Scritto da Alberto Bortolotti, Alfredo Marini
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Partendo dalle famose parole del Cancelliere tedesco Helmut Schmidt «L’Europa vive di crisi», possiamo affermare che l’anno appena trascorso abbia rappresentato un vero e proprio spartiacque, rilevante anche per il processo di integrazione europea. Le risposte alla crisi pandemica, i riassetti geopolitici interni ed esterni all’Unione Europea conseguiti alla Brexit nonché i rapporti con la penisola Balcanica hanno caratterizzato gran parte dell’azione dell’Unione durante l’anno precedente.
Questi ambiti offrono una lettura complessa del 2020 in quanto, nella loro correlazione, hanno spinto ad una rilevante cooperazione tra i grandi Stati, ma se da un lato essi si sono allineati su una comune gestione della pandemia e dei rapporti con il Regno Unito, dall’altro assumono un posizionamento geopolitico multipolare nei confronti di alcuni Paesi come Polonia, Ungheria e il blocco dei Balcani. In altre parole, potremmo già qui osservare come vi sia una maggiore coesione tra Spagna, Francia, Italia e Germania nel superare insieme gli ostacoli che minano la salvaguardia dell’Unione Europea ma, contemporaneamente, gli Stati nazionali non intendono rinunciare a prospettive di rafforzamento di un velleitario interesse nazionale nel quadro delle relazioni extraeuropee.
L’integrazione sul piano geopolitico
L’anno appena trascorso è stato il culmine di un singolare quadriennio (2016-2020), iniziato con la vittoria dei leavers al di là della Manica e conclusosi con il raggiungimento dell’ormai celeberrimo “Deal”. Se da una parte l’Unione ha concentrato le sue energie per superare indenne (istituzionalmente e politicamente) la Brexit, dall’altra non si è espressa riguardo l’annosa questione istituzionale riassumibile nella domanda “Cosa vogliamo che diventi l’Unione Europea?”. Il 2021 sarà l’anno in cui si dovrà iniziare seriamente a dare una prima risposta all’interrogativo appena menzionato e la Conferenza sul Futuro dell’Europa potrebbe essere un importante momento di confronto costruttivo. Infine, la questione balcanica su cui l’Unione gioca una rilevantissima parte del suo futuro, l’argomento è semplice: continuare a muoversi nell’area lasciando campo libero all’azione di potenze esterne, oppure assumersi la responsabilità di integrare nell’Unione “l’ultimo pezzo d’Europa”.
Il 23 luglio 2016 i nostalgici del “Britannia rules the waves” sanciscono la fine dell’appartenenza del Regno Unito all’Unione. La Brexit, però, è un percorso di cui si è chiuso solo il primo atto e, seppur tragica, rappresenta sia un momento di rinnovata maturità politica ed istituzionale per Bruxelles che un termine di paragone importante per tutta l’Unione al fine di sperimentare quale sia il prezzo della cosiddetta “riappropriazione” della sovranità nazionale. Oggi, a conti fatti, la sovranità dei singoli Stati nazionali europei si presenta debole, addirittura deleteria nei casi in cui viene maldestramente esercitata. I quattro anni di negoziati ci consegnano un Deal che, nonostante alcune concessioni accordate da parte di Bruxelles, pone il Regno Unito in una posizione di intrinseca debolezza ed instabilità domestica.
Ma in cosa si sostanzia il recupero della sovranità nazionale che ha caratterizzato la narrazione pro Brexit? Il Deal prevede la fine della giurisdizione della CGUE e dell’applicazione delle norme europee sul suolo britannico, ma ciò non equivale ad una vera “indipendenza”. Nuovi standard e normative di matrice internazionale (WTO e ILO solo per citare alcuni esempi) sono pronte ad occupare quel vuoto. Si può notare come l’indipendenza da Bruxelles si sostanzi comunque in una nuova forma di dipendenza, con minori garanzie stavolta, nei confronti di Ginevra. Il mancato riconoscimento delle valutazioni di conformità, seppur in assenza di dazi, riporta in auge molti controlli doganali che rappresentano ulteriori impedimenti al traffico commerciale e allo sviluppo economico. Nel contesto descritto, essendo venuta a mancare la giurisdizione europea, le eventuali controversie UE-UK saranno decise da un apposito meccanismo arbitrale dal funzionamento decisamente più incerto se paragonato ad una vera e propria istituzione come la CGUE. L’incertezza giuridica che ne conseguirà rappresenta un ulteriore disincentivo economico generale.
