che gli uomini non solo sono tutti uguali ma sono anche, come commenta Rodano, accomunati in una condizione di servizio. E non c’era solo questo. C’era ancora la rivendicazione con cui si apre il libro della Genesi, ossia che la natura (il creato) è “cosa buona”, giudizio che perciò si estende anche all’uomo (la prediletta tra tutte le creature).
Tuttavia, quest’ultimo punto dell’antropologia cristiana si deve confrontare con le conseguenze del peccato originale, che ha l’effetto di corrompere la bontà della natura umana. Sempre al peccato originale è connessa una valutazione riduttiva del lavoro: Il riferimento – è ovvio – è al “lavorerai col sudore della tua fronte”, la maledizione che Dio scaglia contro Adamo; una frase (sempre della Genesi) ripresa e commentata da Marx in un famoso brano dei Grundrisse, in cui, discutendo la posizione di Adam Smith sul lavoro, argomenta la propria tesi che l’attività lavorativa può essere soddisfacente e piena soltanto quando è sottratta alla necessità del bisogno (senza che ciò escluda che il lavoro libero comporti serietà, impegno e fatica e tanto meno che lavorare non sia fisiologicamente necessario).
La corruzione della natura umana e la svalutazione del lavoro come conseguenza del peccato originale sono centrali per una importante corrente della teologia cristiana che parte ancora da Paolo di Tarso (Lettera ai Romani), riceve un deciso impulso da Agostino e raggiunge le sue formulazioni più nette e radicali in Lutero e Calvino, i padri fondatori della Riforma protestante.
Rodano prendeva molto sul serio le tesi della Riforma, anche perché le aveva studiate con grande impegno e attenzione. E sapeva perciò che le conclusioni di Lutero e, soprattutto, di Calvino ponevano più di un problema alla sua antropologia e alle sue tesi sulla rivoluzione. Se la natura umana è corrotta e il lavoro è una maledizione, se per raggiungere la salvezza le opere non contano e ci si può affidare solo alla grazia (un dono arbitrario e insindacabile di Dio), allora lavorare laicamente per il cambiamento della società diventa impossibile. Sembra che non rimanga altro da fare che rassegnarsi all’esistente, alla “sussunzione del lavoro nel capitale” (altra espressione di Marx): una generalizzazione dello status servile che è l’unico modo concepito da Calvino per ribadire l’uguaglianza terrena di tutti gli uomini. Se si vuole andare oltre non resta, appunto, che affidarsi ai disegni imperscrutabili di Dio e ai suoi doni di grazia (che però non sono per tutti) o, se si preferisce, alla provvidenza. Questo, ovviamente, se si sceglie di non optare per l’eresia di Pelagio, che rivendicava la bontà della natura umana e la sua capacità di attraversare il peccato di Adamo senza esserne corrotta, sicché per il monaco britannico rimaneva del tutto aperta la possibilità della salvezza attraverso le opere e senza che fosse necessario l’intervento della grazia (due punti che, come abbiamo visto, sarebbero stati radicalmente negati dai pensatori della Riforma). Naturalmente rimaneva aperta la possibilità di imboccare con decisione una strada ancora più netta e radicale, quella dell’ateismo. Ma a questo Rodano non era disposto.
Per sua fortuna, c’era la possibilità di attingere a un altro filone del pensiero cristiano che arrivava a conclusioni molto meno drastiche e pessimistiche sulla natura umana e sul lavoro; e perciò lo avrebbe aiutato a sciogliere con nuovi argomenti (più solidi di quelli cui si era affidato negli anni della sua giovinezza) il nodo concettuale del ruolo costruttivo (e in certe circostanze rivoluzionario) della politica e quello della sua separazione dalla religione. Il punto di partenza di quest’altro filone era ancora nelle Lettere di Paolo, stavolta nei brani in cui affermava che l’incarnazione del Cristo, il suo condividere la condizione umana fino in fondo, compresa la morte, anzi fino all’estremo sacrificio della crocifissione, ha la finalità (e l’effetto) di riscattare l’umanità dal peccato originale: come si trova scritto nel canone della messa, il suo sangue è stato versato per tutti, in modo da riscattare i loro peccati.
