“Corporate diplomacy” di Vittorio Cino e Andrea Fontana
- 28 Ottobre 2021

“Corporate diplomacy” di Vittorio Cino e Andrea Fontana

Recensione a: Vittorio Cino e Andrea Fontana, Corporate diplomacy, Egea, Milano 2019, pp. 120, euro 16 (scheda libro)

Scritto da Giuseppe Palazzo

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Sempre più si discute del ruolo delle imprese, soprattutto tecnologiche. Ruolo che va ben oltre gli affari e che investe anche la dimensione politica e sociale. Sull’onda della globalizzazione è infatti cresciuto il potere delle grandi imprese multinazionali, in termini di capitali, tecnologie e visibilità. Queste aziende si sono dovute dotare di nuovi strumenti per interpretare un nuovo ruolo, che implica rischi e responsabilità inediti.

Corporate diplomacy, edito da Egea e scritto da Vittorio Cino, oggi Direttore Generale Federvini ma a lungo Direttore European Affairs di The Coca-Cola Company, e da Andrea Fontana, presidente di Storyfactory e dell’Osservatorio Italiano di Storytelling, analizza questo tema. Entrambi gli autori sono docenti universitari legati al mondo imprenditoriale, e nel saggio affrontano i cambiamenti più importanti a livello globale facendo una panoramica degli strumenti che le grandi imprese adottano o dovrebbero adottare. L’esposizione scorrevole unisce riflessioni e concetti della scienza politica e della geopolitica con altri attinenti al mondo del business management. Uno dei pregi del libro è il riuscire a dare, in modo chiaro e sintetico, un quadro del contesto in cui le aziende operano, risultando inoltre un supporto utile ai lettori interessati a comprendere non solo il ruolo delle imprese ma anche quello dei consumatori, i cui acquisti e attività non sono separati da dinamiche di “geo-business”.

I primi capitoli tracciano i principali mutamenti degli ultimi decenni, in particolare l’affermarsi di figure come quella di Donald Trump, la diffusione di guerre economiche e commerciali, la Brexit, il cambiamento climatico, l’ascesa della Cina e la rivoluzione digitale. Le parole chiave più usate sono: volatilità, incertezza e disintermediazione. Mentre governi, organizzazioni internazionali, istituzioni religiose e sindacati perdono peso politico e fiducia dei cittadini, le grandi multinazionali hanno visto il loro potere crescere. Sono infatti meno oggetto della sfiducia dei cittadini e sono sempre più riconosciute come soggetti importanti, chiamati a contribuire alla risposta a questioni di interesse pubblico. «Funzioni e ruoli che in passato erano di esclusiva competenza dei governi sono oggi entrati nella sfera di responsabilità delle imprese transnazionali che, con una potenza economica spesso superiore al valore medio del PIL di molti Stati sovrani, l’ascesa simbolica e valoriale dei loro brand globali e l’ampio volume della comunicazione che, anche grazie alla pervasività del veicolo digitale, riescono a mettere in campo, assumono ormai uno status di soggetto attivo all’interno del sistema delle relazioni internazionali, distinto e in gran parte distante dai governi nazionali» (p. 15).

Anche se in certi casi le aziende preferiscono negare queste responsabilità – come Facebook rispetto al dibattito pubblico online[1] – per lo più le grandi imprese accettano di dover provare a rispondere a queste richieste dotandosi di una corporate diplomacy – “diplomazia aziendale” – e cambiando anche natura organizzativa. Infatti, gli autori non parlano di imprese multinazionali, bensì transnazionali, passate da un modello centralizzato a uno più distribuito e con maggiore autonomia a livello regionale. Un cambiamento di strategia per rispondere in modo flessibile alle esigenze dei diversi mercati e per mostrare la natura, appunto transnazionale e indipendente, piuttosto che quella nazionale legata a un Paese specifico. Queste imprese ambiscono infatti a ricavare il proprio spazio di manovra indipendentemente dalle opinioni del governo del Paese dove hanno il quartier generale, e vogliono avere il pieno controllo della propria immagine.

 

Che cos’è la corporate diplomacy?