Arriviamo dunque al nodo politico fondamentale del Deal, a partire dal quale possiamo fattivamente comprendere la gravità degli effetti della Brexit. Il riferimento è al tema dell’Irlanda del Nord, alla meno citata Gibilterra e alle problematiche legate alla spinosa questione scozzese. L’Irlanda del Nord è in un limbo che la vede rimanere ancora all’interno dello spazio eurounionale almeno fino al 2024. Il grande dilemma della Brexit si gioca tutto qui poiché la “riacquisizione” della sovranità nazionale mal si concilia con il mantenimento degli accordi di Santo Stefano e di un soft border (vitale per il mantenimento della pace). “Scotland will be back soon, Europe. Keep the light on”, così il Primo Ministro scozzese Nicola Sturgeon ha salutato l’arrivo del 2021. L’uscita dall’Unione potrebbe seriamente rappresentare la leva che mancò nel 2014 per dare ad Edimburgo la possibilità di raggiungere l’agognata indipendenza; stavolta gli ingredienti ci sono tutti e molto probabilmente sarà solo questione di scelta delle giuste tempistiche.
Gibilterra chiude il cerchio. La Rocca non potendosi permettere un “hard border” rimarrà all’interno dell’area Schengen, con tutte le norme comunitarie in tema di finanza, concorrenza, ambiente e lavoro che troveranno applicazione almeno per un periodo di 4 anni. Da ricordare che nel 2002 in occasione del referendum sulla sovranità più del 90% dei gibilterrini si espresse a favore della permanenza nel Regno Unito, nel 2016 invece il 95% sostenne le ragioni remain. Possiamo dunque immaginare su quali binari si stia inserendo la secolare questione riguardante il ritorno della Rocca alla Spagna.
La pandemia ha reso evidente l’importanza di muoversi con rapidità e sincronia nella gestione delle crisi. Tutti ricordiamo chiaramente gli esiti nefasti della crisi finanziaria del 2008 frutto dell’egoismo che guidò l’UE in un momento cruciale. Le difficoltà di quel periodo difficile, sommatesi all’arresto del processo di integrazione avvenuto pochi anni prima con la bocciatura del trattato costituzionale, hanno contribuito in maniera rilevante all’indebolimento del ruolo politico delle istituzioni europee. L’arrivo della pandemia, contrariamente a quanto accadde nel 2008, ha colpito senza distinzioni richiedendo sin da principio un approccio differente. Le istituzioni di Bruxelles si sono mosse rapidamente, per alcuni aspetti anche oltre la lettera dei trattati, pur di giungere a delle risposte concrete. Tali sono state il Next Generation EU, il SURE e la riforma del MES con conseguente sospensione del patto di stabilità, qualcosa di inconcepibile fino a pochi anni fa. Dunque, il Covid-19 ha posto sotto le luci della ribalta la pratica necessità di agire come attore unico continentale.
Se il 2020 avrebbe dovuto essere l’anno della Conferenza sul futuro dell’Europa il 2021 dovrà esserlo per forza di cose. La Conferenza può rappresentare il primo passo verso la complessa risposta da fornire alla già citata domanda “Cosa vuole diventare l’Europa?”. La Conferenza potrà avere un ruolo proattivo e concreto solo se posta nelle condizioni di essere un catalizzatore di idee provenienti da tutti i settori della società e dell’economia con particolare attenzione nei riguardi della voce dei giovani. L’Unione dovrà affrontare molte sfide cruciali nel prossimo futuro e ciò richiede un confronto urgente, e non ulteriormente rinviabile, tra cittadini e istituzioni. È giunto il momento di un ampio dialogo democratico capace di tracciare il solco che l’Unione dovrà seguire nei prossimi anni.
Il 2020 avrebbe dovuto essere anche l’anno di svolta per le politiche di vicinato e di allargamento dell’Unione nei Balcani. Nonostante l’approvazione di strumenti rilevanti come l’Agenda Verde e il Piano per il rilancio economico, nei fatti, si registra una grave perdita di slancio da parte dell’Unione nell’area. La non facile situazione, determinata dal blocco dell’avvio dei negoziati di adesione di Albania e Macedonia del Nord alla fine del 2019, si è ulteriormente complicata a causa del mai sciolto nodo macedone che ha condotto la Bulgaria ad esprimere il proprio veto al nuovo avvio dei negoziati. Il ritardo accumulato dall’Albania sulle due grandi riforme richieste dall’UE (quella elettorale e della giustizia) e la simile situazione presente in Serbia e Montenegro rallentano il processo di integrazione dell’area balcanica.
