Scritto da Giovanni Comazzetto, Matteo Bozzon
17 minuti di lettura
Viene qui pubblicata la seconda parte di una lunga intervista a Giuseppe Duso (a questo link la prima parte “Pensare insieme: la ricerca sui concetti politici”) che prende avvio dalla riflessione sul tema della crisi della rappresentanza politica.
Giuseppe Duso ha insegnato filosofia politica presso l’Università di Padova fino al 2012. Ha partecipato all’iniziativa di alcune riviste quali «Il Centauro» e «Laboratorio politico». Fin dal 1987 è nella direzione di «Filosofia politica». È stato uno dei fondatori del Centro Interuniversitario di Ricerca sul Lessico Politico e Giuridico Europeo (CIRLPGE), di cui è stato Direttore, ed ora è Presidente. Ha tenuto corsi e lezioni in diversi paesi europei e latino americani. Dal 1985 ha coordinato il gruppo di ricerca padovano sulla storia dei concetti. Attualmente insegna alla UNSAM di Buenos Aires, nella quale ha ricevuto nel 2015 la laurea honoris causa. Molti dei suoi lavori sono dedicati ai fondamentali concetti politici moderni in una linea di ricerca storico-concettuale alla quale il gruppo padovano ha dato un originale contributo.
Negli ultimi anni il tema della crisi della rappresentanza politica è tornato periodicamente al centro del dibattito pubblico. Sembra tuttavia che, quando si invoca una maggiore rappresentatività della classe politica, sia poco chiaro il concetto di rappresentanza politica a cui si fa riferimento. Lei ha più volte sottolineato che nell’uso comune odierno della parola ‘rappresentanza’ convivono elementi contraddittori: da una parte l’aspetto di autorizzazione nato con Hobbes, che consiste nella procedura formale di elezione che legittima la costituzione del potere politico, dall’altra un’idea quasi medievale (o cetuale) di rappresentanza, per cui rileva la trasmissione di volontà di qualcosa che preesiste ed è determinato, e non si annulla nell’atto rappresentativo (dunque una rappresentanza intesa come rispecchiamento). Il fatto che nell’idea di rappresentanza politica si proiettino convinzioni, desideri e aspettative tanto contraddittorie risulta forse un ostacolo, prima ancora che a serie prospettive di riforma, ad un adeguato inquadramento del problema. Da dove si può iniziare a pensare in un modo diverso la politica?
Giuseppe Duso: Il discorso è naturalmente troppo complesso per essere esaustivamente affrontato qui. Certo, si può dire che le richieste di maggiore rappresentatività non sono consapevoli dello iato che comporta la logica della rappresentanza moderna e del fatto che questo iato non è colmato dalla presenza di partiti. Inoltre, il dibattito attuale mostra anche di mancare della consapevolezza di come di fatto funzioni il Parlamento, al di là delle retoriche dei costituzionalisti. Non ci si rende cioè conto delle aporie che sono presenti in quello che Gianfranco Miglio indicava come ‘parlamentarismo puro’, nel momento in cui la rappresentanza è mediata dai partiti, secondo quello che già i sociologi del primo Novecento indicavano come ‘Stato dei partiti’. Viene qui a mancare una divisione dei poteri tra Parlamento e Governo, in quanto le decisioni di entrambi dipendono dalla volontà e dal compromesso tra i partiti (meglio: i capipartito) di maggioranza, e paradossalmente, in una concezione basata sul primato della legge e del Parlamento, il risultato viene ad essere quello della concentrazione del potere nel Governo. Inoltre, si può dire che populismo e leaderismo non sono semplici degenerazioni della democrazia rappresentativa, ma hanno la loro radice nella logica stessa della rappresentanza moderna e nel dualismo cittadini-unità politica, che caratterizza lo Stato, ma che viene da lontano, dalla sovranità e dal moderno giusnaturalismo. Sulla base dei lavori prodotti sulla democrazia, credo che sia necessario prendere atto delle aporie che sono presenti strutturalmente nella democrazia rappresentativa, come pure nella democrazia diretta, nella quale si afferma una logica di tipo plebiscitario. Credo che sia urgente pensare in modo diverso la democrazia e la partecipazione politica, oltre le elezioni, nelle quali si sceglie chi costituirà l’autorità politica (processo di autorizzazione), ma non si partecipa alla elaborazione della legge e al governo con il concreto dei propri bisogni, esperienze e competenze. Pochi sono coloro che indicano con chiarezza il problema (in parte lo fa Pierre Rosanvallon): bisogna riuscire a pensare la politicità dei governati in quanto governati e non ridurre la partecipazione alla semplice scelta del partito o del leader, o anche di colui a cui sarà affidato il governo. Prendendo a prestito una formulazione di Rosanvallon (anche se, forse, al di là di quello che egli intende), si può dire che il compito che abbiamo è quello di una concezione democratica del governo. Non sono molti a indicare la necessità di pensare in modo diverso la democrazia, ma è da osservare che anche quelli che lo fanno – filosofi e giuristi, come Jürgen Habermas, Armin von Bogdandy, Ingolf Pernice, per fare alcuni nomi – non mi sembra offrano strumenti a questo fine: cioè nuove categorie e un modo diverso di intendere l’assetto costituzionale. A me pare che questa carenza sia legata alla mancanza di consapevolezza della logica e delle aporie della democrazia pensata nell’orizzonte della sovranità, e del suo segreto, che è la rappresentanza. Il fondamento della sovranità è la rappresentanza moderna (l’unità pensata sulla base della moltitudine di individui uguali), mentre spesso si pensa che la rappresentanza sia un contrappeso alla sovranità.
