Cosa significa fare memoria oggi? Intervista a Gabriele Nissim
- 27 Gennaio 2024

Cosa significa fare memoria oggi? Intervista a Gabriele Nissim

Scritto da Carlotta Mingardi

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Ogni anno il Giorno della Memoria rappresenta l’occasione per ricordare l’orrore della Shoah e per riflettere su come ciò che è accaduto ci interpelli e ci spinga, ancora oggi, ad interrogarci sulla natura dei genocidi: sulla possibilità che possano ripetersi, anche in diverse forme; e su come agire per evitarli. A partire da queste domande abbiamo intervistato Gabriele Nissim, co-fondatore e presidente di Gariwo – la foresta dei Giusti (Gariwo è l’acronimo di Gardens of the Righteous Worldwide) un’organizzazione no profit attiva attraverso iniziative educative nella prevenzione di nuovi crimini contro l’umanità.


Una delle riflessioni che portate avanti come Gariwo e rete dei Giardini dei Giusti è quello della “non unicità della memoria”. In cosa consiste e come si applica in questo contesto storico?

Gabriele Nissim: Significa innanzitutto che i genocidi, nella storia, possono ripetersi. L’unicità, l’irripetibilità dei genocidi è una grande illusione, in cui forse siamo cascati tutti e di cui però molti non hanno ancora la consapevolezza. In seguito alla Shoah, si è affermata l’idea che l’umanità si sarebbe vaccinata contro i genocidi, che avremmo saputo creare un mondo attrezzato a prevenirli. Questa a mio parere è stata una grande illusione, sulla quale ha anche argomentato uno dei più grandi teorici e scrittori della Shoah, Yehuda Bauer. Bauer afferma che pensare alla Shoah come un fatto unico, significhi immaginarne una non ripetibilità: e che ci sia bisogno, invece, di considerare la Shoah come un genocidio senza precedenti, ma che si può ripetere. Rispondendo, quindi, anche alle preoccupazioni sollevate da Liliana Segre riguardo a questo “male che si ripete”, dobbiamo prendere consapevolezza di questa grande illusione. Dobbiamo essere consapevoli che, ogni volta, ci troveremo davanti a delle scelte: che genocidi e crimini contro l’umanità, in modo diverso, continueranno. Questo, tuttavia, non deve eliminare la speranza: se siamo consapevoli di un male possibile, possiamo anche attrezzarci e agire conseguentemente. Vi è sempre la possibilità di agire per prevenire un possibile male. Questo è anche un grande tema culturale, che si pone sia sul piano della responsabilità internazionale da parte degli Stati, che degli individui. Gli esseri umani agiscono con due modalità: una è quella di pensare a realizzare il proprio conatus di affermare la potenza in modo individuale, contro gli altri; oppure, l’umanità può scegliere di collaborare. La scelta di odiare e di agire per sé, o di amare e agire insieme agli altri è sempre presente nella condizione umana. E i genocidi avvengono perché si crea odio nel mondo. Dobbiamo quindi cambiare il nostro paradigma: sapere che il male è ripetibile, per attrezzarci a combatterlo.

 

Un altro concetto che ricorre nelle vostre attività è quello di responsabilità personale, che menzionava anche poc’anzi. Che cosa si intende per responsabilità personale e chi sono le persone definite i Giusti?

