Scritto da Domenico Romano
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Il destino del Partito Democratico è diventato il fulcro del dibattito politico americano dopo la clamorosa vittoria di Donald Trump alle elezioni del novembre 2016. I danni inferti al più vecchio partito americano da parte degli elettori erano davvero ingenti. Oltre alla clamorosa sconfitta della Clinton contro Trump, anche il Congresso finiva in mano Repubblicana, creando le condizioni del governo unificato[1] che, per il caso di un Presidente Repubblicano al primo mandato non accadeva dai tempi di Eisenhower (1953)[2].
Ma il quadro politico dei Democratici non era diventato deprimente all’improvviso. La realtà dei fatti è che durante tutto il doppio mandato dei Democratici alla Casa Bianca il partito ha perso molti, se non tutti gli appuntamenti elettorali. A novembre 2008 il Partito Democratico controllava sia il Senato che la Camera al Congresso, 28 governatori su 50 appartenevano allo stesso partito di Obama ed in 27 Stati i Dem controllavano sia i Senati che le Camere statali. In 17 di questi stati i governatori appartenevano anch’essi al Partito di Obama. A novembre 2016 i Democratici avevano perso 62 Rappresentanti, 9 Senatori (ed il controllo di entrambi i rami del Congresso), 12 governatori dei 28, il controllo integrale di 13 legislature statali (entrambe le camere). Gli Stati con Governatore Democratico e controllo dei legislativi da parte dello stesso partito passava da 17 a 6. Il numero di seggi statali persi nel doppio mandato di Obama, ha sfiorato le 1000 unità: 968 seggi[3].
In definitiva, quindi, la terribile notte elettorale delle presidenziali era stata annunciata da una catastrofica prova del partito in tutte le altre competizioni rilevanti del Paese. Sotto la stella ddi Obama[4], il partito e la coalizione che lo ha sostenuto e fatto vincere per due volte andavano erodendo il loro perimetro in maniera sempre più forte.
Il primo allarme per i Democratici americani: le primarie per le presidenziali 2016
Con il senno di poi, le primarie per la selezione del candidato alla Casa Bianca sono state l’evento che ha maggiormente “previsto” i problemi di novembre. L’ex Segretario di Stato di Obama ha vinto in 34 sfide, ma il suo sfidante, il Senatore del Vermont Bernie Sanders ne ha conquistate ben 23[5]. Il risultato in sé non è un indicatore affidabile dell’esito finale, poiché ad esempio nel 2008 la sfida tra i senatori Obama e Hillary Clinton finì con numeri pressoché identici in termini di sfide e di delegati rispettivi[6], e poi i Democratici infilarono in serie la vittoria per le presidenziali ed il controllo unificato del Congresso. La differenza è, quindi, di tipo qualitativo. Obama era una star in crescita nel partito, un senatore importante, e già protagonista della convention Democratica di quattro anni prima. Al momento delle primarie Sanders era pressoché sconosciuto, bianco, anziano, del nord degli Stati Uniti, tecnicamente un indipendente (sia pure associato al gruppo parlamentare Democratico al Senato) e posizionato su una linea interna estremamente a sinistra con fortissima attenzione ai temi della tutela del lavoro. A dare un colpo d’occhio alla lista dei sostenitori della Clinton e confrontandolo con il risultato finale il punto risulta chiaro: i tre Presidenti ed i tre Vice Presidenti in vita del Partito Democratico, 43 tra ministri in carica, ex ministri ed ex Ambasciatori degli Stati Uniti, 19 Governatori in carica, 45 Senatori, 181 Rappresentanti si sono espressi a sostegno di Hillary per le primarie Democratiche. I numeri di Sanders invece erano: 1 ex ministro (Robert Reich), 1 Governatore, (e due ex di cui uno di Puerto Rico) 1 Senatore e 10 Rappresentanti. Paragonate le due “potenze di fuoco” risulta evidente come il risultato di Hillary Clinton sia stato enormemente sotto le attese.
