“Costituzione italiana: articolo 3” di Mario Dogliani e Chiara Giorgi
- 22 Gennaio 2018

“Costituzione italiana: articolo 3” di Mario Dogliani e Chiara Giorgi

Recensione a: Mario Dogliani, Chiara Giorgi, Costituzione italiana: articolo 3, Carocci, Roma 2017, pp. 180, 13 euro (scheda libro)

Scritto da Federica Venturelli

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Perché leggere la Costituzione? A 70 anni dall’entrata in vigore del testo costituzionale è necessario invitare a leggere e parlare della Costituzione per allontanarci dal mero elogio, spesso fine a se stesso, e per ragionare in maniera più ampia sullo stato di salute del sistema costituzionale italiano.

È necessario prima di tutto fare il punto sulla tenuta e sull’attualità della Costituzione, partendo dai diritti fondamentali che reggono l’assetto istituzionale, ovvero i 12 principi, ai quali è dedicata la prima parte della Costituzione con il fine di sottolineare il ruolo determinante che sono chiamati ad esercitare nel nuovo ordinamento.

Essi sono parte integrante delle 139 norme della legge fondamentale della Repubblica Italiana e per questo – come fu ripetutamente detto in Assemblea – «delineano il volto della Repubblica».

Tra queste, in questo saggio ci concentreremo sull’articolo 3, che è al centro del libro di Mario Dogliani e Chiara Giorgi, che si inserisce in una serie di pubblicazioni che Carocci ha voluto rivolgere ai primi articoli della Carta Costituzionale e di cui Pandora ha recensito anche i volumi dedicati ad articolo 2articolo 4 e articolo 5.

Nel primo comma l’articolo 3 sancisce il principio di uguaglianza formale, ovvero l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, mentre nel secondo comma si sancisce il principio di uguaglianza sostanziale, ovvero di fatto. Il testo recita che

«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

 

Dall’uguaglianza formale a quella sostanziale: un processo storico e sociale

Già nella cultura liberale, la libertà veniva collegata all’uguaglianza: lo stesso articolo 1 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789, a partire dal motto rivoluzionario che associava la liberté all’égalité, stabilisce che «gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti». Affinché siffatta dichiarazione di libertà ricevesse concreta attuazione, si riteneva fosse necessario garantirla a tutti i cittadini tramite la legge.

L’avvento dei regimi democratici ha portato ad un ulteriore sviluppo e riflessione relativamente al tema della libertà; l’introduzione del suffragio universale comporta la nascita di costituzioni democratico-liberali del XX secolo che sanciscono i diritti sociali, coi quali si tende a garantire materialmente a tutti, grazie anche alle pressioni dei grandi partiti di massa immessi nella vita politica, le medesime opportunità di vita.

Emerge gradualmente una nuova dimensione di uguaglianza, la c.d. uguaglianza sostanziale, intesa quale obiettivo di rimozione degli ostacoli che di fatto impediscono la piena parificazione di tutti i cittadini nelle condizioni di esercizio dei diritti loro attribuiti sul piano formale, che va ad aggiungersi all’uguaglianza formale[1].

Lo stesso Statuto Albertino all’articolo 24 – «Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge» – se da un lato affermava il principio per cui tutti sono uguali nella soggezione dell’unica legge dello Stato, ponendo fine a quello che molti storici del diritto oggi indicano come «Stato per ceti», attraverso l’abolizione dei privilegi e dell’assetto corporativo, dall’altro lato metteva sullo stesso piano, giuridicamente parlando, soggetti portatori di interessi differenti. Il principio d’uguaglianza formale si rivelò, infatti, uno strumento efficace per perseguire disuguaglianze di fatto, il quale poneva in una condizione di superiorità il proprietario borghese, a discapito di altri gruppi sociali ai quali non veniva riconosciuta un’effettiva tutela all’interno delle nuove codificazioni; a ciò si aggiungevano le leggi elettorali censitarie e l’esclusione del diritto di voto per le donne.

Non vi era, quindi, traccia della promessa si un’uguaglianza reale all’interno della costituzione del 1848 e, mai come questa volta, il tema dell’uguaglianza ha avuto una risposta istituzionale così alta nel suo congiungere la tradizione dell’uguaglianza formale con quella dell’uguaglianza reale, sancita nel secondo comma dell’ articolo 3 della Costituzione.