Uno dei temi su cui le Sue ricerche hanno molto insistito è la critica alla scienza politica moderna come forma di sapere spoliticizzante – ovvero in quanto costruzione teorica che oscilla tra gli individui e i loro diritti da una parte e il potere politico dall’altra, neutralizzando il problema della giustizia che tanto aveva occupato il pensiero politico dell’antichità. Un dispositivo logico pervasivo, che si impone anche nel ‘senso comune’ a partire dalla Rivoluzione francese, ma che è elaborato a livello teorico già nelle moderne dottrine del diritto naturale. L’esito di questo modo di pensare è l’opposto di un progetto di libertà e uguaglianza: si parte dagli individui e dal contratto sociale come condizione dell’unità politica, ma il potere sovrano che ne deriva è irresistibile, e l’idea di un soggetto che è allo stesso tempo suddito e sovrano conduce in verità ad una teoria della perfetta obbedienza – in quanto non si può contestare una volontà che si è fin dall’inizio riconosciuta come propria. In effetti ciò che lei sottolinea della sovranità non è tanto l’aspetto dell’assolutezza (intesa come arbitrarietà del comando politico), quanto l’elemento di astrazione intrinseco ad una concezione geometrica della politica, e quello della perdita di rilevanza politica dei cittadini (che pure dovrebbero essere i ‘cittadini-sovrani’) che segue inevitabilmente alla creazione del corpo politico. Come è da intendersi la specificità di una considerazione filosofica della vita in comune degli uomini all’altezza del problema politico?
Giuseppe Duso: Il discorso è complesso, perché implica una serie di analisi su temi e su autori che non si possono qui richiamare, e anche di argomentazioni che si perdono nel momento in cui si forniscono, quasi come affermazioni schematiche, i risultati della ricerca. Pochi intendono che la sovranità, già nella sua genesi, ha la caratteristica dell’assolutezza proprio perché è l’esito di un processo razionale che parte dal concetto moderno di libertà. Per comprendere questo occorre leggere, senza pre-giudizi, il percorso che va dal XIV al XVII capitolo del Leviatano di Thomas Hobbes, e che trova una sua esplicita conferma nel XVIII. Perché è assoluto il comando del sovrano? Perché è il comando di tutti, perché la persona del sovrano è rappresentativa: qui nasce il concetto di potere rappresentativo. Il segreto dell’assolutezza del comando del sovrano consiste nel processo di autorizzazione, nel quale tutti si fanno autori delle azioni che l’attore politico farà. Per questo il potere moderno, anche nella democrazia, ha una sua assolutezza: perché i cittadini obbediscono a un comando di cui sono gli autori. Si dice infatti che in democrazia sono i cittadini che fanno la legge, o direttamente o indirettamente, attraverso i loro rappresentanti. Per questo non appare legittima la resistenza contro la legge. Questa razionalità formale, che ha alla sua base il concetto di libertà, pretende di essere una risposta univoca, che elimina il conflitto, a quella questione che si è presentata come connaturata al pensiero politico, quella della giustizia. In questa logica sta la radice della spoliticizzazione a cui si fa riferimento nella domanda. Il soggetto moderno nasce come scisso tra autori di azioni che non compiranno mai e attori di azioni di cui non sono responsabili, perché non ne sono gli autori. Qui sta la difficoltà a rintracciare la responsabilità (politica ovviamente, non penale) nella democrazia rappresentativa. L’individuo, nella scienza politica moderna, si emancipa dalla condizione di mero suddito e diventa soggetto nel senso attivo del termine, a patto però di rinunciare alla possibilità di agire politicamente. Per arrivare a noi, ci sono molti processi complessi da considerare, il discorso non è così semplice. Però secondo me rimane il nucleo di questa aporia. Anche qui, in modo totalmente schematico, si può dire che è da superare la riduzione della partecipazione all’atto delle elezioni, nel quale ciò che effettivamente si afferma non è la volontà o l’interesse o il concreto della vita di chi vota, ma la sua opinione, con la conseguenza che chi si afferma concretamente è colui che ha la capacità e i mezzi per formare le opinioni. Il compito che ci sta di fronte è invece quello di intendere la partecipazione come il coinvolgimento, non delle opinioni, ma dei bisogni, delle esperienze e delle competenze dei cittadini, di ciò che caratterizza il concreto della loro vita. Ma qui sta il problema: per riuscire a concepire una tale partecipazione bisogna mettere in questione quello che sembra il caposaldo dell’idea della democrazia come forma costituzionale: che i cittadini siano, al fondo, i soggetti del comando politico, secondo quel dispositivo della sovranità che nasce dalla negazione che tra individui uguali ci possa essere relazione di governo.