La corporate diplomacy è una disciplina giovane – e sulla quale non vi sono molti studi tradotti in italiano – che, derivando dal ruolo e dal potere delle grandi imprese, riguarda gli strumenti e le strategie necessarie per legittimare ed esercitare questo potere. Essa ha l’obiettivo di: 1) influenzare gli attori sociali ed economici per creare e sfruttare opportunità di business; 2) collaborare con le autorità che regolano le attività economiche; 3) prevenire conflitti con gli stakeholder; 4) assicurarsi spazio di manovra; 5) costruire potere e legittimazione sociale.

Non ne fanno parte le attività svolte dalle imprese strategiche per promuovere un sistema-paese, ovvero dalle aziende dette “campioni nazionali”, in quanto nella corporate diplomacy l’iniziativa parte dall’impresa, non da organi governativi, ed è finalizzata al perseguimento dell’interesse dell’azienda, non (anche) di un Paese. Si tratta, per le imprese, di «“privatizzare” la politica estera e “diplomatizzare” le loro comunicazioni all’esterno» (p. 18).

La corporate diplomacy include elementi delle relazioni pubbliche, delle strategie di comunicazione, della CSR (corporate social responsability) e della gestione del rischio, ma non è definibile limitatamente a queste operazioni, in quanto da sole non sufficienti per cogliere opportunità o minacce dovute ad eventi slegati dal mondo del business, come gli sviluppi nell’ambito della politica internazionale o dell’opinione pubblica, sempre più volatile e attiva sui social network.

Fra gli strumenti della corporate diplomacy il libro si concentra sull’issue management che consiste nella gestione dei temi del dibattito pubblico (issue) per entrare nel processo di agenda-building, prevedendo e studiando le issue e influenzando quanto e come se ne discute. L’obiettivo centrale è costruire e consolidare il brand, più di un semplice logo, bensì un simbolo con valore identitario. Come gli Stati hanno i loro simboli così anche altre organizzazioni che vogliono essere riconosciute e che vogliono essere oggetto di identificazione ne hanno bisogno. Studiare le issue e prendere una posizione serve sia per tutelare interessi di business in sé sia per mobilitare il pubblico: posizionarsi implica abbracciare dei valori in cui anche l’opinione pubblica più vasta può riconoscersi.

Sono operazioni che rientrano in quel processo che vede in declino la fiducia verso i governi e in aumento quella per queste imprese. Le azioni politiche personali, riguardanti la fiducia, l’appartenenza e l’espressione dei propri valori, si rivolgono sempre più alle aziende (o meglio, ai brand). Da un lato l’Edelman Trust Barometer, a cui gli autori fanno riferimento, con un campione di 33.000 persone in 27 Paesi, afferma che il 76% degli intervistati ritiene gli amministratori delegati più adatti rispetto al personale politico a governare. Dall’altro lato, grazie ai social network, i consumatori si fanno meno condizionare dai brand rispetto a quanto siano invece loro a condizionare le imprese. Si parla addirittura di “brand democracy”: i consumatori pensano di avere più efficacia nell’influenzare il comportamento dei brand piuttosto che quello dei governi e quasi due terzi degli intervistati dichiara di orientare i propri acquisti in base a considerazioni valoriali, soprattutto tra i giovani. I brand costituiscono quindi anche un modo per affermare i propri valori, cosa che evidentemente si fa meno attraverso forme di partecipazione politica. Ciò implica quindi fiducia nel brand ma anche forme di controllo sulla coerenza tra l’operato dell’azienda e i valori rappresentati dal brand.

L’esposizione politica delle imprese riguarda soprattutto tematiche che richiamano il patriottismo, l’ecologia, i diritti civili e la lotta alla violenza. Si tratta di un’attività molto delicata in quanto occorre mantenere un equilibrio tra i valori globali che si vogliono celebrare e le dinamiche locali che si vogliono cogliere e, soprattutto, tra il prendere una posizione e il parlare a tutti senza dividere. Anche se a volte la provocazione non guasta. Tra i vari esempi riportati nel libro, tra successi e insuccessi, vi è la campagna della Nike del 2018 a cui partecipò il quarterback Colin Kaepernick, le cui proteste contro il razzismo sono state giudicate antipatriottiche da Trump. La campagna, il cui nome, Believe in something, sintetizza il concetto stesso del prendere una posizione, veicolò un messaggio forte ed ebbe un notevole successo.