 

Articolo 3: diritti sociali e le disuguaglianze di fatto

La conquista della libertà è uno dei più grandi traguardi, individuabili all’interno dell’esperienza dello c.d Stato moderno, frutto di dure lotte contro gli antichi regimi assolutisti e le tirannidi del Novecento.

«Ma le libertà rischiano di restare proclamazioni astratte se non sono accompagnate dal pieno ed effettivo godimento dei diritti sociali», affermava Ermanno Gorrieri, sindacalista e deputato della Democrazia Cristiana. Quello dei diritti sociali è un altro tema che si rivela essere centrale, in quanto è proprio a partire da essi che è stato possibile garantire ai cittadini l’effettiva partecipazione nella gestione della macchina sociale. La redistribuzione dei beni materiali e immateriali – dalla dimensione dell’istruzione a quella occupazionale, dal tipo di lavoro svolto alle risorse economiche di cui si dispone – influenza l’effettivo esercizio della libertà e pone i cittadini in condizioni di effettiva parità di fronte alle possibilità offerte dalla società. È la Costituzione stessa che afferma l’esistenza di ostacoli di ordine economico e sociale, i quali limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini.

Le azioni di contrasto alle disuguaglianze, causate dal forte processo di industrializzazione e dalla conseguente competitività e flessibilità, non possono essere ridotte con politiche che garantiscano mere pari opportunità, ma è necessario che le istituzioni pubbliche promuovano processi di redistribuzione delle risorse per ridurre le disuguaglianze anche nei traguardi d’arrivo, a partire dalle c.d. risorse primarie: istruzione, lavoro e condizione economica.

Una delle conseguenze più intollerabili delle disuguaglianze è la persistenza di sacche di povertà anche nei paesi ricchi dell’Occidente, compresa l’Italia. Giovanni Sarpellon fu fra i primi a denunciare questa realtà, la quale fu confermata in seguito alle analisi portate avanti dalla commissione d’indagine sulla povertà, istituita presso la Presidenza del Consiglio, il cui primo rapporto fu reso pubblico nel 1985. Queste denunce destarono sorpresa nell’opinione pubblica: era, infatti, convinzione diffusa che il crescente benessere si fosse e si sarebbe diffuso in maniera automatica a beneficio di tutti gli strati sociali. Da allora, studi e ricerche confermano che, anche durante fasi economiche “favorevoli”, una quota di cittadini vive in condizioni di povertà[2].

La Costituzione prende atto dell’esistenza delle disuguaglianze di fatto e – affermano gli autori – formula un progetto politico che trova la sua sintesi nell’articolo 3, le cui disposizioni indicano i mezzi per concretizzare questo principio, trai i quali l’intervento dello Stato che può configurarsi in diverse azioni, quali il prelievo fiscale progressivo e incentivi alla scuola pubblica. L’obiettivo principale era infatti quello di intraprendere un cammino verso un società diversa da quella liberale. Questo è il cuore del progetto costituzionale di Lelio Basso, deputato socialista, assistito dalla «fiduciosa sapienza giuridica» di Massimo Severo Giannini; quest’ultimo, socialista, fu infatti il promotore della mozione sullo Stato Repubblicano, con la quale si chiedeva di introdurre all’interno della Costituzione il principio di uguaglianza sostanziale. Fu grazie a questa elaborazione politica che si decise di scindere la norma fra uguaglianza formale e sostanziale.

Per quanto riguarda il secondo comma, il cambio di paradigma sta proprio nel «di fatto», vi è infatti una denuncia del contrasto fra la lettera dei principi istituzionali e la realtà di fatto che impone alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli che creano contraddizioni inaccettabili.

Viene inoltre sottolineato come l’uguaglianza si realizzi, prima di tutto, attraverso l’azione dei lavoratori. In questo contesto i termini lavoro e lavoratori sono intesi in un senso più ampio: non solo la classe operaia o i contadini, ma «una repubblica nella quale abbiano cittadinanza anche le attività non meramente economiche, una repubblica, in cui ci sia posto per tutti i cittadini partecipanti utilmente alla vita nazionale» – concludeva l’Onorevole Paolo Rossi, durante la discussione alla costituente, il 14 marzo 1947.

