Scritto da Giovanni Tonella
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Questo contributo fa parte di un dibattito su temi sollevati dall’articolo che apre il numero 6/2019 della Rivista «il Mulino», dal titolo Perché la democrazia è in crisi? Socialisti e liberali per i tempi nuovi, scritto congiuntamente da Giuseppe Provenzano ed Emanuele Felice. Tra i temi sollevati nella discussione la parabola storica del liberalismo e il possibile incontro con il pensiero socialista, le cause delle disuguaglianze, il ruolo e l’apporto delle culture politiche ai cambiamenti storici, le chiavi per comprendere il cambiamento tecnologico, le forme della globalizzazione e la crisi ambientale. Per approfondire è possibile consultare l’introduzione del dibattito con l’indice dei contributi pubblicati finora.
Il saggio si dimostra utile non tanto ad una altezza teorica, o critica, ove tuttavia illustra delle piste interpretative solide, quanto come chiaro saggio politico dottrinale, che assume la veste di uno strumento di dottrina politica (specialmente in Occidente). Cosa intendo affermare? Intendo sottolineare questa dimensione “meso” del saggio: una dimensione che non è quella della ricerca teorica o dell’indagine filosofica, bensì quella della divulgazione di schemi di lettura, di ragionamenti, di atteggiamenti pratici, di indirizzi critici e pratici ad un livello di lotta per l’interpretazione corretta di una nuova sintesi tra liberalismo e socialismo, un liberalismo che non va abbandonato come un relitto del passato, essendo vittima di una impostura neoliberale (foriera di una democrazia appassita), ma salvato tramite il socialismo, un socialismo redivivo. Una dimensione pratica dottrinale di supporto ad una azione politica da mettere in agenda. In effetti il saggio nella parte finale avanza delle proposte specifiche in termini di policies. Da parte mia ne condivido in buona misura l’impianto e soprattutto l’intento. Credo poi che saggi di questo tipo siano appunto molto utili per costruire anche delle retoriche e delle dimostrazioni funzionali, partendo da elementi di ricerca reali e approfonditi. E credo che sia doveroso rafforzare la dottrina per divulgare una serie di argomentazioni e interpretazioni nella lotta politica che è lotta culturale su come interpretare il mondo e le relazioni umane, per cambiarle.
Pertanto vorrei qui sviluppare a) una analisi del saggio, che ne individui i nodi dottrinali, b) proporre alcune osservazioni, che io rilevo come problematiche e integrative, e che si fondano sul fatto che anche dal punto di vista della dottrina, dovremmo misurarci sia con la semantica e ma anche maggiormente con la pragmatica, magari meno con la politica e più con le politiche, affrontando così il tema della crisi della democrazia da un punto di vista istituzionale, e, infine, c) dare il mio contributo alla dottrina, in particolare di critica al neoliberalismo, facendo una operazione filosofica si parva licet, rischiando il terreno dell’avversario, andando in partibus infidelium. Se vi è da criticare il neoliberalismo come non autenticamente liberale e riduttivo del liberalismo – cosa che in genere corrisponde ad un movimento analogo dei neoliberali, che leggono una parte del liberalismo come non autentico, da Stuart Mill a Rawls –, la mossa personale in questa partita a scacchi che vorrei proporre è mettere in crisi il “sistema” o meglio la strategia argomentativa di uno dei padri più solidi del libertarismo, selezionando una parte di questa strategia, che però, se sviluppata, la compromette del tutto. Insomma il mio contributo, dottrinale, è usare Nozick contra Nozick. Non ho l’ardire di fare un’operazione filosofica, sarebbe ambizioso, ma anch’io dottrinale.