 

Tra brand activism e capitalismo politico

L’esposizione politica dei brand è definita brand activism e fa parte della strategia delle imprese per legittimarsi agli occhi del pubblico e degli stakeholder, creando il contesto adatto per esercitare influenza anche nei confronti degli interlocutori istituzionali. La corporate diplomacy, infatti, include anche la gestione delle relazioni con questi ultimi. Tuttavia, se da una parte le grandi aziende si configurano sempre più come soggetti politici di peso, dall’altra vi sono tendenze, soprattutto nei Paesi con una proiezione globale, che continuano ad affermare la presenza dello Stato nell’economia. Lo Stato infatti, da una parte, impegna investimenti e competenze nella creazione di ecosistemi dell’innovazione[2] e cerca vantaggi geopolitici tramite le aziende, tecnologiche soprattutto, dall’altra. Corporate diplomacy ha come tema il nuovo ruolo politico delle aziende ma non si può non ricordare come anche lo Stato stia recuperando influenza nelle dinamiche di mercato. Di recente è tornato di grande attualità il dibattito sul capitalismo politico, concetto weberiano, con cui si intende «la compenetrazione tra economia e politica in un “tutt’uno organico”»[3] attraverso il lavoro della burocrazia, con modalità differenti legate al Paese e al regime politico. Il fine di questa forma di capitalismo è collocare il proprio Paese in una posizione vantaggiosa nelle catene globali del valore, dirigendo gli sforzi della ricerca e delle imprese verso le tecnologie che determineranno il mondo a venire (in termini militari, oltre che civili) e ricorrendo a norme speciali e direttive politiche al fine di sostenere questo processo. Washington, ad esempio, si oppone al capitalismo (politico) altrui tramite il Comitato sugli investimenti esteri negli Stati Uniti d’America, che ha il potere di bloccare operazioni di soggetti esteri nel Paese per ragioni di sicurezza nazionale (estensivamente interpretata)[4] e tramite la sua influenza sugli alleati[5]. Pechino, dal canto suo, esercita un controllo pervasivo sul sistema economico[6].

Da un lato queste considerazioni possono ridimensionare parte di quanto contenuto nel libro, in quanto, ad esempio, nella crescente rilevanza delle imprese transnazionali rispetto ai governi gli autori vedono una crisi del modello imprenditoriale del “campione nazionale”. Dall’altro, tuttavia, forniscono un’ulteriore ragione perché queste aziende si dotino di una “politica estera”. «Sembrerebbe che al paradigma dello Stato neoliberista […] si stia sostituendo una visione neo-interventista, che riscopre la politica industriale di lungo respiro», pertanto «lo Stato e il mercato stanno di nuovo negoziando i reciproci rapporti e le condizioni della loro alleanza»[7]. Per una sfida del genere le aziende, i cui dipendenti spesso non sono abituati a vedere le dinamiche tra il proprio datore di lavoro e la società e la politica, devono dotarsi delle giuste competenze. Gli autori tratteggiano la figura del corporate diplomat officer, un “diplomatico aziendale”, preparato in vari ambiti, dalla negoziazione ai rapporti coi media e alle relazioni internazionali. La necessità di queste nuove competenze riguarderà anche la consulenza, con la possibilità che emergano imprese consulting con competenze specifiche.

 

Dalla politica dell’impresa all’impresa del Politico

La partecipazione politica e il ruolo di partiti e istituzioni sembrano essere sostituiti in parte dalle scelte di consumo e dai brand. In merito agli interrogativi su come imprese particolarmente influenti e politicamente attive incideranno sulla politica, il libro propone il pensiero dell’ex ambasciatore ed ex Chief of Protocol dei cancellieri Schröder e Merkel, Wilfried Bolewski. Secondo Bolewski la “diplomazia aziendale” può contribuire in una “simbiosi funzionale” anche agli scopi della diplomazia degli Stati e a controbilanciare i sovranismi. Sarebbe interessante leggere ulteriori riflessioni degli autori al riguardo, oltre lo scopo del libro qui recensito.

In conclusione si propongono alcune considerazioni. Se da una parte l’idea che competenze e capacità di visione a medio-lungo termine si trovino più nelle grandi aziende che in politica non è del tutto infondata, dall’altra il mondo imprenditoriale non è privo di importanti contraddizioni e di una tendenza alla massimizzazione del profitto nel breve termine e alla socializzazione dei costi e dei rischi[8]. Caratteristiche già attribuite da Adam Smith alla Compagnia delle Indie Orientali, descritta dal filosofo scozzese come la manifestazione del “governo dei mercanti”, una forza di dominio incline allo spreco e all’arroganza verso il bene pubblico[9]. Ma non manca chi reputa che il capitalismo, forse anche grazie al nuovo ruolo e alla nuova consapevolezza delle imprese, possa rinnovarsi e garantire crescita economica nel rispetto delle libertà democratiche e della sostenibilità, ambientale e sociale[10].