Come classificare, quindi questa improvvisa “rivolta” dell’elettorato Democratico? Come inquadrare il fenomeno Sanders? Nel dibattito successivo al voto ci si è spesso domandato se, con la presenza di Sanders l’esito del voto sarebbe potuto essere diverso. A questo proposito bisogna dire che terminato il voto Sanders stesso è stato tra i principali sostenitori della Clinton e del suo programma, ma nella geografia elettorale delle presidenziali tale unità ritrovata nel post primarie non è bastata per evitare il decisivo spostamento negli Stati che hanno portato alla vittoria di Trump; inoltre non esistono prove che Sanders sarebbe riuscito a fare meglio sia dal punto di vista dei voti assoluti sia dal punto di vista degli Stati vinti o persi. Il dibattito sulla “interpretazione della rivolta pro Sanders si è ovviamente ingigantito dopo le elezioni, incrociandosi con quello più generale. Il prodotto finale è stata una disputa molto vivace e creativa ma anche spesso piuttosto sconclusionata. In generale possiamo intravedere, da parte Democratica, un gruppo di “ottimisti” che hanno messo in luce gli aspetti positivi del trend demografico e culturale degli Stati Uniti, in sostanza sostenendo che i Repubblicani avrebbero vinto una battaglia ma che ai Dem è ancora possibile vincere la guerra[7], mentre i più preoccupati ritengono che senza un cambio di linea estremamente profondo nella proposta (e nelle candidature) dei Dem, il progetto politico di Trump possa mettere definitivamente radici in un pezzo di elettorato Democratico da cui poi sarebbe complicato svincolarsi nel tempo.
L’avvio della presidenza Trump ha contribuito moltissimo tutto sommato, a tenere unito il Partito Democratico specie a livello congressuale, ma il dibattito post voto ha trasformato il partito in profondità, al monolite a trazione Obama-Clinton si è venuto a sostituire progressivamente un partito profondamente diviso, spesso quasi a metà tra un gruppo centrista (costituito per lo più dal personale politico legato ad Obama e in parte al clan dei Clinton) e quello più radicale costituito dai sostenitori di Sanders. Il risultato di questa rinnovata vivacità del Partito Democratico ha prodotto dei risultati su due fronti in particolare: la creazione di una ramificata organizzazione avente lo scopo di cambiare il profilo dei Democratici; la ripresa di una lotta interna sul piano del partito propriamente detto che ha portato anche a delle novità regolamentari tutto sommato rilevanti. Per le caratteristiche e le conseguenze della rivolta pro Sanders chi scrive ritiene che esso vada quindi inserito nel processo di rinnovamento di tutto il sistema politico americano, investito come gli altri paesi occidentali da nuovi (o vecchi) fremiti che si sono riversati sui partiti[8] con l’aggiunta, per gli USA, di una mobilitazione contro il rischio di una deriva “dinastica” nel destino dei due partiti che ad un certo punto sembravano destinati ad un eterno scontro tra la dinastia Bush e quella Clinton (o Obama).