Ma prima di questa mossa, vorrei, appunto, rendicontare la dimensione dottrinale del saggio di Provenzano e Felice. Il saggio parte da una domanda: perché la democrazia è in crisi? Una tale domanda investe dal punto di vista della filosofia la questione della democrazia: ciò implica la necessità di capire perché sia in crisi la democrazia, partendo evidentemente da una idea di democrazia. Questa idea viene data per scontata? Quali sono i segni pronosticanti questa crisi? Al titolo si collega un sottotitolo che coinvolge due famiglie politiche, due ideologie, (e si tratta di capire come vengono intese) che evidentemente dovrebbero rispondere a tale crisi, e infatti si dice “Socialisti e liberali per i tempi nuovi”: una speranza, una diagnosi, una terapia?
Viene espresso un giudizio positivo sull’esperienza democratica, in particolare quella continentale, definibile in termini di democrazia liberale che si è evoluta in un assetto socialdemocratico (assetto che unisce alla protezione dei diritti civili anche quella dei diritti sociali). Come non ricordare qui l’opera di Thomas Humphrey Marshall, Cittadinanza e classe sociale, sul processo di acquisizione dei diritti e l’importanza di quelli sociali per rendere affettivi anche quelli civili! Si accenna quindi ad una sorta di legittimazione di performance della democrazia: ha garantito benessere e diritti. È però sul passato che è espresso il giudizio. Infatti si scrive di capitalismo democratico perché grazie alla lotta delle forze socialiste democratiche ha consentito di ridurre le diseguaglianze e garantire la mobilità sociale. Da questo punto di vista, si rileva, è stato utile anche la competizione con il comunismo (con il socialismo reale del blocco sovietico), perché ha posto delle barriere, gestalticamente, che hanno favorite la valenza socialdemocratica (sempre per restare dentro la Gestalt).
Si ripresenta quindi il tema della valutazione della qualità della democrazia. Ma la democrazia è un progetto contraddittorio oppure un progetto da realizzare? Sembra poi che non si ponga la questione della dimensione socialista della Cina (che a me invece intrigherebbe, anche per capirne l’evoluzione). Viene dato per scontato che la Cina sia solo una forma di capitalismo con regime autoritario. Sono due questioni che meriterebbero un maggiore approfondimento, ma non è questo il luogo. Gli autori esprimono la loro tesi: la crisi del liberalismo e dell’idea democratica poggia sulla rimozione del progetto dell’eguaglianza e con la sua identificazione tout court con la globalizzazione neoliberale. Questo passaggio – dottrinale – è molto efficace per inquadrare la situazione interpretativa odierna. Dà conto, in maniera plausibile, della crisi dei regimi democratici che a causa di uno strapotere della logica del mercato secondo i canoni del neoliberalismo non riescono più ad integrare e includere. Il neoliberalismo mina la democrazia e le sue basi morali. Secondo gli autori, però, si tratta di una visione estrema e ristretta del liberalismo. Il neoliberalismo segnerebbe una involuzione individualistica e una dimenticanza della dimensione relazionale, una critica che assume anche aspetti non certamente interni al paradigma liberale. È evidente il fecondo intrecciarsi con altre tradizioni culturali. La dimenticanza del tema della protezione e della riduzione dell’eguaglianza mina la fiducia della classe media occidentale: “Il pensiero neo-liberale ha così scavato la fossa al liberalismo, creando le condizioni affinché si affacciasse il vero spettro del nostro tempo: la progressiva separazione fra capitalismo e democrazia, con un’involuzione oligarchica che ne smentisce i presupposti (libertà, concorrenza, meriti) e apre a scenari distopici per l’intero genere umano” (p. 885). Si tratta dell’epifania di una movenza dialettica decisiva, ma rimane sospesa perché il futuro è appunto da costruire. Ecco la descrizione di quanto accade. E sta accadendo tradendo le aspirazioni autentiche del liberalismo, secondo gli autori. Qui forse c’è la parte del saggio su cui meriterebbe approfondire maggiormente, anche in sede di storiografia delle idee, in termini di storia concettuale ecc. Tuttavia seguendo il discorso di