Scritto da Federico Diamanti
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Questo contributo rappresenta la tappa intermedia di un ciclo di articoli dedicato all’analisi del pensiero di Piero Gobetti. Il precedente contributo verte su formazione delle élite e crisi della rappresentanza liberale e quello conclusiva sulle riviste come strumento politico e il caso de “La Rivoluzione liberale”.
Nell’ottica di una riformulazione delle categorie di rappresentanza democratiche in Italia, emerge nell’opera di Piero Gobetti una ricerca e una analisi precisa e puntuale dei nuovi strumenti politici tramite i quali si possa portare energia nuova al dibattito politico del paese.
Una particolare e positiva eccezione, che questo articolo tenterà di analizzare, è riservata al gruppo dell’Ordine nuovo di Torino e ai comunisti torinesi. Capiremo in pochi passaggi perché proprio ai comunisti torinesi e non tanto al neonato Partito comunista d’Italia. Una critica e un elogio torinese, ma che non per questo pecca di provincialismo e non per questo si limita ad una analisi contingente. Per il contesto della città di Torino negli anni Venti, della Torino socialista e operaia, rimando al volume di Paolo Spriano, che a lungo si è occupato di Gramsci, Gobetti e del PCI, dal titolo: Storia di Torino operaia e socialista (Torino, 1972).
Veniamo però alla riflessione gobettiana, che più ci interessa in questo momento. Analisi molto importante per una comprensione generale del Gobetti: in essa, infatti, si condensano almeno tre fondamentali elementi della generale critica ai meccanismi di rappresentanza liberale in Italia: 1) il ruolo della classe operaia, non rappresentata nonostante la sua fondamentale importanza; 2) l’insufficienza, nelle condizioni date, del sistema liberale classico; 3) il meccanismo di formazione di una classe dirigente che nasca da un sostrato di una classe sociale matura e consapevole del suo ruolo nella storia.
A Torino, per dirla con uno “scrittore comunista”, “il gigantesco apparato industriale sviluppatosi nel dopoguerra aveva creato un piccolo Stato capitalista con i suoi meccanismi di gestione e con i suoi equilibri”. L’accentramento industriale venne a creare l’accentramento operaio, e la “selezione degli spiriti direttivi” – afferma proprio Gobetti – all’interno della classe operaia fece sì che il processo di selezione della classe dirigente della stessa classe si sviluppasse molto più (e molto meglio) che altrove: questo fatto, congiunto alla presa di coscienza della necessità della classe operaia all’interno del processo di produzione, non poteva non avere delle conseguenze politiche.
In una situazione però così circoscritta e limitata – potremmo dire microcosmica –, senza orizzonte di sviluppo ideale per la lotta politica e al contempo senza effettivi rivolgimenti pratici dell’azione, due sarebbero state le strade possibili per il movimento operaio torinese: la confusa agitazione demagogica (rivendicazione di diritti, scioperi “astratti”, il tafferuglio politico che prevale sulla lotta per la rappresentanza di un blocco storico) e il pauroso ripiegamento retrivo del riformismo (uno dei maggiori nemici di Gobetti, che non a caso, provocatoriamente, si definisce “rivoluzionario”).
A Torino, però, accadde qualcosa di diverso, magistralmente descritto da Gobetti – che, a differenza di Gramsci, Tasca e Togliatti, motori intellettuali e politici di quel periodo, ha il pregio di vivere la situazione da “esterno”. Ecco che i “giovani dell’Ordine nuovo” riescono a sfruttare le condizioni del tempo per creare un organismo in grado di raccogliere tutti gli sforzi produttivi legittimi, aderendo plasticamente alla realtà delle forze storiche e “ordinandole liberamente in una gerarchia di funzioni, di funzioni, di valori, di necessità”: in sintesi, l’esperienza dei consigli di fabbrica della fine del secondo decennio del Novecento a Torino è frutto della fortunata compenetrazione tra condizioni economiche (con un profondo risvolto sociale) ed elaborazione teorica (con un profondo risvolto politico).