La “corrente” di Bernie Sanders tra visione di classe e partiti americani
La presenza oramai strutturata sul piano nazionale di un’ala radicale nel Partito Democratico ha riacceso lo scontro interno con una intensità che non si vedeva dai tempi della stagione dei diritti civili e del Vietnam. La storia dei Democratici (e dei Repubblicani) è fortemente influenzata dal complesso sistema federale, presidenziale, con forti poteri di controllo vicendevoli e un impianto elettorale maggioritario, che ha reso i partiti USA delle confederazioni[9] di interessi più o meno sezionali. Questo impianto non è mai venuto meno anche quando sono cambiati metodi di selezione dei candidati con l’introduzione delle elezioni primarie. La natura di partito all’americana è lo sfondo sul quale si innesta la rivolta pro Sanders e lungo il quale va letto il risultato del Senatore del Vermont. Il conflitto delle primarie del 2016 va interpretato quindi come la lotta tra un Partito Democratico “tradizionale” – cioè di un partito organizzato secondo una strategia di assorbimento di interessi più o meno parziali ai fini della conquista della Casa Bianca – ed un nuovo tipo di Partito Democratico con una “visione” più unificante[10] che avrebbe portato lo stesso partito a rivedere la sua intera proposta (e quindi i suoi candidati) sulla base di una lettura generalizzata della fase politica (il cosiddetto socialismo di Sanders). Alcuni politologi contemporanei hanno ribattezzato l’approccio tradizionale “rainbow coalition” traducibile in italiano come “coalizione di minoranze”. Queste minoranze sono unificate, più che dalla ideologia, dalla macchina del partito (Democratico in questo caso) con lo scopo di vincere la corsa alla Casa Bianca a fini di legittima autotutela. Coerentemente a ciò Sanders era “accusato” nel corso delle primarie di occuparsi “solamente” del tema economico e non di tutto quanto il resto della “coalizione” interna al Partito Democratico; e, sempre in maniera coerente, i sondaggi demoscopici hanno mostrato che Sanders ha avuto risultati alle primarie estremamente positivi tra gli elettori indipendenti democratici che si concepivano come “liberal[11]” mentre tra gli stessi elettori “liberal” ma con una forte identificazione nel Partito Democratico era comunque secondo dietro la Clinton (53-46)[12].
Il successivo tentativo di dare continuità all’introduzione nel Partito Democratico una visione più unificante a partire dal tema della tutela del lavoro e dei lavoratori, è certamente l’eredità più interessante e ricca di potenziali e durature conseguenze. Con questo compito, continuare la rivoluzione della politica americana, Sanders ha dato vita ad una organizzazione, Our Revolution[13], che per la legge americana è una associazione di promozione del welfare sociale. Di fatto OR, funziona come un veicolo di raccolta fondi per candidati ma non può direttamente organizzarsi con i comitati politici veri e propri. Accanto ad OR inoltre è nata una costellazione di organizzazioni più o meno nazionali con il compito di proporre nuove idee e soprattutto nuovi candidati per il Partito Democratico sia a livello statale che federale. È cominciata cioè la lotta contro l’establishment dei Democratici sovente etichettati come “corporate Dem” cioè Democratici pro impresa (si sottintende quindi contro i lavoratori). I fronti di questa lotta sono stati essenzialmente due: uno interno al Partito con la presenza di diverse sfide tra candidati centristi e pro Sanders per l’elezione dei party officials dei Partiti statali e del Presidente del Democratic National Committee, l’altro sono state le primarie interne per la selezione dei candidati (congressman, Governatori, legislatori statali etc etc). Tralasciando il primo fronte per il paragrafo successivo, sul fronte delle primarie sono arrivati i primi successi. Il più interessante tra gli altri, è stato quello della candidata Ocasio-Cortez nel distretto 14 di New York contro il boss locale del partito nonché Rappresentante per 10 legislature Joe Crowley. La vittoria di una candidata di origine portoricana, autodefinita socialista[14], che ha raccolto molti meno soldi del rivale, membro di un altro partito (Democratic Socialist of America) ha avuto un’indubbia risonanza anche molto oltre i confini americani. Normalmente nella vittoria della Ocasio-Cortez viene esaltato l’aspetto simbolico (per il programma e per la candidata stessa) della lotta vincente di una insurgent contro un incumbent mettendo in secondo piano il luogo dove questo scontro è avvenuto. Ad avviso di scrive invece il dato più interessante della vittoria della Ocasio-Cortez è proprio il fatto che sia avvenuto in un distretto fortemente Democratico. Occorre spiegarsi meglio. Come detto in precedenza Sanders alle primarie ha mobilitato una base “nuova” di elettori Dem che hanno trovato nella sua proposta una motivazione per andare (o tornare) a votare alle primarie. Questo ha significato che nelle zone dove la “macchina” Democratica era già piuttosto solida[15] indipendentemente dalla collocazione interna (sull’asse Democratici pro impresa – liberal) il risultato di Sanders è stato piuttosto debole. Nella città di New York, infatti, Sanders è stato quasi doppiato dalla Clinton nel voto alle primarie[16]. Il 14° distretto di New York alle primarie ha sontuosamente incoronato la Clinton come candidata dei Democratici. Se una candidata chiaramente “sanderiana”[17] riesce a vincere anche in zone dove la macchina del Partito Democratico è molto solida e forte questo comporta la reale possibilità di poter raggiungere la nomination presidenziale in vista del 2020.
