Scritto da Giacomo Bottos
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La fase attuale, che vede un sovrapporsi di crisi molteplici e genera un contesto di profonda incertezza, se da un lato moltiplica e rende molteplici e differenziati i bisogni sociali, dall’altro fa sì che sia più complesso individuare soluzioni e risposte a tali bisogni. Questo crea una sfida tanto dal punto di vista della conoscenza della società che della progettazione di azioni, che vedano la collaborazione di soggetti di tipo diverso. In questa intervista tali questioni vengono affrontate da Marco Marcatili, economista, Responsabile sviluppo e sostenibilità di Nomisma, Presidente del Centro Agroalimentare di Bologna (CAAB) e Segretario generale della Fondazione Yunus Italia.
Partiamo dal contesto, dalle sfide da affrontare a livello globale. Quali sono le caratteristiche principali di questo momento di cambiamento di fase della globalizzazione?
Marco Marcatili: Uno dei punti che va messo a fuoco è il mutamento di paradigma occorso nel passaggio dal Novecento agli anni Duemila. Nel secolo scorso sperimentavamo una crisi ogni vent’anni, e pertanto si poteva programmare. C’erano insomma delle boe sicure. Solo dall’inizio degli anni Duemila, invece, abbiamo assistito a cinque o sei shock economici. Se prima avevamo delle crisi cicliche, ora in soli vent’anni c’è stato l’11 settembre, la crisi del 2007-2008, quella finanziaria del 2011-2012 e poi del 2014-2015, quindi il Covid-19, la guerra in Ucraina e la ripresa così violenta del conflitto israelo-palestinese con le loro conseguenze. Di fronte a queste crisi frequenti non può che modificarsi il nostro modo di leggere la realtà e di agire. Tutte queste crisi hanno poi avuto un solo filo conduttore: sono state meno democratiche di quelle novecentesche e hanno inficiato la stabilità del ceto medio, rendendo inoltre difficile alle imprese programmare gli investimenti. Lo shock petrolifero, ad esempio, colpiva più o meno tutti in maniera simmetrica. Le crisi contemporanee, che riguardino la domanda, l’offerta o le istituzioni, non hanno effetti uguali sulla società. L’inflazione di oggi ne è un esempio, e per fortuna ciò viene evidenziato: non ha avuto lo stesso impatto su tutte le classi sociali; c’è anzi chi ha continuato ad accumulare ricchezza. Lo stesso vale per il Covid. Di fronte a questo tipo di crisi sociali, è illusorio pensare di poter intervenire con bonus e rimedi estemporanei… Anche il PNRR, esempio di misura sicuramente straordinaria, porta con sé l’idea che dovremmo uscire da queste crisi solo uno shock di domanda, senza invece intervenire sulle cause che generano disuguaglianze e inefficienze. Dobbiamo uscirne cambiando alcuni connotati, non moltiplicando la domanda: è qui l’inghippo. Bisognerebbe anzi ragionare usando lenti diverse rispetto a quelle che ci vengono fornite dai concetti di domanda e offerta…
Quali sono gli effetti sul tessuto economico-sociale dei fenomeni globali che ha descritto?
Marco Marcatili: Per dirla con una formula: quando noi pensavamo di espanderci, in verità ci stavamo slegando. Malgrado i tentativi di contenere le spinte disgregative, i territori, compreso quello emiliano-romagnolo, sono colpiti da questi macrofenomeni globali che generano processi di frammentazione sociale. Oggi c’è più solitudine e insicurezza, ci si richiude su di sé. Se le crisi sono così frequenti e producono grandi disuguaglianze è inevitabile la paura: le famiglie, allora, non sono più disponibili a pensare al domani. Ciò vuol dire che, mentre prima pensavamo che la fiducia e l’ottimismo fossero degli input, oggi bisogna progettare politiche che non abbiano il solo obiettivo della crescita, bensì il fine di generare sicurezza e fiducia, anche all’interno delle singole organizzazioni. Le giovani generazioni sono insicure, prede dell’ansia, e di pressanti valutazioni sulle performance. Anziché misurare solamente i vantaggi economici degli investimenti, quando progettiamo i sistemi fiscali o le politiche di mobilità ci dobbiamo chiedere se stiamo intervenendo a creare maggiore fiducia e qualità della vita.
A Bologna, la Fondazione Yunus Italia, insieme a Nomisma e Università di Bologna, ha lanciato la prima Giornata Italiana del Social Business. Qual è il significato del concetto di social business in relazione al ripensamento del rapporto tra attori economici di tipo diverso?