Per superare il dispositivo della sovranità occorre anche ripensare la funzione fondante dell’individuo. In questo senso, uno dei pensatori nei quali Lei ha cercato gli strumenti concettuali per la riflessione sul politico – ma sempre raccomandando di non farne indebite attualizzazioni – è Althusius. Che pure è stato talvolta ritenuto un teorico della sovranità popolare. In cosa ci può aiutare la lettura dei testi di Althusius oggi?
Giuseppe Duso: Se si pensa che l’espressione politica dell’individuo avvenga in quanto singolo, in quanto isolato e autosufficiente, come avviene nelle elezioni, la sovranità è l’esito insuperabile. Althusius è un autore che io ritengo veramente formidabile per la complessità del suo pensiero costituzionale – prendendo il termine nel senso più complesso, etimologico –, ma anche per ciò che ci permette di pensare. Prima del nostro libro Il contratto sociale nella filosofia politica moderna (il Mulino 1987), penso che si possa dire che in Italia non era presente, se non nel lavoro di qualche isolato studioso. Ora è ripreso da più parti, ma spesso in modo distorto e non produttivo, come quando si ravvisa in lui, peraltro a seguito di illustri studiosi, un antesignano di Rousseau e della sovranità popolare. Succede così quello che avviene anche nell’interpretazione di altri classici. L’atteggiamento di attualizzarli, di leggerli cioè in base ai nostri concetti, valori e problemi, crea un duplice danno. Da una parte li si fraintende, in quanto, anche quando in essi si rintracciano le stesse parole, queste hanno un significato diverso da quello che hanno per noi. Questo è il risultato del lavoro storico-concettuale: si pensi ad esempio alla differenza radicale del modo di pensare la politica che si determina tra la democrazia, intesa come forma di governo (ad esempio in Platone e Aristotele), e la democrazia intesa come la sovranità del popolo. Ma l’altro danno consiste nel fatto che leggendo i classici con gli occhiali dei nostri concetti, questi ultimi rimangono presupposti e manca una coscienza critica del nostro modo di pensare. Se invece si attraversa l’autore antico con la consapevolezza della diversità del contesto di pensiero che lo caratterizza nei confronti dei concetti che solitamente noi usiamo, e nello stesso tempo si ha consapevolezza delle aporie dei concetti moderni, allora si determina un orizzonte nuovo che può portare ad aspetti innovativi nel pensiero della politica. Molte sono le cose che ci sarebbero da dire a proposito della rilevanza dell’attraversamento del pensiero di Althusius. Ricordo solo un paio di punti rilevanti. In relazione al problema dell’individuo: alla base della politica non stanno gli individui con i loro diritti, ma gli individui sono pensati piuttosto all’interno del diritto simbiotico. Ciò che appare originaria allora è la relazione, in cui certo ci sono gli individui, ma nel concreto delle relazioni nelle quali realmente sono. Il suo pensiero non si risolve in una dimensione orizzontale, o nella concezione di una fondazione del potere dal basso, come spesso si tende a ritenere, ma piuttosto nel legame stretto tra la dimensione del comune, della comunità, della comunanza, della cooperazione, e quella del governo. Questo è l’insegnamento attraverso cui noi dobbiamo passare: le due cose non possono essere disgiunte, non c’è comunità (certo una comunità plurale, non una comunità immaginata come unitaria perché si sono eliminate la pluralità e la differenza), se non c’è insieme anche la funzione di unificazione che è quella del governo – che non produce l’unità politica, ma che è necessaria se questa è intesa come plurale. Una delle cose che Althusius ci aiuta a pensare è la pluralità del popolo; ma proprio questa pluralità impedisce che esso, come totalità, si autogoverni (in questo caso si darebbe luogo alla sovranità). In relazione ad una istanza di governo, che istituisce e controlla, il popolo rimane non solo idealmente, ma costituzionalmente, la grandezza politica maggiore, e i gruppi che lo costituiscono hanno una loro autonomia e rimangono politicamente attivi di fronte al comando del governo. Ecco, un popolo che ubbidisce e rimane superiore a colui che esprime la guida e il comando politico, è quello che il nostro concetto di potere nell’orizzonte della sovranità non ci permette di capire. È inutile aggiungere che Althusius non è un ‘modello’, perché è all’interno di un orizzonte gerarchico e di una società corporata, che non hanno ancora incrociato il principio moderno della libertà soggettiva.