Infine, è interessante il richiamo a Max Weber fatto da Massimo Cacciari nel centenario della morte del pensatore tedesco. Cacciari riprende l’originaria promessa di libertà del capitalismo, che si esprime nella creatività e autorealizzazione del lavoro libero, non comandato. Si concentra sul lavoro intellettuale, tecnico-scientifico da una parte e politico dall’altra, entrambi subordinati al valore economico e al consumo. La scienza è portata dalla specializzazione a viversi separata dal resto del mondo. «La professione diventa mero lavoro comandato dal sistema […] e il Politico, dal canto suo, si riduce ad amministrazione della relazione tra questo lavoro e la sovranità anonima del tecnico-economico»[11], gestendo lo Stato «come mero ordinamento giuridico»[12] e rinunciando ad agire come mezzo per cambiare il mondo e conseguire la felicità. La domanda di cambiamento che emerge dinanzi alle contraddizioni e alle disuguaglianze crescenti costituisce una domanda di nuovi valori, una domanda di liberazione che, se inascoltata, rischia di generare una frustrazione che colpirà ancor di più le istituzioni politiche e forse non risparmierà le aziende. Una domanda che probabilmente non trova sfogo nell’ambito della brand democracy[13]. Spetta alla politica organizzare questa domanda in un progetto. Il lavoro del Politico, così inteso, può essere svolto dalle imprese transnazionali? Ne avrebbero l’intenzione?


[1] Chiara Visentin, Nuovi media, nuove istituzioni. Un punto di vista sociologico sul cambiamento della sfera pubblica, «Pandora Rivista» n.1/2020.

[2] Mariana Mazzucato, Lo Stato innovatore, Editori Laterza, Roma-Bari 2018 (nuova edizione 2020).

[3] Alessandro Aresu, Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina, La nave di Teseo, Milano 2020, p. 14, recensito su «Pandora Rivista» n.1/2020 da Lorenzo Mesini.

[4] In merito al capitalismo politico si consiglia anche Carlo Favaretto, Italiano è meglio? Per un golden power equilibrato, Treccani Magazine, 16/06/2020.

[5] Carrer Gabriele, Huawei, il pressing del Copasir sul governo dopo l’ultimatum degli Stati Uniti, Formiche.net, 18/08/2020.

[6] Alessandro Aresu, Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina, La nave di Teseo, Milano 2020.

[7] Francesca Balestrieri e Luca Balestrieri, Guerra digitale, Luiss University Press, Roma 2019, p. 102.

[8] Mariana Mazzucato, Lo Stato innovatore, Editori Laterza, Roma-Bari 2018 (nuova edizione 2020).

[9] Alessandro Aresu, Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina, La nave di Teseo, Milano 2020.

[10] Si consiglia la recensione scritta da Alberto Prina Cerai de Il capitalismo buono di Stefano Cingolani (Luiss University Press, Roma 2020).

[11] Massimo Cacciari, Il lavoro dello spirito, Adelphi, Milano 2020, pp. 80-81, recensito su «Pandora Rivista» n.2/2020 da Alessandro Aresu.

[12] Idem, p. 75.

[13] Si veda in merito anche Mauro Magatti, Un cambio di paradigma? Dal neoliberismo alla generatività, «pandorarivista.it», 01/12/2018.

Scritto da
Giuseppe Palazzo

Laureato in Scienze Internazionali e Istituzioni Europee presso l’Università degli Studi di Milano, si è poi specializzato nel settore energetico, conseguendo un MSc in Global Energy and Climate Policy presso la SOAS University of London e un master in Energy Management presso il MIP Politecnico di Milano. Ha intrapreso percorsi legati alle politiche pubbliche ed europee, presso ISPI e Scuola di Politiche, e legati alla regolazione del settore energetico italiano presso l’Università di Siena. Ha lavorato come consulente in BIP, ora è project manager per le attività internazionali di RSE (Ricerca sul Sistema Energetico), dipartimento Sviluppo sostenibile e Fonti energetiche.

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