Felice e Provenzano assumiamo che all’interno della tradizione liberale vi siano gli elementi che la possono aprire ad un orizzonte di sintesi con le correnti ideali del socialismo e non solo. Infatti il liberalismo nasce come pensiero di emancipazione, fondato sulla centralità del lavoro – vi è una valorizzazione di questo schema analitico di Locke –, in quanto la proprietà è un diritto naturale perché si fonda sul lavoro. Inoltre un altro elemento da valorizzare è il lascito della Rivoluzione americana in relazione al diritto alla ricerca della felicità. Insomma, gli autori cominciano a delineare la loro tesi: il liberalismo si può incontrare con la democrazia e il socialismo. Si pensi ad esempio alla tassazione progressiva sulla eredità che proponeva Stuart Mill coerente con la tesi di Locke. “Fra Otto e Novecento, la visione di Mill viene estesa e rinsaldata con il cosiddetto «nuovo liberalismo», che si sviluppa in contemporanea e in affinità con il solidarismo francese e con il pensiero social-democratico scandinavo.” (p. 887). Il Nuovo liberalismo si esprime nelle idee di Keynes e di Beveridge e questo nuovo liberalismo incontra il cattolicesimo democratico e sociale, la socialdemocrazia, i liberals americani, i Liberali canadesi, il pensiero democratico e anche larga parte del PCI. Dal punto di vista dottrinale si recupera una sorta di sintesi ideale delle migliori idee dell’arco costituzionale. Non a caso la Costituzione italiana è l’esempio di questo incontro. “L’incontro fra il pensiero liberale e quello socialista giunge a compimento in Occidente fra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento: come accennato ci regala le società più libere, colte, prospere e democratiche che l’intera storia umana ricordi” (p. 890). Ma, succede qualcosa: “Poi dagli anni Ottanta le disuguaglianze, nel mondo avanzato, ricominciano ad aumentare. A poco a poco, nonostante il crollo del socialismo reale, nonostante un’epoca di crescita economica e fuoriuscita dalla povertà che ha coinvolto miliardi di persone soprattutto in Asia – anche l’ideale democratico proprio delle società occidentali, che dopo il crollo del Muro pareva destinato a trionfare, perde appeal nel mondo, e un po’ della sua forza finanche qui dove è nato” (ibid.). (Quel nonostante il crollo del socialismo reale sembra contraddittorio?).
Vi è stata l’offensiva neoliberale, una forma di distorsione del liberalismo. “Il pensiero neo-liberale ha ridotto la complessità umana alla sua dimensione economica; per di più, a un’economia limitata a transazioni di mercato nel nome del solo interesse individuale.” (p. 891). Arricchimento e consumo come unico fine della vita. Liberalismo come liberismo economico. Con questa visione del liberalismo, il capitalismo può convivere con forme non democratiche. La democrazia va in secondo piano. Dubai è in qualche modo un simbolo di questa distorsione. (La autocritica liberale di Zielonka diventa così un punto di riferimento dell’impalcatura analitica del saggio.) Un liberismo che non garantisce una autentica libertà di mercato, un liberismo che aumenta le diseguaglianze, un liberismo che è indifferente ai luoghi. “È un fatto che il periodo migliore per tutto l’Occidente è stato quello degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, quando i movimenti di capitale erano regolati all’interno del sistema di Bretton Woods e lo Stato interveniva per stabilizzare l’economia. Mentre la disuguaglianza, la deregolamentazione e l’eccessiva finanziarizzazione si rivelano di frequente fattori di instabilità, aprendo più facilmente a scenari di crisi per il capitalismo (quella del 2008, così come ottant’anni prima quella del 1929, è stata causata proprio dalla deregolamentazione e dalla crescita delle disuguaglianze; non per nulla, dopo il crollo del 1929 Keynes il capitalismo lo voleva salvare). Di più. L’intervento pubblico, di solito in combinazione virtuosa con l’iniziativa privata, ha sempre svolto un ruolo centrale nel promuovere l’innovazione, che poi è il vero motore della crescita economica: sia nei Paesi avanzati (Stati Uniti compresi, contrariamente alla retorica), sia oggi nelle economie emergenti, a cominciare dalla Cina” (p. 893).