Che cos’è per Lei il federalismo? E in che senso questo potrebbe intendersi come una sorta di via d’uscita rispetto alle aporie e alle trappole concettuali della concezione moderna della politica?
Giuseppe Duso: Il problema del federalismo è un problema nuovo nel modo in cui io lo intendo, che non è risolto né dalla tradizione di pensiero che si identifica con questo termine, né con le esperienze storiche che ad esso si riferiscono. Per me si tratta di un modo radicalmente diverso di pensare la politica, alla cui base sta la consapevolezza delle aporie di una democrazia pensata nell’orizzonte della sovranità e dell’autorizzazione. Però, prima di parlare di federalismo e di una proposta federalista, bisogna chiarire che senso abbia avanzare una proposta. Ritengo che ci siano due momenti del pensiero della politica e che abbiano uno statuto epistemico diverso. Da una parte, abbiamo l’analisi critica dei concetti, delle dòxai comuni, e anche dei processi costituzionali che sono legati a questi concetti. Qui il rigore consiste nel coglimento delle contraddizioni. Ma, se nel dispositivo concettuale moderno emergono delle contraddizioni, nasce immediatamente la necessità di pensare la politica in modo diverso: si tratta del secondo momento della filosofia politica, quello della proposta, cioè del ‘disegno della città’. Questo non è deducibile dall’analisi critica, storico-concettuale, è un discorso arrischiato, e che ha sempre a che fare con la contingenza che caratterizza il nostro tempo e la nostra situazione, ma anche la stessa prassi. Ciò vale anche per l’ottima polis in Platone, che il filosofo tenta di disegnare (cancellando e ridisegnando) in modo che sia, quanto più possibile, simile al divino. Il che significa che l’Idea è sempre eccedente il disegno della città, come dice bene Milena Bontempi nel suo libro su Platone: quella dell’ottima polis è sempre un’immagine. Ritornando alla questione della giustizia, nei confronti della quale appare debole e aporetica la soluzione del dispositivo moderno, secondo il quale la legge è giusta in quanto fatta dal soggetto legittimo, che è il soggetto collettivo, cioè il popolo, potremmo dire che l’idea di giustizia è innegabile, in quanto non c’è società o comunità che possa organizzarsi senza implicarla, ma, contemporaneamente, la sua determinazione è di volta in volta contingente, legata all’ethos collettivo, alla situazione in cui si è. Insomma, le difficoltà e le contraddizioni del presente non si superano con un prodotto perfetto della teoria, con un’altra forma politica. Una volta precisato questo, possiamo dire, in modo totalmente schematico, che alla base di una proposta federalista stanno: l’originarietà non dell’individuo, ma della relazione; la pluralità del popolo; la necessità di intendere il comando nella forma non del potere – rappresentativo – ma della relazione di governo; la partecipazione politica sulla base dei bisogni e delle competenze, e di quelle differenze che solo nei gruppi e nelle aggregazioni possono emergere politicamente e avere una funzione politica, e non nei singoli in quanto tali. Pluralità e governo emergono come categorie chiave che permettono e impongono di pensare la politica in modo diverso da quello in cui siamo abituati in relazione alla democrazia rappresentativa. Si può allora comprendere che, sia pure prevedendo una dimensione territoriale, si richiede per un federalismo di questo tipo anche una dimensione che – in modo approssimativo – potremmo dire ‘sociale’. Dico approssimativo, perché in questo caso sociale non si contrappone al politico, ma è un modo di intenderlo, al di là della distinzione di società civile e Stato che sta alla base delle costituzioni, impedendo (come riconoscono costituzionalisti come Dieter Grimm) di pensare costituzionalmente una pluralità di soggetti politici.