Completano il quadro sia la necessità di bloccare l’ingerenza di potenze esterne interessate ad allontanare l’area dall’Unione che l’incompatibilità, troppo spesso registrata, delle agende di politica estera dei tre grandi Stati europei (Italia, Germania e Francia). L’integrazione della penisola Balcanica, che il Presidente Draghi ha definito “area di naturale interesse prioritario”, rappresenta un’esigenza strategica che merita di essere inserita in cima all’agenda politica dell’UE. Il raggiungimento di tale scopo può avvenire esclusivamente con un deciso coordinamento delle agende di politica estera nazionali accompagnato da un’azione diplomatica dell’Unione caratterizzata da maggiore consapevolezza e dalla predisposizione di un concreto progetto di sviluppo economico e sociale rivolto soprattutto alle giovani generazioni.
I riassetti geostrategici in Italia e in Europa
All’indomani del travagliato 2020, sembra che l’azione congiunta di Brexit e gestione della pandemia da Covid-19 abbia portato ad una sostanziale rimodulazione degli assetti geopolitici e territoriali all’interno e al di fuori dei confini dell’Unione Europea. Una lettura più approfondita di questa trasformazione mostra infatti che la nuova relazione con il Regno Unito non comporterà soltanto la ridefinizione dei rapporti di forza tra le superpotenze del mondo e gli Stati membri dell’Unione Europea, con una Gran Bretagna come nazione-ponte tra USA e UE, bensì anche un riassetto delle istituzioni comunitarie sul piano della governance, e una riperimetrazione territoriale dei confini geografici del Single Market sul piano economico. Parallelamente, l’emergenza del virus ha portato ad una rinnovata alleanza tra i Paesi centrali dell’Unione Europea, i quali, sebbene continuino ad essere segnati da profonde differenziazioni amministrative, oltre che politiche, hanno riscoperto l’importanza strategica dell’unità europea dimostrando una formale compattazione in occasione dei difficili negoziati europei scorsi. Sicché, se da un lato continuano a perdurare rivalità competitive, anche sane, nell’aggiudicazione di memorandum e accordi, come nel caso dell’asse sino-tedesco, dall’altro lato la coesione di Francia, Spagna, Italia e Germania nel fronteggiare la pandemia è riuscita a contrastare con successo i desiderata autonomisti dei cosiddetti “Paesi frugali” che nell’ultimo decennio hanno avuto un ruolo essenziale nello scacchiere dei rapporti di forza interni all’Unione Europea. D’altro canto questo scenario è figlio di un quadro internazionale del capitalismo politico che, dalla crisi del 2008 in avanti si è addentrato in una fase di interregno stabilizzato nel quale nessuna delle maggiori superpotenze è in grado di influenzare in maniera determinante l’intera agenda mondiale: non lo sono gli Stati Uniti, le cui crisi interne hanno indebolito l’azione diplomatica protesa all’egemonia economica e militare, né la Russia, per lo più interessata ad una strategia di trincera, né tanto meno la Cina il cui modello culturale continua a non convincere, sebbene quest’ultima abbia considerevolmente aumentato la propria rappresentanza all’interno delle istituzioni di controllo internazionali (FAO, WTO).
Concentrandoci sui riassetti geostrategici derivanti dalla trasformazione appena descritta potremmo qui sottolineare almeno 5 eventi: lo spostamento delle principali società finanziarie e commerciali, nonché delle rispettive agenzie comunitarie di regolazione e ricerca, da Londra soprattutto verso Parigi, Francoforte e, in parte, Dublino; la rinnovata centralità di Bruxelles come sede politica privilegiata della cooperazione interna, a discapito di Strasburgo; la rimodulazione dei confini del Mercato Unico e la ridefinizione dei vertici del Pentagon con l’attribuzione a Milano, Parigi, Vienna, Berlino e Amsterdam; la riattivazione delle aree interne degli Stati membri dovuta al rilancio delle filiere economiche regionali anche attraverso l’implementazione del programma ReactEU; infine il riaggancio con i Paesi dell’Est, baltici e balcanici per la posizione geostrategica con la potenza russa e l’attore turco che negli ultimi anni ha avuto un ruolo sempre crescente nella delineazione delle politiche del Mediterraneo. Questi processi appena innescati avranno una notevole rilevanza sul piano dei nuovi equilibri urbani e territoriali, pensiamo ad esempio alla redistribuzione di risorse che riceveranno alcune capitali europee a discapito di altre, alla crisi del turismo di massa che al contrario colpirà alcune metropoli internazionali o all’ascesa di nuove polarità per la produzione e la ricerca altamente specializzata come sarà il nuovo distretto MIND a Milano.