La valutazione degli effetti del sacrificio di Cristo consentirà secoli dopo a Tommaso d’Aquino di attenuare molto, rispetto alla cupa visione di Agostino, gli effetti del peccato sulla natura umana e sul lavoro: la bontà della prima non è scomparsa del tutto, ma si è solo indebolita; e anche il secondo, l’“opera della ragione e delle mani”, viene almeno parzialmente rivalutato. Il passo successivo su questa strada verrà effettuato dai teologi gesuiti della Controriforma, i quali, anche spinti da esigenze polemiche nei confronti delle tesi dei protestanti, rivendicheranno il valore della natura umana, intesa – commenta Rodano – come accettazione del limite; affermeranno la positività del finito (in quanto creato) e dell’essere umano (in quanto creatura), senza che siano necessari interventi di grazia.
Rodano si appoggiava a questa teologia controriformata, ma lo faceva in modo laico, smussandone le punte più radicali, perché era convinto che la sua antropologia, così come emerge dalla lettura delle pagine precedenti, è sì stata mantenuta in vita dal cattolicesimo, ma può essere condivisa da tutti coloro che ragionano sulla condizione umana assumendo come punto di partenza che la propria esistenza è limitata dal bisogno e perciò dalla necessità, senza che ciò comporti una scelta di fede. Vi aggiungeva la qualificazione che il limite naturale non è fisso, non è dato una volta per tutte, ma evolve dinamicamente. Questo, almeno, quando il lavoro può esprimere fino in fondo la sua funzione di servizio sociale, quando cioè non viene bloccato dallo sfruttamento signorile o non viene catturato e snaturato dalla meccanica asfissiante del capitalismo. Ciò gli consentiva di ribadire le sue tesi fondamentali: quella della separazione tra politica e religione; e quella di una politica rivoluzionaria intesa non come “rapina dell’assoluto” ma come superamento degli ostacoli che bloccano o rallentano la crescita naturale dell’umanità.
Una politica, perciò, che per prendere l’iniziativa del cambiamento non doveva attendere che i tempi fossero maturi; non doveva aspettare, come avrebbe detto invece Marx, che le contraddizioni del capitalismo avessero condotto quest’ultimo alla sua crisi irreversibile. Poteva e doveva farlo, anzi, tutte le volte che si fossero manifestati lo spazio e la necessità per un’azione che facesse fare all’assetto sociale esistente un significativo passo in avanti. Del resto, è in questa logica che Rodano interpretava la svolta di Togliatti nel 1944: appunto come un’iniziativa politica che, lungi dal presentarsi come un compromesso, indicava ai comunisti un percorso per la costruzione di una “democrazia progressiva”, aperta al cambiamento.
Il “compromesso storico”
Per completare (o almeno arricchire) questo profilo del pensiero di Franco Rodano dobbiamo considerarne la posizione su un tema spiccatamente politico dei suoi tempi: quello del “compromesso storico”. Se vogliamo aggiungere un’etichetta alle due illustrate (e criticate) in precedenza (Rodano “eminenza grigia” e Rodano “cattocomunista”), allora una terza che ai suoi tempi andava per la maggiore era proprio quella che lo vedeva come il padre e l’inventore del “compromesso storico”, inteso sbrigativamente – come spesso accade nella pubblicistica quotidiana – come l’accordo politico tra i due grandi partiti di massa della prima repubblica, il partito comunista e la democrazia cristiana.
Quando ci si confronta col pensiero di Rodano senza andare a fondo ma limitandosi a scalfirne la superficie, è facile, come in questo caso, dire qualcosa di sbagliato. La verità storica è che quella del compromesso storico è stata una proposta di Enrico Berlinguer, formulata nel 1973, prendendo spunto dalle sue riflessioni sul golpe che in Cile aveva sanguinosamente posto fine al governo delle sinistre guidato da Salvator Allende e alla morte di quest’ultimo. Abbiamo visto che negli anni Settanta del secolo scorso l’economia (italiana e non solo) conobbe una fase di crescita a un tempo più debole e più turbolenta. Questa debolezza e questa turbolenza contagiarono anche gli assetti sociali, mettendo in tensione la struttura democratica (italiana e non solo): nel nostro paese erano gli anni degli attentati, delle stragi, del terrorismo; ed erano anche gli anni in cui si formavano sottotraccia (e talvolta emergevano alla luce) tentativi di golpe, in certi casi influenzati più o meno direttamente da pezzi di Stato che agivano nell’ombra, quando non proprio da potenze straniere.