Il sistema dei partiti americani, però ha anche un rovescio della medaglia. Un rovescio piuttosto paradossale dalle importanti conseguenze. La debolezza delle “macchine” partitiche, che consente con relativa “facilità” agli insurgent di raggiungere certi risultati con un minimo di organizzazione, si paga con una assenza di centralizzazione per cui il “sangue nuovo” che entra con queste vittorie non necessariamente diventa la nuova linea politica del Partito complessivamente inteso[18]. Questo spiega perché molto raramente il Partito Democratico abbia avuto una visione del mondo paragonabile a quella di un partito socialista europeo, e mai neanche lontanamente la tipologia organizzativa. Negli USA è comparativamente più facile spodestare un party boss locale o far diventare un insurgent come Trump Presidente, ma in un processo elettorale e dentro un sistema istituzionale come quello pensato dai Padri Fondatori americani il dominio molto difficilmente diventa egemonia come invece è avvenuto molto più facilmente nei sistemi politici europei. È qui che Sanders sta provando ad agire, tentando di ricreare una base unificante, ed un nuovo manifesto ad un partito caratterizzato per natura dall’essere una sostanziale confederazione.
A questo proposito vediamo anche la differenza principale con i Tea Party. Con questo termine si identifica la ribellione della base Repubblicana contro l’establishment del loro partito (giudicato cedevole rispetto ad Obama) che ha portato al rinnovamento della classe dirigente repubblicana. A fronte delle similitudini nelle due rivolte delle basi dei partiti, bisogna sottolineare che la piattaforma del Tea Party è legata alla tradizionale corrente politica di limitazione delle ingerenze federali sugli stati federati. In pratica i legislatori del nuovo tipo del Partito Repubblicano sostengono la necessità di ridurre il perimetro del Governo federale. Questo programma è tecnicamente più semplice da realizzare rispetto a quello immaginato dai Democratici perché è più facile litigare e tenere bloccata l’agenda di lavoro di un Parlamento o al massimo abolire il lavoro fatto dall’amministrazione Obama rispetto a chi propone in generale un ruolo più assertivo del Governo. Anche se arrivassero a conquistare la Casa Bianca e molti parlamentari (impresa di per sé già molto complessa) i sostenitori della proposta di Sanders avranno davanti degli “ostacoli” che non sono rimovibili con una mobilitazione organizzata.