Marco Marcatili: Le sfide di cui abbiamo parlato sono sfide sociali. Non riguardano solamente la produttività e il valore aggiunto, ma innanzitutto temi collettivi come la fiducia delle famiglie o la crisi democratica. A ciò si aggiunge la sfida ambientale. Non è possibile pensare che di questi enormi temi sociali si occupi solo il pubblico. Non si tratta di essere né statalisti né neoliberisti: è concretamente impossibile pensare che sia un solo soggetto a intervenire. C’è bisogno di una co-responsabilità di soggetti. L’impresa non sempre è consapevole di essere chiamata a farsi carico di questo bisogno di socialità. Sono frequenti le forme di socialwashing. Se non deve (né può) essere solo il pubblico a occuparsi di produrre maggiore socialità, alle imprese bisogna chiedere: in che modo oggi la vostra organizzazione contribuisce a migliorare ad esempio la conciliazione vita-lavoro o la natalità? A Parma, per portare un esempio, secondo le proiezioni tra vent’anni sarà scomparsa un quarto della popolazione – ed è una città, non un piccolo centro delle aree interne. Il problema riguarda quindi tutti gli attori: non si può far altro che pensare che le sfide sociali debbano costituire il core business dell’azienda, e nemmeno un’occupazione collaterale. A metà degli anni Ottanta Michael Porter ha avuto grande riscontro per la teoria della catena del valore. A distanza di 25 anni, ha aggiornato il suo modello, proponendo il modello del valore condiviso: è necessario che si generi valore contemporaneamente per chi produce e per tutti gli stakeholder. Solo così abbiamo la garanzia di evitare ogni forma di esclusione. Su questo tema trovo le imprese molto impreparate.
In relazione a questi dibattiti viene spesso evocato il tema dell’impatto…
Marco Marcatili: Il tema dell’impatto è rischioso, perché la maggior parte delle volte si traduce più in una teorizzazione dell’impatto piuttosto che in un’azione che lo produca. Ci stiamo affezionando a miriadi di sistemi di valutazione e misurazione dell’impatto che spesso non corrispondono alla realtà e non producono effetti. Bisogna piuttosto innamorarsi dell’impatto reale, dell’azione. Chi è che sta lavorando affinché i progetti del PNRR generino impatto sociale? Chi accetta davvero di porsi tale questione?
E questo cosa significa per l’impresa, anche in termini di trasformazioni interne della sua struttura?
Marco Marcatili: È innanzitutto una questione di coscienza. L’economista che ha sviluppato il concetto di distretto industriale, Giacomo Becattini, ha scritto un libro intitolato La coscienza dei luoghi: non sono importanti le teorie o i modelli descrittivi ma quanto noi siamo capaci, attraverso politiche, relazioni e formazione, di creare una coscienza di luogo – e una coscienza di organizzazione – capace di produrre impatto. A me non interessa l’algoritmo che crea impatto, ma se c’è una coscienza di luogo che lo produce. Se sul nostro territorio abbiamo avuto un certo impatto delle medie imprese sull’offerta di cultura è perché le imprese avevano una determinata coscienza imprenditoriale. Però se non ci interroghiamo sui temi educativi e su come si genera coscienza, facciamo fatica. Rimane solo la rendicontazione. Per non ridursi al solo gioco della domanda e dell’offerta, siamo chiamati a contribuire ad una costruzione sociale della coscienza di luogo.
Abbiamo parlato delle imprese, qual è invece la prospettiva degli altri attori come le istituzioni e il terzo settore?
Marco Marcatili: È significativo il dato per cui aumenta il volontariato individuale e diminuisce quello organizzato. Eppure, il suo ruolo sarebbe fondamentale: a mio parere abbiamo maggiore bisogno di persone capaci di creare consapevolezza piuttosto che di persone che si limitano a mettere i soldi. Ciò che è importante come primo passo è creare contesti che stimolino l’impatto sociale, e questo si può fare solo attraverso una presa di coscienza collettiva.
Come deve cambiare il ruolo della banca e della finanza in quest’ottica?
Marco Marcatili: Nel nostro modello attuale sono in aumento le famiglie che ricevono un rifiuto bancario, e molte altre neanche provano ad andare in banca. La tradizione del nostro Paese si radica in esperienze come i monti di pietà, volti ad anticipare la semina ai contadini, e le casse rurali, nate sui territori con l’obiettivo di fare credito a masse di contadini e artigiani esclusi dai circuiti del credito. Oggi viviamo in un sistema che eroga prestiti solo a chi può dimostrare di possedere già risorse in abbondanza, senza valutare i progetti. Oggi ad essere valutata è soprattutto la persona prima che il progetto. Si è infatti costruito un modello no risk, che però non può funzionare: se i sociologi teorizzano che la nostra è la “società del rischio”, come possiamo pensare di creare aziende o comunità no risk? Abbiamo bisogno di più soggetti che si assumano un rischio collettivo, e per ora non ci sono. Social business è una categoria provocatoria che ci stimola ad assumere rischi sociali insieme. Oggi abbiamo il più alto tasso di esclusione finanziaria mai raggiunto, sia dal punto di vista delle imprese che delle famiglie. I dati di Nomisma ci dicono che tre milioni di famiglie vorrebbero acquistare casa. Perché allora ci sono solo 650.000 compravendite? La quota di chi è in affitto aumenta e non rappresenta più una transizione: l’affitto diventa una trappola sociale da cui non si riesce a uscire. Istituzioni e banche devono collaborare per una soluzione comune, a partire da una garanzia pubblica sul credito erogato per l’acquisto della prima casa. Si tratta di una priorità sociale.