È appunto in questo clima che maturò la proposta di Berlinguer. Con essa si rivolgeva da una parte alle forze popolari di ispirazione comunista e socialista e dall’altra a quelle di ispirazione cattolico-democratica, e le invitava a deporre temporaneamente le armi, a mettere da parte il loro atteggiamento conflittuale; insomma, appunto, a fare un compromesso, a collaborare in vista di un obiettivo difensivo, ma comune e urgente, quello di salvaguardare l’assetto democratico del paese.
Se si escludono le resistenze minoritarie e transitorie dei comunisti della tradizione frontista, convinti ancora che il movimento operaio potesse arrivare al potere contando esclusivamente sulle proprie forze, la proposta di Berlinguer venne accettata dalla larga maggioranza del suo partito. Ma, come spesso avviene, esso si divise sulla sua interpretazione. Un’area del Pci lo vide come l’occasione per superare la conventio ad escludendum che, dall’inizio della Guerra fredda e dalla divisione dell’Europa in sfere di influenza, aveva comportato l’esclusione di quel partito dal governo. Ne dava insomma un’interpretazione sostanzialmente tattica. Lo vedeva, cioè, come una scorciatoia per portare finalmente il Pci al governo.
Un’altra corrente del partito ne condivideva la funzione di difesa di una democrazia sotto attacco e perciò la apprezzava. Ma la vedeva come una parentesi, una proposta a tempo: una volta che i pericoli per la democrazia fossero cessati, avrebbe avuto senso tornare a una normale dialettica parlamentare con l’alternanza tra una sinistra (Pci più Psi) sostanzialmente socialdemocratica e un partito di ispirazione cristiana sostanzialmente conservatore. Un esponente di spicco di questa posizione era, per esempio, Giorgio Napolitano. Anche in anni più recenti, quando era diventato Presidente della Repubblica, promosse in più di una occasione governi di unità nazionale e solidarietà democratica, appunto tutte le volte che le circostanze politiche facevano emergere la prospettiva di posizioni di stallo pericolose per il quadro democratico. Al tempo stesso, tuttavia, vedeva questi governi come eccezioni, sia pure temporaneamente necessarie. Del resto, lo stesso Berlinguer, una volta consumata alla fine degli anni Settanta l’esperienza della solidarietà nazionale, riportò risolutamente il Pci sulla strada dell’opposizione.
Come mai, allora, Franco Rodano è passato alla storia come il padre del compromesso storico? Certamente il suo rapporto con Berlinguer aveva convinto quest’ultimo che le ambizioni del Pci di fare da solo erano illusorie; che comunque anche col 51% sarebbe stato impossibile governare l’Italia. E così pure lo aveva convinto che per cambiare sul serio le cose in Italia erano indispensabili i contributi degli esponenti del cattolicesimo democratico (che militavano nella Dc) e di quelli del socialismo democratico (che militavano nel Psi). Ma Rodano vedeva l’incontro tra queste tre grandi forze della politica e della democrazia italiana in modo un po’ diverso, e in una prospettiva di più lungo respiro, rispetto a come poi lo avrebbe presentato Berlinguer.
Una premessa. I numeri sono importanti e Rodano era ben lungi dal sottovalutarli (chi lo ha conosciuto può testimoniare che non disdegnava di cimentarsi anche nei giochi aggrovigliati della tattica politica quotidiana). Ed è chiaro che una coalizione di quei tre grandi partiti – se si fosse riusciti a realizzarla (l’inciso è importante) – sarebbe stata forte di una maggioranza quanto mai solida. Di conseguenza, la convinzione di Rodano era che essa non sarebbe stata costretta a svolgere soltanto il compito meritorio ma limitato di difendere una democrazia in pericolo, ma avrebbe potuto affrontare i problemi a breve e quelli a lungo termine della società e dell’economia italiana, un po’ sul modello dell’iniziativa togliattiana del 1944. Tuttavia, a Rodano importavano soprattutto altri risultati che avrebbero potuto scaturire dall’incontro tra quelle tre forze.