Infine, due recenti avvenimenti ci portano a trarre alcune ulteriori considerazioni sui riallineamenti dei principali Stati membri UE in termini di politica interna ed estera: la vittoria di Joe Biden negli Stati Uniti e l’avvento del Governo Draghi in Italia. Se per molti aspetti l’Europa si apprestava a diventare un territorio-baluardo tra Oriente e Occidente, con una compenetrazione tra interessi russi, cinesi e americani soprattutto nei Paesi dell’Est e nel Mediterraneo e in alcuni asset strategici legati alla Belt and Road Initiative nelle città portuali, la venuta di Biden stravolge completamente questo scenario ponendo al centro dell’agenda europea un rilancio dei rapporti atlantici. Nonostante qualche noto osservatore si sia già spinto in un coraggioso parallelo tra le amministrazioni Wilson e Biden per definire la rinnovata cooperazione USA-EU bisogna ancora capire quanto gli Stati Uniti possano incidere in un’operazione di rilancio dell’Unione Europea come potenza continentale coesa.
Su quest’ultimo punto in particolare resta infatti da sciogliere un nodo legato al ruolo dell’Italia che sino ad oggi ha avuto un’ambivalenza di posizioni geostrategiche, soprattutto nei passaggi dal Governo Conte I al II sino al Governo Draghi ed è interessante notare che una buona metà dell’intervento di Mario Draghi al Senato sia stato dedicato proprio alla posizione dell’Italia nello scacchiere internazionale con una chiaro riferimento alla cooperazione con gli Stati Uniti e all’impostazione di una rinnovata centralità dell’Italia nel Mediterraneo nell’Unione Europea. Sembra infatti che proprio i Ministeri diretti da Vittorio Colao, Roberto Cingolani ed Enrico Giovannini, rispettivamente, transizione digitale, transizione ambientale e infrastrutture sostenibili formino, nel loro insieme, la premessa per la costruzione di una nuova geostrategia italiana capace di creare un varco nell’asse franco-tedesco e quindi ritagliare uno spazio italiano tra le principali potenze continentali, diventando portavoce dell’interesse europeo nel Mediterraneo e presso la Turchia. Un possibile scenario di questa geostrategia vedrà dunque l’Italia puntare su un piano di lungo periodo che si fondi sulla compenetrazione tra infrastrutture hard e soft per la logistica e il commercio, nonché sullo sviluppo di tecnologie digitali che costituiranno a loro volta strumento di negoziazione con i Paesi limitrofi all’Italia per la programmazione di partnership tra imprese italiane e mediterranee in una prospettiva di rilancio complessivo del bacino del Mediterraneo. In questo senso, il netto richiamo all’atlantismo nel discorso al Senato mira al contenimento degli investimenti cinesi nel Mediterraneo e potrebbe rappresentare addirittura un’offensiva alla Belt and Road Initiative, forte del dialogo con il neopresidente americano Joe Biden. Questo aspetto segna un evidente punto di demarcazione rispetto alla prospettiva tracciata, in particolare, dal Governo Conte I il quale, al contrario, aveva impostato una linea di cooperazione con la Cina.
Conclusione
Il 2021 sarà un anno in cui l’UE e l’Italia fronteggeranno tutte le problematiche che abbiamo individuato. Le sfide più rilevanti, che rappresentano lo sfondo del contesto descritto finora, rimangono la corretta implementazione del NextGenEU e la risoluzione della crisi pandemica. “Condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro, significa condividere la prospettiva di un’Unione Europea sempre più integrata che approderà a un bilancio pubblico comune”, con queste parole pronunciate al Senato italiano, il Presidente Draghi indica il percorso che l’Italia dovrà seguire nel prossimo futuro. Rilancio del multilateralismo e dell’economia, ricostruzione delle relazioni euro atlantiche, sviluppo sostenibile, innovazione e ripresa del processo di integrazione politica del continente europeo a seguito della Brexit sono i complessissimi temi che oltre ad inaugurare il 2021 caratterizzeranno l’intero decennio che si apre davanti a noi; un decennio in cui emergerà il ruolo fondamentale delle nuove generazioni.