Ecco quindi che il lavoro che Sanders sta provando a compiere sulla base della forza espressa alle primarie 2016 è qualcosa di davvero tipicamente americano. Si tratta di un lavoro che ha natura politica (cioè sistemica ricerca del confronto con i centristi alle primarie) sociale, organizzativa, culturale e che coinvolge il cambio di narrativa ma che al tempo stesso deve svolgersi, necessariamente entro i vincoli istituzionali oggettivi del sistema americano. La politica del Senatore Sanders nel post elezione appare in definitiva coerentemente “americana” per la presenza di questi tre elementi: la capacità mostrata fino ad ora di non rinunciare alla lotta dentro il Partito Democratico, isolando le tendenze “terza forziste” da sempre presenti tra i “socialisti” americani; la rinuncia alla linea della coalizione delle minoranze benedetta dal (teorico) trend socio-demografico favorevole alla creazione di un’onda democratica per il futuro; ed infine per la capacità di interessarsi ma senza rimanere invischiati oltremodo nella dinamica interna del Partito Democratico. A questo fine sembra orientato l’obiettivo della costruzione di una organizzazione[19] che potremmo definire autonoma ma non indipendente dal partito che mobilitando le risorse nella poderosa società civile americana “trasferisca” sul piano del partito la propria lettura e le proposte, sfruttando la permeabilità per così dire genetica dei partiti USA. Tutto questo non sarà sufficiente ma è sicuramente necessario per (ri)dare ai Democratici americani la forza di proporsi come un movimento in grado di guidare gli Stati Uniti come è accaduto durante la fase del jacksonismo e la New Deal Coalition.
[1] Per governo unificato si intende la condizione in cui il Presidente e le maggioranze in entrambi i rami del Congresso sono dello stesso partito politico.
[2] Per un primo approfondimento sulle fasi di governo unificato e diviso: Divided_government_in_the_United_States
[3] democratic-state-legislature-seats-obama-has-cost-his-party-dearly/ È bene sottolineare, comunque, che tutti i Presidenti del dopoguerra hanno sperimentato numeri negativi sul dato dei seggi legislativi statali ad eccezione di Reagan.
[4] Che è comunque uno degli unici 7 Presidenti americani ad essere stato eletto due volte con una maggioranza assoluta di elettori. Tra i Dem gli unici a realizzare questa impresa furono Andrew Jackson e F.D. Roosevelt.
[5] Democratic_Party_presidential_primaries,_2016 Gli stati federati negli USA sono 50, ma le primarie si svolgono anche nei territori non statali (ad esempio Guam) e tra i democratici registrati all’estero motivo per cui la somma del numero delle sfide vinte da Clinton e Sanders supera le 50.
[6] Democratic_Party_presidential_primaries,_2008
[7] A questo proposito si segnala: https://www.vox.com/the-big-idea/2016/11/15/13629814/trump-coalition-white-demographics-working-class; su un piano più generale si segnala l’analisi delle presidenziali 2016 realizzata dal Center for American Progress.
[8] Il sistema partitico americano peraltro, ha dimostrato nel tempo che sotto le etichette dei due partiti principali si possono realizzare enormi cambiamenti di linea e di insediamento sociale nel Paese senza per questo determinare cambi nominativi al sistema che oramai dalle elezioni del 1852 vede eletti solamente candidati Repubblicani i Democratici. Inoltre anche la stessa vittoria di Trump alle primarie dei Repubblicani si può leggere con le stesse identiche lenti, ricordiamo infatti che l’ex Presidente Bush sr ha dichiarato il suo appoggio per Hillary Clinton.
[9] Significativa la definizione del politologo E. Schattscheneider: “ghost party“.
[10] Nel linguaggio politico europeo diremmo: “di classe”.
[11] Termine che negli USA indica l’ala sinistra del Partito Democratico.
[12] Tra i “very liberal” fortemente identificati con il Partito Democratico Sanders era sostanzialmente alla pari con la Clinton: 50-49.
[13] https://ourrevolution.com/
[14] My mom scrubbed toilets so I could live here & I grew up seeing how the zip code one is born in determines much of their opportunity. Tweet della candidata del 1 luglio 2018.
[15] Per solida si intendono i Partiti Democratici delle città o degli Stati a schietta predominanza Democratica.
[16] 2016/Primary/DemocraticPresPrimaryResults.pdf
[17] Anzi per certi temi anche più radicale di Sanders, ad esempio nella proposta di abolire l’ICE.
[18] Inteso cioè come il complesso dell’attività della Casa Bianca e del Congresso.
[19] intesa in senso ampio, non ci si riferisce strettamente solo ad Our Revolution in questo caso.