Si deve inoltre chiarire la portata del comma 1, ovvero se la dizione per cui tutti i cittadini «sono eguali davanti alla legge» integrata da quella per cui essi hanno «pari dignità sociali» comporti anche ad un generale divieto di distinzioni o disuguaglianza di trattamento. Per il raggiungimento dell’uguaglianza, non si può «fare parti uguali tra diseguali», come avrebbe detto Don Milani, sempre non considerando le eccezioni di razza, sesso, lingua, religione, opinioni politiche e condizioni personali e sociali. Per esempio, come ribadito nel volume, una disciplina che regoli in modo uguale il lavoro svolto dalle donne in stato di gravidanza e quello svolto dagli uomini produrrebbe un trattamento diseguale. É innegabile che esistano delle differenze oggettive: vi sono i sani e i malati, chi è nato in famiglie facoltose e chi in famiglie meno abbienti, ecc. Queste differenze giustificano trattamenti legislativi differenziati perché hanno l’obiettivo di ridurre o eliminare le disuguaglianze. Come disse la corte costituzionale con sentenza 3/1957, secondo la quale l’uguaglianza deve essere intesa come «trattamento eguale in condizioni eguali e trattamento diseguale in condizioni diseguali».

Ad essere, dunque, prefigurato dall’articolo 3 è un modello di società alternativa a quello allora vigente, che si pone come obiettivo la realizzazione della democrazia reale, con la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori, con la rimozione degli impedimenti che la ostacolano e la predisposizione degli strumenti specifici finalizzati alla sua concreta realizzazione. Come direbbe Calamandrei in riferimento all’introduzione dei diritti sociali nella carta costituzionale: «Questa Costituzione è il punto di partenza di una rivoluzione che si mette in cammino».

 

Conclusioni

Filo conduttore dei temi esposti è la necessità di interventi pubblici, politiche redistributive, mobilitazioni collettive e i diritti sociali come strumento per ridurre le disuguaglianze, allo scopo di realizzare la giustizia sociale e quindi il pieno esercizio delle libertà di tutti i cittadini.

L’articolo 3, lo abbiamo più volte ribadito, è un articolo rivoluzionario perché, prendendo atto della presenza di disuguaglianze, indica i mezzi per ridurle. Non si limita a sancire il principio d’uguaglianza formale, ma anche quello sostanziale, perseguendo i fini specifici del pieno sviluppo della persona umana e della partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale, nella certezza che l’eguaglianza di fronte alla legge non sia sufficiente se rimangono divari sociali (Paladin). Come affermò Togliatti durante i lavori dell’Assemblea Costituente: «Non si vuole qui alludere ad una legislazione sociale completa, perché in tal caso il concetto sarebbe già compreso nella prima parte del comma primo. Invece con le parole – ed hanno diritto ad eguale trattamento sociale- si vuole esprimere la tendenza della nuova costituzione ad incanalare lo sviluppo della nostra società verso una maggiore eguaglianza».

Cercando di fare un ragionamento più generale, l’attuazione della Costituzione significa- come affermato nelle premesse da Pietro Costa e Mariuccia Salvati- innanzitutto la realizzazione dei principi e dei diritti fondamentali. Essi sono l’elemento fondante dell’ordinamento perché per modificarli servirebbe un processo di revisione costituzionale e quindi si sottraggono al gioco della maggioranze parlamentari mutevoli. Evitando un’esasperata esaltazione e solo attuandoli eviteremo il rischio di un loro svuotamento.


Si veda anche:

“Costituzione italiana: articolo 2” di Maurizio Fioravanti

“Costituzione italiana: articolo 4” di Mariuccia Salvati

“Costituzione italiana: articolo 5”di Sandro Staiano


[1] Cfr. Aljs Vignudelli, Diritto Costituzionale, Giappichelli, Torino 2010.

[2] Cfr. Ermanno Gorrieri, Parti uguali fra disuguali. Povertà, disuguaglianza e politiche redistributive nell’Italia di oggi, il Mulino, Bologna 2002.

Scritto da
Federica Venturelli

Classe 1995, modenese. Studia Giurisprudenza presso l'Università di Modena e Reggio Emilia. Consigliera comunale a Modena. S'interessa perlopiù di politica italiana, estera e storia contemporanea.

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