Secondo lui, ciascuna di esse veniva da una grande tradizione ed era portatrice di idee importanti sul presente e il futuro della società italiana (e non solo). Ma tutti e tre i partiti le vivevano in modo chiuso ed esclusivo; contrapponevano la propria visione della società e il proprio approccio a quelli degli altri due. E questo finiva col compromettere la spinta propulsiva di ciascuno di essi, ad azzopparne l’azione. Per Rodano sarebbe stato necessario che tutti e tre si mettessero in gioco, si aprissero al confronto e, nel confronto, accettassero di trasformarsi. Dovevano acquistare la consapevolezza che né il Pci, né il Psi, né la Dc possedevano la formula magica per risolvere i mali della società italiana e per farle fare un deciso passo in avanti, ma che ciascuno dei tre possedeva degli elementi che, opportunamente valorizzati e amalgamati, avrebbero potuto fornire alla politica le munizioni di cui aveva bisogno. Di questo Rodano aveva parlato e continuava a parlare con Berlinguer. E in effetti, leggendo gli articoli di quest’ultimo, traspaiono in controluce vari elementi dell’approccio appena illustrato. Probabilmente, per Rodano essi non erano sufficienti ad attivare una svolta politica all’altezza delle esigenze della società italiana di allora. Ma lo avevano convinto a sostenere con tutte le sue forze la svolta berlingueriana, sperando che questa evolvesse nella direzione che lui desiderava.
Sappiamo che questa evoluzione non c’è stata. La proposta di Berlinguer ha dato a suo tempo frutti importanti. Per esempio, i governi di solidarietà nazionale consentirono all’Italia di attraversare senza troppi danni le tempeste degli anni Settanta (ma lasciando anche molti problemi aperti). Certamente però non ha condotto alla svolta che Rodano sperava. Non è un caso, del resto, che il decennio successivo si sia aperto col ritorno del Pci all’opposizione. Questo perché nessuno dei tre partiti era stato capace di mettersi in gioco fino in fondo e di avviare un dialogo che andasse al di là della gestione dei problemi immediati. Non lo erano stati i comunisti, anche se forse, come suggerisce la loro storia successiva, erano stati quelli che ci avevano provato di più. Non lo erano stati i democristiani. Qui ha contato, probabilmente, il rapimento e la successiva uccisione di Aldo Moro (il leader democristiano più aperto a un dialogo e a un confronto che andasse oltre la contingenza quotidiana). La scomparsa di Moro lasciò la leadership del partito ad Andreotti, un politico abile e scaltro (e con parecchi punti oscuri) ma senza alcun interesse per le prospettive di medio e lungo periodo.
Forse, però i più ostili all’approccio rodaniano erano stati gli esponenti della nuova dirigenza del Psi, che aveva definitivamente sepolto la vecchia politica frontista dell’unità con i comunisti in nome dell’“autonomia socialista”. Era un atteggiamento spiegabile con la preoccupazione che un accordo di potere tra Dc e Pci – la dirigenza socialista tendeva a interpretare il compromesso storico in questo modo cinico e riduttivo – avrebbe sottratto spazio al partito socialista, schiacciandolo come il classico vaso di coccio; e con la speranza simmetrica che, se il Pci fosse stato ricacciato all’opposizione, sarebbe stato il Psi che gli avrebbe sottratto spazio, consolidando anche la propria golden share nel suo più che decennale rapporto con la Dc. A leggere gli avvenimenti degli anni Ottanta del secolo scorso, viene da dire che per il Psi quell’atteggiamento avrebbe fornito notevoli dividendi, sia pure solo per un breve periodo.
Lo stesso non può dirsi per la società italiana. E, pensando a quel che è successo dopo, tutti e tre i partiti su cui Berlinguer e Rodano avevano investito le loro speranze vennero travolti. Stava iniziando il medioevo della Seconda Repubblica, una strana democrazia in cui la politica, l’arte del possibile, si mostrava sempre meno in grado di guidare le masse interpretandone gli interessi più vitali, mentre sempre più spesso era il popolo a imporre alla politica il compito di soddisfare le proprie pulsioni più immediate. Nel frattempo, però, sia Rodano che Berlinguer avevano lasciato questo mondo. Col senno di poi viene da dire che, se i partiti della prima repubblica avessero accettato la versione della proposta di Berlinguer interpretata da Rodano, quella di mettersi in discussione e di cercare un incontro strategico, forse sarebbero sopravvissuti, anche se in forme e modi che non è dato conoscere. E la società e la democrazia italiana ne avrebbero tratto un indiscutibile e duraturo giovamento.