Lei ha detto che il federalismo non è da intendersi in senso esclusivamente territoriale, ma che necessita anche di un riferimento spaziale. Un altro grande oggetto del dibattito attuale è in effetti quello delle autonomie territoriali. Ciò che tuttavia si osserva – anche nei sistemi federali di più lunga tradizione – sono generalmente fenomeni di difficile gestione, quali la costante (e talvolta estenuante) contrattazione intergovernativa e lo scarico di responsabilità che a ciò si accompagna, al punto da generare una mancanza di responsabilizzazione ‘democratica’. Non c’è il rischio che anche le autonomie territoriali siano pensate (anche da parte di chi ne chiede la valorizzazione) entro la concettualità moderna, dunque secondo la logica verticalizzante e spoliticizzante della sovranità? Piccole patrie piuttosto che articolazioni di un’unità plurale, responsabilizzate politicamente. Quali elementi consentirebbero di dischiudere un’alternativa?
Giuseppe Duso: Una piccola precisazione: quando io mi riferisco al momento spaziale dell’organizzazione politica, e anche ai suoi limiti, tengo presente il difficile compito del governo dei processi globali che in parte sfuggono alla dimensione spaziale. Io credo che il vero problema oggi sia quello di incrociare la dimensione spaziale dell’organizzazione politica – che è da intendere in modo federale, e per noi nell’orizzonte dell’Europa – con il compito del governo politico di processi che ci dominano – processi economici, dell’assetto del capitale, della rete, dell’ambiente –, che non sono governati e sembrano difficilmente governabili. Su questo abbiamo organizzato un incontro seminariale a Padova nel 2019, che io credo sia da continuare, per incrociare maggiormente queste due linee di ricerca, quella relativa all’organizzazione politico-costituzionale e quella che riguarda il governo dei processi globali. Questo mi sembra essere il vero problema politico che abbiamo di fronte. Al tempo delle discussioni recenti (2016) sulla riforma costituzionale, io mi sono espresso a favore della rilevanza delle autonomie locali, come possibile contrappeso al potere del governo (il quale, peraltro, in una prospettiva federalistica, deve avere unitarietà, forza e una sua autonomia). Ma ciò comporta che siano da ripensare le autonomie, in modo da permettere quella partecipazione politica che non si produce mediante le elezioni. In un orizzonte federale appare poi fondamentale determinare il nesso tra organo collettivo plurale, funzione di governo e relazione tra questa e le autonomie locali. Se l’assemblea federale è plurale, suo compito è l’accordo sulle regole di giustizia, mentre il comando politico viene espresso dal governo, che non può che essere caratterizzato dall’unità (non può essere esso stesso plurale e frutto del compromesso). Ad esso spetta la decisione, ma non si tratta della decisione sovrana di Schmitt, quanto piuttosto di una decisione condizionata dall’alto dalle regole di giustizia riconosciute dall’assemblea federale, e dal basso da quelle aggregazioni che sono le autonomie territoriali, ma anche da quei gruppi e da quelle forme di aggregazione che nella società esprimono bisogni, saperi ed esperienze, le quali devono contare politicamente. Il federalismo, e conseguentemente il ruolo delle autonomie, costituiscono un modo diverso di intendere la democrazia sulla base delle categorie di governo e pluralità e partecipazione.