Gabriele Nissim: Dalla Shoah, da quello che è stato il genocidio degli ebrei, sono nate diverse cose nuove. Vi è stata una grande rivoluzione semantica. Mi soffermo su due parole: la prima è la parola genocidio. Forse non vi è la consapevolezza che fino al 1948 questa parola non esisteva. Il comandamento di “non uccidere” era sempre legato ai “tuoi”. Si parlava di non uccidere come valore, ma all’interno di una nazione: quanto ci si contrapponeva a un’altra nazione, invece, uccidere diveniva lecito. Ecco questa è stata la grande rivoluzione di Raphael Lemkin, colui che ha dato un nome a questo concetto, il cui termine è un ibrido tra il greco γένος (ghénos, “razza”, “stirpe”) e del latino –cidium (da caedo “colpire”, “uccidere”), che significa uccidere un gruppo. E il gruppo è sempre “l’altro”. Il concetto di sterminare, eliminare un gruppo, fino al 1948 non esisteva. Una delle più grandi conquiste è stata quindi proprio la Convenzione delle Nazioni Unite del 1948, che ha introdotto il concetto di genocidio e chiamato l’umanità a unirsi per prevenire i genocidi. Insieme alla parola genocidio è nata anche la parola giusti. Chi sono i giusti? Questa parola nasce in Israele a Yad Vashem, con il memoriale della Shoah, dove per la prima volta si è introdotta la figura di chi salva delle vite durante un genocidio. Molti fanno riferimento al termine giusti legato alla Bibbia e all’etica. A mio avviso, tuttavia, la parola giusto è molto moderna e sta a indicare tutte quelle persone che, in ogni epoca, si assumono delle responsabilità per prevenire o arginare le atrocità di massa e i genocidi. Questo termine parla, quindi, della responsabilità del singolo. Molto spesso noi leggiamo i crimini contro l’umanità, i totalitarismi, i genocidi, quasi come se fossero un evento naturale: ma questi sono possibili solo in quanto scelte operate dagli uomini. Zygmunt Bauman dice che i genocidari sono come dei giardinieri, che affermano che per rendere felice l’umanità sia necessario eliminare degli altri uomini: ecco, come esistono uomini che decidono di essere dei “giardinieri”, come esistono i genocidari, esistono anche le persone che decidono di preservare vite umane. Questi sono i Giusti. L’importanza di questo concetto è che mostra che ogni persona può essere un Giusto. Non è concetto relativo a santi, o eroi: afferma che ogni persona, nel suo piccolo, nella sua vita, può fare da argine nei confronti di qualsiasi genocidio e qualsiasi crimine contro l’umanità. In fondo, questo termine indica la possibilità dell’uomo, nell’ambito della sua sovranità, di spingere il mondo in una buona o in una cattiva direzione. È importante comprendere quindi questi due concetti: che i genocidi esistono nella storia, sono fatti da uomini e non sono eventi naturali; e che gli stessi esseri umani hanno la possibilità di prevenire i genocidi.

 

Cosa intende invece per “diplomazia dal basso” e “diplomazia del bene”?

Gabriele Nissim: Nel passato, abbiamo sempre inteso la diplomazia e la politica dei diritti umani come qualcosa di competenza degli Stati. È vero, noi auspichiamo sempre che gli Stati si assumano delle responsabilità. Tuttavia, oggi si sono aperte anche nuove frontiere. È possibile, al giorno d’oggi, sviluppare un rapporto diretto tra società e società, tra individuo e individuo. La globalizzazione e i nuovi media, i social media, la disponibilità di informazioni, fanno sì che oggi noi possiamo essere a conoscenza di tutto ciò che accade nel mondo. Se tornassimo indietro ai tempi della Shoah, le informazioni arrivavano attraverso gli Stati, ed erano notizie che raggiungevano principalmente delle élite. Si sapeva della Shoah, ma il cittadino comune non necessariamente ne era informato. Oggi invece sappiamo tutto. Questo aumenta la responsabilità dell’individuo. Una volta si mettevano in discussione gli Stati come complici dei nazisti, o perché omettevano o perché si rifiutavano di raccontare ciò che accadeva e l’individuo sapeva poco. Con la globalizzazione delle informazioni, oggi l’individuo ha la possibilità di essere più responsabile. Quindi siamo tutti chiamati a esercitare quella che è la nostra sovranità. Un secondo punto, correlato a questo, è che anche noi cittadini possiamo fare opera di diplomazia. Un esempio è stato il caso dell’assassinio di Giulio Regeni: la famiglia Regeni, iniziando la sua battaglia per il figlio, si è assunta una responsabilità, indipendentemente dallo Stato. Ha addirittura sollecitato lo Stato italiano a portare avanti una battaglia per i diritti umani. Questo è un esempio clamoroso di come le persone e gli individui abbiano la possibilità di creare attività che vanno oltre gli Stati. Perché, in fondo, dobbiamo considerare che gli Stati faranno sempre della real-politik. Gli Stati cercheranno sempre di mantenere attivi i legami diplomatici. Tuttavia, nel mondo di oggi attraverso le onlus, le fondazioni, è possibile esprimere solidarietà per chi lotta per i diritti umani nel resto del mondo e sollecitare gli Stati ad agire. Un altro esempio: oggi in Russia si è tornati quasi ai tempi del totalitarismo sovietico. I giornalisti non possono più scrivere liberamente e chi esprime delle posizioni libere viene soffocato. Il nostro compito come società diventa quello di esprimere solidarietà ai nuovi dissidenti in Russia, mettendo in atto delle campagne di sostegno e facendoli conoscere alle nostre società. Dobbiamo essere dei supplenti in queste situazioni e dobbiamo pensare che esista la possibilità di creare una politica dei diritti umani, dal basso. I risultati di questo sforzo non sono quantificabili, ma sappiamo di avere la possibilità di influenzare, di far conoscere le storie degli altri. Uno degli elementi che è valso anche nel passato è che se noi non sosteniamo culturalmente degli oppositori e dissidenti in Cina, in Russia, in Iran o in altri Paesi queste persone rimarranno sole. I meccanismi di solidarietà attiva hanno degli effetti: non quantificabili, ma li hanno. Guardiamo, se vogliamo fare un altro esempio, alla situazione delle proteste in Iran. Le manifestazioni che si sono diffuse nel mondo a supporto della battaglia delle donne iraniane hanno avuto degli effetti: le persone che manifestavano si sono sentite meno sole. Possiamo anche arrivare – cosa che non si sta facendo – al Medio Oriente di oggi: esistono, nel conflitto israelo-palestinese, delle reti di solidarietà attiva tra palestinesi e israeliani che cercano di trovare forme di dialogo. Esistono anche oggi. Ecco, io ritengo che noi dovremmo creare una diplomazia dal basso che sostenga questi movimenti che lavorano per il dialogo, la reciproca comprensione e il mutuo riconoscimento. Questo è un po’ il concetto della diplomazia del bene: non è compito degli Stati, ma delle società e degli individui, che nel contesto del mondo di oggi hanno la possibilità di influire molto di più.

