“Corpi viventi” di Miguel Benasayag e Bastien Cany
- 30 Giugno 2025

“Corpi viventi” di Miguel Benasayag e Bastien Cany

Recensione a: Miguel Benasayag e Bastien Cany, Corpi viventi. Pensare e agire contro la catastrofe, traduzione di Eleonora Missana, Feltrinelli, Milano 2022, pp. 272, 22 euro (scheda libro)

Scritto da Victoria Weston

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In Corpi viventi Miguel Benasayag riprende e approfondisce, insieme a Bastien Cany, i celebri temi trattati in L’epoca delle passioni tristi e Oltre le passioni tristi: la feroce critica alla società neoliberista e all’individualismo, la lacerazione del tessuto sociale, il mito del funzionamento e l’impotenza che ne deriva. In questo testo del 2022, Benasayag recupera l’analisi svolta nei libri precedenti, applicandola alla questione della crisi climatica: davanti alla distruzione degli ecosistemi del pianeta e all’irreversibilità del danno climatico, come agire? Ma soprattutto, l’essere umano è ancora capace di agire contro la catastrofe?

Sembra, infatti, che l’uomo contemporaneo sia colto da una paralisi davanti alla catastrofe climatica: incapace di reagire alla propria inerzia, l’individuo oscilla tra la consapevolezza della minaccia ecologica e un oblio autoimposto della sua portata. Come è successo? Miguel Benasayag e Bastien Cany sostengono che, per capire le ragioni dietro alla passività dell’uomo contemporaneo, bisogna chiedersi non tanto “come agire?”, ma “chi agisce?”. Infatti, per affrontare le problematiche odierne legate alla crisi ecologica, l’uomo deve in primis comprendere quale sia la sua posizione rispetto all’ambiente e al resto del vivente; una posizione che, secondo gli autori, è stata a lungo fraintesa.

Quando l’uomo contemporaneo si volta indietro a guardare il passato vi scorge le vestigia delle grandi narrazioni della modernità: il futuro, la religione, il progresso. Ormai orfano di questi miti, egli sente che il mondo sta collassando davanti ai suoi stessi occhi, totalmente incapace di reagire alla catastrofe. Benasayag e Cany avanzano la tesi secondo la quale non è propriamente il mondo a disfarsi, ma l’individuo come è stato interpretato sino a ora in Occidente, vale a dire l’uomo cartesiano. L’uomo così inteso è colui che opera una scissione tra sé e il mondo: da una parte l’individuo-soggetto, padrone del suo ambiente, e dall’altra il mondo-oggetto, materia grezza e passiva che l’individuo-soggetto può sfruttare e modellare a proprio piacimento. Nella postmodernità questa concezione dell’uomo inizia a barcollare: «L’uomo della modernità considerava il mondo-oggetto come lo sfondo di uno scenario allestito dinanzi a lui affinché vi si potesse svolgere la sua vita. L’uomo postmoderno sente ormai quello sfondo sfasciarsi alle sue spalle, senza comprendere che è proprio lui in quanto soggetto che si sta sfaldando» (p. 23).

Questo soggetto, svuotato e dislocato, della postmodernità viene definito dagli autori “profilo”. Il profilo è frutto di un processo di dissoluzione del soggetto moderno, causato dall’idea, ormai dominante nelle società neoliberiste e individualiste, che l’uomo in fin dei conti altro non è che un semplice aggregato di unità elementari, dati quantificabili, il cui funzionamento è paragonabile a quello di una macchina.

La cibernetica, dal canto suo, esaspera l’assimilazione dell’uomo alla macchina trasformando il campo biologico in una dimensione dell’informazione. Il processo, avviato dai dettami delle società neoliberiste, prosegue in mano alla società dell’informazione: «La postmodernità aveva già prodotto quell’ideale dell’uomo imprenditore-di-se-stesso che gestisce la sua vita come si gestisce un capitale. Un modello di uomo in “pezzi distaccati”, modulare e flessibile, la cui unità non sussisteva se non ricostruita artificialmente attraverso la cattura dei suoi moduli da parte dei macro-organismi economici e produttivi. L’era digitale ha completato l’opera dislocando ciò che ancora rimaneva di quella unità disgregata in un’infinità di “profili” digitali» (p. 164).