Ci può fornire qualche esempio di progetti e di sperimentazioni promettenti che provano a dare risposte ai bisogni sociali?
Marco Marcatili: Ci sono alcune idee promettenti, ma manca la cornice adeguata. Negli anni Ottanta tutti hanno preso il mutuo perché la narrazione era che bisognava diventare un Paese di proprietari. Così si creavano le condizioni adeguate e le banche fornivano i prestiti. Allo stesso modo, la narrazione sul miracolo economico ha incentivato la nascita di molte famiglie di imprenditori. Ma oggi dov’è la narrazione che permetta di affrontare le sfide sociali? Serve un progetto-Paese che metta al centro la capacità di creare attività economiche per risolvere le sfide sociali. Senz’altro si possono fare esempi di startup virtuose che si prefiggono di intervenire su problemi come i rifiuti o l’accesso all’acqua. Il rischio è rassegnarsi alla tentazione di un Paese malinconico e “seduto”, che quando c’è un problema sociale tende a ricorrere all’assistenza.
Per quanto riguarda CAAB, realtà che lei presiede, siamo di fronte a un’infrastruttura logistica ma che, seguendo la sua prospettiva, va ripensata in un’ottica di rigenerazione sociale. Quali concetti sono necessari per pensare il legame tra infrastrutture fisiche e sociali?
Marco Marcatili: Stiamo cercando di far percepire che il Centro Agroalimentare di Bologna è una grande infrastruttura sociale che funziona grazie al lavoro di mille persone ogni giorno, e che grazie alla sua attività garantisce la sicurezza e la qualità alimentare. CAAB è già oggi un’azienda in salute, lavoreremo per potenziarla in termini di social business, intervenendo ad esempio sulla qualità del lavoro notturno, sull’integrazione dei lavoratori, sul rapporto con la città. Se ha senso mantenere CAAB come infrastruttura pubblica è perché essa ha dentro un software importante di rapporto con la città. Lo sforzo che stiamo facendo è quello di provare a reinterpretare CAAB come impresa che, quando ha risolto la sfida della sostenibilità economica, produce effetti sociali. Di qui iniziative come il Protocollo di sito che stiamo realizzando per certificare tutta la filiera del lavoro che fa capo a CAAB, la brandizzazione dei prodotti per farne capire la sicurezza alle famiglie, la rinascita del mercato delle erbe, e così via. Stiamo cercando di reinterpretare la piattaforma alla luce di nuove funzioni sociali.
In conclusione, sulla base di quanto abbiamo detto, quali caratteristiche dovrebbe avere un modello di sviluppo immaginabile per i prossimi anni?
Marco Marcatili: Lo sviluppo non è solo la crescita economica, ma comprende almeno altre due dimensioni: quella sociale-relazionale e quella spirituale, guardando alla crescita integrale delle persone e delle comunità. Lo sviluppo non è il risultato di una semplice somma algebrica, ma funziona come una moltiplicazione: basta che un solo fattore equivalga a zero perché il risultato dell’operazione si azzeri. Questo è il tema fondamentale, a mio avviso: nel mondo attuale bisogna abituarsi a pensare la contemporaneità degli effetti su molteplici dimensioni. Siamo pieni di piani di sviluppo, ma ancora una volta stiamo confondendo la realtà con la carta. Possiamo progettare tutti i piani di sviluppo possibili, ma poi bisogna lavorare sullo sviluppo reale; è la differenza che c’è tra consigliare una ricetta e mangiare un piatto di pasta insieme. Ecco perché mi spingo a sostenere che l’azione conta più della visione. Vengo dalla scuola spirituale dello scoutismo, che insegna l’interdipendenza tra visione e azione, ma una volta uscito da quella bolla ho trovato un mondo che sostiene sempre la necessità di avere una visione o una strategia, per progettare l’azione di conseguenza. Propongo di eliminare “visione” e “strategia” dal vocabolario, troppo spesso tali termini sono impiegati in frasi fatte ed espressioni vuote. A me piace piuttosto un’azione che mette in movimento e che dà una lettura dinamica e condivisa a partire dalla pratica. È l’azione che orienta la visione, è finita l’epoca della divisione tra chi pensa e chi fa.