 

Che ruolo hanno i Giardini dei Giusti in questo scenario?

Gabriele Nissim: I Giardini per noi hanno due obiettivi: il primo è quello di stimolare le persone a sentirsi cittadini del mondo. Io uso una vecchia frase di Seneca: bisogna abituarsi a sentirsi parte della propria nazione, ma anche parte del mondo. Questo è un primo obiettivo dei Giardini. Il secondo è quello di diventare uno strumento culturale della convenzione delle Nazioni Unite per la Prevenzione dei Genocidi. Le due risoluzioni ONU a cui facciamo riferimento, quella patrocinata da Raphael Lemkin sul Genocidio e quella di Eleanor Roosevelt sui Diritti Umani, non hanno avuto una vera vita nelle società: non ne sono diventate carne e parte attiva. L’obiettivo dei Giardini, dunque, è di diventare uno strumento di conoscenza per lottare contro i genocidi e sostenere tutte le lotte per i diritti umani.

Gabriele Nissim, presidente di Gariwo

In questo contesto, che cosa fa il Giardino? Volendo essere un giardino di tutto il mondo, deve tentare di unire. Deve produrre delle esperienze di dialogo e di riconoscimento. Deve cercare di rompere delle barriere: noi abbiamo creato da alcuni anni, in Israele a Neve Shalom, un Giardino di israeliani e palestinesi[1]. Neve Shalom è un villaggio arabo. Attorno a questo villaggio e a questo Giardino, israeliani e palestinesi cercano di trovare un’identità comune nell’appartenenza all’umanità, oltre l’identità nazionale. I Giardini devono avere questo scopo, anche se ovviamente è un lavoro che va costruito di volta in volta: devono diventare un momento di dialogo e di ricomposizione. Concludo su un punto: quando noi parliamo di responsabilità, molto spesso ne abbiamo un’idea cattolica, anche se non ce ne accorgiamo. Siamo convinti che fare del bene implichi una privazione: che essere umani sia un imperativo categorico kantiano di “giustezza”. Non abbiamo mai pensato che fare del bene, in fondo, serva a rendere gli esseri umani più felici. Se si è capaci di sentirsi prossimi all’altro, di prendersi cura degli altri, questo non è qualcosa che limita l’io, ma un modo per sviluppare la nostra umanità e portarci alla felicità possibile, su questa Terra. Dobbiamo trasmettere anche quest’idea: che occuparsi degli altri, promuovere dialoghi di pace, non essere spettatore o spettatrice ma assumersi delle responsabilità, siano tutte vie verso una propria realizzazione. Il bene non è privazione. Tutte le storie dei Giusti non sono storie di martiri: chi compie queste azioni non lo fa con l’idea di sacrificarsi: lo fa per se stesso e se stessa, perché vivere e partecipare ad un mondo che produce crimini contro l’umanità non è ciò che desidera. È un concetto, in fondo, che parla di realizzazione personale: non di sacrificio, ma di amore per la bellezza del mondo, la sua natura e le sue persone.


[1] Il villaggio, coabitato da arabi palestinesi e israeliani, è conosciuto anche col nome arabo Wāħat as-Salām, “Oasi di Pace”.

Scritto da
Carlotta Mingardi

Assegnista di ricerca all’Università di Siena. Ha conseguito un dottorato di ricerca presso l’Università di Bologna. In precedenza, è stata scholar presso The Europaeum, visiting fellow presso la Brussels School of International Studies-BSIS University of Kent e junior research fellow presso l’Istituto Europeo del Mediterraneo-IemED di Barcellona.

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