È proprio la riflessione sul federalismo e su un diverso modo di intendere la politica che l’ha portata a confrontarsi con il problema dell’Europa come realtà politica. Anche qui ci si scontra con un’inadeguata messa a fuoco di ciò che è da pensare. Il concetto di sovranità (o meglio quella rete di concetti tra i quali la sovranità ha un ruolo fondamentale) sembra costringere ad una sorta di scelta di campo: o restano sovrani gli Stati, e l’Unione Europea è tutt’al più un’associazione di Stati (che continuano ad essere i ‘Signori dei Trattati’), oppure si pensa ad una ‘Europa sovrana’, che magari è pure ‘legittimata democraticamente’, ma rischia di cancellare quella pluralità politica che ha l’obiettivo ‘costituzionale’ di conservare. Quali sono le ricadute più significative per un pensiero federalistico che intende farsi carico, in relazione all’Europa, della crisi radicale della rappresentanza politica?
Giuseppe Duso: L’Europa costituisce una cartina di tornasole per la necessità di un pensiero federale, perché nell’Europa è evidente sia il processo di formazione da parte di membri diversi, sia la volontà di questi ultimi di rimanere politicamente attivi. Io ho cercato in più saggi di mostrare che non è possibile pensare l’Unione Europea come unità plurale se non si supera l’orizzonte della sovranità, e quindi si resta all’interno della questione posta nella domanda ‘quanta sovranità mantengono gli Stati e quanta ne ha l’Europa?’. In un’unità plurale non può essere sovrana l’Europa come non lo possono essere gli Stati; perché se i membri devono mantenere una dimensione politica, non può essere sovrana l’Europa, proprio perché è condizionata dalla pluralità dei membri e dalla necessità del loro accordo, e non lo possono essere i membri, i quali fanno parte di una nuova realtà, ed essendo parti di questa nuova realtà non hanno più l’indipendenza sovrana che avevano prima. Anche se l’atto di formazione dell’Unione Europea sembra (ed è considerato così dagli Stati) derivare dalla loro volontà sovrana, se riflettiamo, risulta in realtà esprimere non tanto la loro autosufficienza e indipendenza, quanto piuttosto la loro insufficienza, nei confronti di processi globali e del problema della pace e dell’ordine dell’Europa. Perciò la necessità di membri diversi di ritrovarsi in ciò che è comune. Naturalmente, per pensare in modo federalistico un’unità plurale bisogna superare il modo in cui nel moderno si è concepita la forma politica e la costituzione, sulla base cioè del nesso sovranità-rappresentanza. Anche qui il discorso si fa complesso, e non solo, richiede anche più competenze di quelle che io ho. Però, orientativamente, credo che si possa dire che non si può concepire l’assemblea generale federale al modo degli attuali Parlamenti, ossia conferendo ad essa il compito del potere legislativo che è l’espressione primaria della sovranità, nei confronti della quale il governo diventa l’esecutivo. Corrispettivamente, è necessario concepire la sua funzione in modo plurale, che richiede necessariamente la forma dell’accordo, non della decisione unitaria. Questo è il problema complesso, difficile, di un’assemblea federale. E in relazione a questo è necessaria una funzione di governo che deve essere unitaria, forte: quanto più è plurale l’assemblea, tanto più deve essere unitaria l’azione di governo. La quale però, come ho detto, dipende dall’assemblea e si confronta al massimo con le forme di organizzazione dei membri – che ora sono quelle statali, ma probabilmente per l’Europa dovrebbero e potrebbero essere sempre più quelle regionali e ‘funzionali’, legate cioè alle diverse realtà sociali, del lavoro ecc. – con le quali il governo deve confrontarsi.
Lei ha scritto che «Pensare alla sfera politica composta di governanti e governati non comporta necessariamente la convinzione di semplici dipendenze naturali e cristallizzate tra gli uomini, ma piuttosto quel riconoscimento delle differenze che è essenziale ad un contesto segnato dalla pluralità dei soggetti politici e da un orizzonte in cui sia possibile orientarsi: ambedue questi elementi – differenze e punti di riferimento per poter pensare ciò che è giusto – appaiono implicati nel principio del governo». Cosa sono per Lei le differenze e la pluralità? E quale rapporto sussiste tra queste e l’esigenza di un orizzonte comune in cui sia possibile orientarsi? Quali sono gli spazi concreti per quest’ultimo oggi?