Lo “scatto rivoluzionario” di Gobetti
Il sindacato sta altrove: è, a detta di Gobetti, “organo di resistenza, non di iniziativa. Tende a dare all’operaio la sua coscienza di salariato, non la dignità del produttore: lo accetta nella sua condizione di schiavo e lavora per elevarlo, senza rinnovarlo, in un campo puramente riformistico e utilitario.” La peculiarità del consiglio di fabbrica d’altro canto permette all’operaio di sentirsi riconosciuta la sua dignità di elemento indispensabile alla vita moderna (esattamente come era stata la classe borghese nelle rivoluzioni ottocentesche), ma soprattutto crea la possibilità di una collaborazione decisionale non solo con “il padrone”, ma “coi tecnici, cogli intellettuali, cogli imprenditori, pone al centro delle sue aspirazioni non il pensiero dell’utile particolare, ma un ideale di progresso e di autonomia per cui egli possa rafforzare le sue attitudine, e cerca di fondare un’organizzazione pratica attraverso la quale la sua classe conquisti il potere”.
Alla base della esperienza dei consigli di fabbrica c’è chiaramente l’acquisizione di una consapevolezza da parte della classe operaia, che naturalmente non poteva essere estesa ad una situazione estesa all’intera nazione, ma il fine è ben differente da una attesa messianica di una rivoluzione, di una società senza classi, di una emancipazione dai meccanismi produttivi e così via (proprio la tentazione messianica sarà la maggiore critica che Gobetti rivolgerà all’astrattismo comunista e all’altrettanto astratto “apostolato politico” del Mazzini).
L’obiettivo operaio era limpido: la conquista del potere: contingente, chiaramente, ma strumento in dotazione del quale una classe dirigente può cambiare lo stato delle cose: una classe dirigente, parola di Gobetti, che fosse “aristocrazia venuta dal basso” sarebbe stata la sola classe dirigente capace di ricevere l’eredità della classe dirigente esausta. Lo strumento, altrettanto netto. Gli operai, chiamati a raccolta, riuscirono nei consigli di fabbrica a dotarsi di una loro personalità politica – che la classe politica “liberale” non era evidentemente più in grado di rappresentare.
È proprio riguardo questa questione, che impegnò la politica torinese e italiana all’altezza del 1920, che si insinua il vero “scatto rivoluzionario” in Gobetti, l’esatta presa di coscienza della strada possibile per uscire dalla crisi della rappresentanza liberale e in generale la crisi della politica italiana. A differenza del sindacato, altro corpo intermedio, che si era rivelato assolutamente insufficiente senonché arroccato su posizioni collaborazionistiche ed eccessivamente burocratiche (la stessa critica che fu poi rivolta al neonato Partito comunista d’Italia), l’esperienza dei consigli di fabbrica, seppur fallita, segna la precisa istanza di una generazione desiderosa di rinnovare “l’economia come le coscienze”. Una generazione “fuori di ogni pregiudizio di partito, pensoso degli effetti della crisi postbellica che è crisi di volontà, di coerenza, di libertà, una generazione che confidi ancora in una ripresa del movimento rivoluzionario interrotto nel Risorgimento che penetri finalmente nello spirito delle masse popolari e le svegli alla libertà, e che dovrebbe scorgere in questi sentimenti” – ovvero nelle condizioni storiche che fecero sì che i consigli di fabbrica potessero inverarsi – “la via maestra alla lotta politica”.
I comunisti torinesi, tra cui Gramsci risulta essere il più stimato da Gobetti (insieme concorreranno a creare quella che Spriano definì una “etica laica” indistruttibile nella memoria delle generazioni successive di antifascisti), avevano superato la fraseologia libertaria e demagogica e si proponevano problemi concreti. “Contro la burocrazia sindacale affermavano le libere iniziative locali. Movendo dalla fabbrica si assumevano l’eredità specifica della tradizione borghese proponendosi non già di creare dal nulla una nuova economia, ma di riprendere e continuare i progressi della tecnica produttrice raggiunta dagli industriali”.
Questo fu il merito dei consigli di fabbrica e di chi ne fu ideologo e organizzatore: congiungere ad una analisi sul reale e sulle categorie di rappresentanza politica una azione politica che, seppur limitata ad un ambiente ben circoscritto, potesse essere svincolata da irrealizzabili pretese ideali e potesse oggettivamente determinare un cambiamento della realtà circostante. Solo un meccanismo virtuoso del genere poteva garantire la formazione di una classe dirigente in grado di affrontare le sfide iniziate dal risorgimento.
Anche in questo articolo, come nel precedente, s’è rinunziato alle note a pie’ di pagina: tutte le citazioni gobettiane sono reperibili in Rivoluzione liberale, libro II, cap. IV (qualsiasi ed. si consulti).