La digitalizzazione della società, secondo Benasayag e Cany, dà luogo a un mondo totalmente trasparente, che trasforma tutto in informazione e nega ogni specie di alterità. Tuttavia, il vivente è esattamente ciò che conserva una quota di opacità, che non è mai uguale a se stesso, ma che contiene sempre una certa distanza di sé dal sé. Annullando questa distanza, la cibernetica opera una vera e propria «riduzione dell’esistente al “tutto funzionamento”» (p. 147), dando luogo a quel soggetto svuotato di sé che è il profilo. L’uomo così inteso ha perso la capacità di agire nel mondo, anzi «il suo orizzonte ultimo non è più la trasformazione del mondo, ma solo la speranza di farsi ancora un posto in esso. Per tale individuo […] la vita non è più un destino collettivo, ma una storia personale» (p. 35).

Non è più possibile identificare l’individuo così inteso con la vita, il pensiero o la cultura. Egli, semplicemente, è un assemblaggio di unità elementari, il cui funzionamento, esattamente come quello di una macchina, segue una logica bottom-up: l’uomo altro non è che la somma delle unità che lo compongono e in tal senso è totalmente trasparente a se stesso e agli altri. Nonostante l’individuo postmoderno sia diventato un profilo, egli si percepisce ancora come l’uomo cartesiano, l’individuo soggetto dell’azione, vale a dire colui che intende il mondo come palcoscenico e se stesso come protagonista indiscusso della realtà. Secondo gli autori, causa del generale senso di impotenza che dilaga nelle società della postmodernità, le quali percepiscono ormai il mondo come una molteplicità caotica e opaca, è esattamente questo passaggio da individuo a profilo: «Il mondo è quindi quella creazione immaginaria di una globalità globalizzante che si presenta come l’oggetto per l’individuo soggetto. Se tale dispositivo ha conferito incontestabilmente una certa potenza di agire agli umani, il diventare profilo dell’individuo ha come corollario la sua esplosione» (p. 36).

Infatti, dal canto suo, anche il mondo-oggetto è stato travolto dalla fine dei grandi miti della modernità. Con la nascita delle scienze non-euclidee a inizio Novecento, da oggetto di studio prevedibile e quantificabile, il mondo approda ai lidi dell’imprevedibile e dell’inconoscibile. Fino a quell’istante l’evoluzione delle società umane poteva ancora essere vista come un inesorabile cammino verso la luce: una curva ascendente dall’oscurità della preistoria alle vette illuministiche della modernità che, ipoteticamente, non avrebbe mai terminato di crescere. Con l’affacciarsi dell’imprevedibilità, il mito del progresso, definito dagli autori “futuro promessa” si trasforma in un “futuro minaccia”, in cui non solo si estingue la speranza di un futuro migliore, ma l’uomo stesso, da padrone della Terra, diventa la minaccia: il distruttore del pianeta e dei popoli che lo abitano, tutto in nome di un progresso che si è rivelato fallace.

La separazione uomo/mondo, secondo gli autori, operata in primis dalla modernità e successivamente amplificata nella postmodernità dall’emergere del profilo, oscura la reale unità del vivente, di cui ogni specie altro non è che una piega che concorre alla produzione di ogni singola situazione. L’essere umano tende a percepirsi come separato dal resto del vivente a causa dei ritagli che egli opera nel mondo. Tramite quei ritagli egli è capace di individuare una quantità indefinita di elementi separati e finiti. Tale capacità di discernere elementi discreti nel mondo, tuttavia, dipende dal funzionamento del cervello umano e non deriva necessariamente da una reale separazione di entità nel mondo, anzi: «È proprio a partire da una situazione di coproduzione che possiamo, a posteriori, distinguere corpi strutturati e un contesto» (p. 64). Il mondo è il risultato di una coproduzione a cui partecipa tutto il campo biologico. L’uomo è una semplice istanza nell’incessante coproduzione della realtà, a cui prende parte per il solo fatto di essere un corpo in situazione.