Giuseppe Duso: Mi sembra, innanzitutto, che la categoria del governo comporti la differenza tra chi governa e chi è governato al di là della identificazione – che comporta anche in-differenza – che appare implicata nell’idea della democrazia. Certo, non si tratta di una differenza ontologica o antropologica, si tratta di una differenza che è interna a una concezione dell’uguale dignità degli uomini, della rimozione per tutti degli ostacoli per accedere alle cariche politiche, e della consapevolezza che tutti concorrono alla determinazione della giustizia (ethos collettivo). Ma certo, ciò non comporta che tutti, in modo indifferente, possano governare: e diversa è la responsabilità di chi governa e di chi è governato. Come abbiamo detto sopra, l’istanza di governo è necessaria, ma dipende dal corpo politico complessivo, in modo diverso dall’alto e dal basso. Insomma, dire che il popolo plurale è governato non comporta la sua sudditanza nei confronti dell’istanza di governo, ma il contrario, il fatto che in qualche modo è presente sopra chi governa e sotto, nelle forme parziali di organizzazione (per capire questo è assai utile l’attraversamento del pensiero di Althusius). La pluralità non è certo quella degli individui in quanto tali, né si identifica con il pluralismo delle opinioni: il pluralismo moderno delle opinioni va di pari passo con l’unità politica della sovranità. La pluralità implica invece differenza tra le parti del corpo politico, una differenza che non può essere quella infinita e indefinita che c’è tra gli individui, ma appunto quella espressa dai gruppi: differenze di bisogni, esperienze e saperi, che si devono esprimere politicamente. Certo, è assai complesso determinare un’articolazione di differenze in una società che non è liquida, ma non è nemmeno corporata, come nel Medioevo. Per questo non è una soluzione quella della rappresentanza corporativa, in quanto ognuno partecipa di realtà molteplici e diverse. Inoltre la possibilità che queste contino politicamente richiede una qualche determinazione, ma nello stesso tempo bisogna impedire che questa si traduca in una cristallizzazione nei confronti della mobilità che caratterizza la società. La rilevanza poi del compito dell’accordo non comporta un’esorcizzazione del conflitto: al contrario, permette di pensarlo e di prevederne la produttività (a differenza di quanto accade nel dispositivo della sovranità). Ma in questo orizzonte il conflitto non appare come un concetto originario e autosufficiente: se è assolutizzato appare contraddittorio, in quanto, tendendo all’eliminazione dell’altro, comporta anche la sua stessa negazione. Esso va pensato invece come una modalità interna alla relazione e non contro di essa, dunque politicamente, e all’interno della pluralità dell’istituzione e del rapporto tra governo e governati. L’abitudine a pensare la politica nei termini del potere e della razionalità formale tende a farci ritenere irrealistico il gesto dell’accordo; ma penso che si tratti di una considerazione troppo affrettata, forse si dà troppo per scontata e reale l’affermazione che Dio è morto, l’affermazione cioè che a fondamento dell’ordine politico stia il nichilismo. Si potrebbe rovesciarla e dire che a essere irrealistica è la riduzione della giustizia a un mero meccanismo formale, come è necessario fare se si ritiene che non ci sia proprio nessuna possibilità di accordo tra diversi. La sovranità nasce da questo, dalla considerazione della diversità delle opinioni sulla giustizia come causa di un permanente conflitto. Ma la razionalità formale che ne caratterizza il dispositivo concettuale, che ricade nell’organizzazione costituzionale, non appare risolutiva; basti pensare a come in tutto il mondo emerge, in modo a volte anche violento, la richiesta di giustizia. Ma non è sufficiente nemmeno per la Costituzione, la quale, come evidenzia ad esempio quella italiana, non si limita a determinare processi formali di legittimazione del comando politico, regole di funzionamento dei diversi poteri, ma contiene valori, ideali, dignità delle persone, disuguaglianze da rimuovere, insomma una direzione che appare come un compito per la politica. I Padri costituenti hanno dovuto trovare un accordo per determinare un orizzonte comune di valori e di giustizia. C’è una modalità oggi diffusa per pensare il quadro internazionale sulla base della razionalità formale: l’estensione mondiale del mercato e insieme delle procedure della democrazia. Se queste non sono riconosciute in grandi parti del mondo si tratta di imporle, se si riesce pacificamente, altrimenti con la forza. Forse c’è un altro modo per pensarlo: quello di riconoscere le differenze e lavorare a tutti i livelli, anche quello mondiale, all’accordo e al ritrovamento del comune, cercando di determinare in modo contingente criteri di giustizia. Forse è più difficile; non so se sia meno realistico.