Partendo da questi presupposti, gli autori propongono una teoria basata sulla totale riappropriazione dei corpi e della loro potenza di agire, ma non a partire da una posizione teorica e astratta: nelle singole situazioni concrete che si presentano all’uomo: «Non si resiste al neoliberismo, al disastro ecologico e all’arbitrarietà politica se non attraverso azioni ristrette concrete, in situazioni singolari» (p. 240). La nozione di “azione ristretta” in tal senso rimanda alla rinuncia di ricondurre ogni situazione a una sintesi totalizzante e globalizzante. Ogni situazione è un istante a sé, capace di produrre azioni che dispieghino nuovi possibili e, a loro volta, nuove situazioni.

L’azione in questo senso si dispiega nell’individuazione che la situazione produce, come espressione dell’affettività dei corpi, non intesi come corpi individuali, ma come le infinite pieghe che vanno a formare il campo biologico. In un contesto che incoraggia la reificazione totale dei corpi, è nella situazionalità dei corpi che bisogna cercare la risposta: «L’idea del vero non fa mai riferimento a un enunciato pre-esistente che planerebbe in modo astratto al di sopra delle situazioni» (p. 229). È solo nell’hic et nunc della situazione che si possono ricomporre i rapporti recisi del campo biologico, accettando l’incertezza insita in ogni situazione; incertezza che, una volta interiorizzata, sarà capace di rinnovare la potenza dei corpi e rendere di nuovo proficua l’azione umana. Questa posizione, secondo gli autori, corrisponde a quella di un’etica situazionale, che implica la rinuncia ad aspirazioni teleologiche e a un’azione separata dai legami del mondo. Il soggetto dell’agire, dunque, è colui che prende coscienza del comune del vivente: «L’ “io” che assume il suo destino non è quindi un “io” personale, ma un’istanza di partecipazione al comune» (p. 244).

Corpi viventi è dunque un appello all’azione in un’epoca che sembra non esserne capace. Miguel Benasayag e Bastien Cany ripercorrono i motivi che hanno condotto alla situazione odierna di impotenza, proponendo vie alternative a quelle assunte fino ad ora per “pensare e agire contro la catastrofe”, come recita il sottotitolo. La crisi climatica è un’inevitabile conseguenza del rapportarsi dell’individuo cartesiano (o kantiano) al mondo, che, inizialmente, da padrone dell’ambiente, sfrutta e manipola a proprio piacimento il mondo-oggetto che gli si dispiega davanti. In un secondo momento, da distruttore dell’ambiente, si trova impotente ad agire davanti agli effetti catastrofici della propria azione.

In entrambi i momenti, l’uomo non smette di sentirsi soggetto indiscusso del mondo. Questa è la prospettiva che gli autori cercano gradualmente di smontare: «Ciò che chiamiamo realtà dipende da quella trama dinamica che designa l’attività permanente di coproduzione del vivente in relazione al suo ambiente» (p. 99). Ogni specie contribuisce all’emergere della realtà in un rapporto dinamico e incessante con l’ambiente e con le altre specie, dando luogo a un campo biologico di cui ognuno è una semplice parte, una piega che concorre alla creazione di ogni situazione che si presenta nel mondo. La capacità di agire deve partire da questo, dal presupposto di una trasformazione radicale della posizione dell’uomo nel mondo. «La figura dell’individuo è la gabbia nella quale ci propongono di rinchiuderci e nella quale ci isoliamo noi stessi. Ci sarebbero quindi da una parte i prigionieri e dall’altra il mondo. Ma in questo dispositivo, le sbarre sono l’unica cosa reale» (p. 242).

Scritto da
Victoria Weston

Ha conseguito una laurea magistrale in Scienze filosofiche all’Università degli Studi di Milano.

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