Dopo questa parte gli autori affrontano due ulteriori paragrafi: nel primo indicano le responsabilità delle élite liberali e progressiste, nell’ultimo propongono l’ipotesi di un nuovo socialismo per salvare il liberalismo da se stesso. Nel primo paragrafo giustamente si definisce il mutamento geopolitico con la fine della divisione del Mondo per blocchi, che eliminando la minaccia comunista ha reso più debole la difesa dei diritti sociali (interessante il riferimento a W. Scheidel, La grande livellatrice. Violenza e disuguaglianza dalla preistoria a oggi, trad. it. Bologna, il Mulino, 2019, in particolare per il comunismo pp. 271-293). Inoltre si sottolinea come le innovazioni tecnologiche abbiano accelerato la globalizzazione, anche dei capitali, mettendo in crisi la capacità di governo equalizzatore: proprio in questa fase di ubriacatura delle magnifiche sorti progressive della globalizzazione “L’errore più grave della sinistra riformista è stato acconsentire alla completa liberalizzazione dei mercati di capitali” (p. 895). D’altro canto i magnifici trent’anni del Dopoguerra ricordati dagli autori sono stati possibili anche per una mobilità limitata e controllata dei capitali. Un altro aspetto criticato è quello legato al fatto che la UE non ha messo in campo insieme all’integrazione dei mercati una vera e propria agenda sociale – oggi sappiamo che peraltro viviamo in piena crisi Covid 19 una finestra che può (e deve) rendere possibile questo passo in avanti. Tuttavia gli autori sottolineano che, sebbene sarebbe importante una governance sovranazionale, anche a livello nazionale sono ancora possibili politiche che riducono la diseguaglianza. Tassare le eredità e le donazioni in maniera progressiva ad esempio sarebbe una misura proponibile, e assolutamente coerente con l’autentico liberalismo, tradito. Si propone così un’imposta progressiva sui patrimoni e sulle rendite, come ripristinare maggiori garanzie nell’ambito del mercato del lavoro. Si citano anche il paniere di proposte avanzate dal “Forum Disuguaglianza Diversità” di Fabrizio Barca. Ma accanto a queste misure nazionali, gli autori richiedono una nuova governance internazionale, che implichi una lotta ai paradisi fiscali, una tassazione congrua ed equa per i giganti del web (mi vengono in mente diversi contributi anche propositivi di Salvatore Biasco su questi aspetti contenuti in Ripensare il capitalismo). L’Europa dovrebbe diventare un attore globale vocato a questo cambiamento. (Siamo ad un livello di determinazione degli obiettivi, delle finalità). Queste azioni sono fondamentali per arrestare la crisi della democrazia, e per questo il rilancio del Progetto Europeo su queste basi ne dovrebbe diventare uno strumento. Pertanto è condivisibile l’insistenza degli autori sulla necessità di far fare un salto di qualità alla UE e soprattutto di potenziare una politica di bilancio comunitario – ancora una volta, per una logica degli allineamenti temporali e delle opportunità che si innestano in momenti di crisi, oggi con la crisi del Covid 19 tale “sfida” appare decisamente “ottimale”, ossia a portata di mano. È evidente che sullo sfondo vi sono i rapporti di forza geopolitici tutti da indagare, leggere e interpretare.
Ora l’ultimo paragrafo si sofferma, come anticipato, sul nuovo socialismo per salvare il liberalismo da se stesso. “Ripensare il capitalismo e democratizzare l’economia, provando a tratteggiare un’idea di società più giusta, è il compito di un nuovo socialismo democratico” (p. 899). La via secondo gli autori, riprendendo un recente saggio di Axel Honneth, è superare il liberalismo dall’interno (darò il mio piccolo contributo). Il socialismo servirebbe per salvare la sostanza democratica del liberalismo politico. Ma si potrebbe dire che il gioco interno-esterno forse dovrebbe fare i conti se il socialismo sia una forma dialettica di superamento del liberalismo, che per forza avviene dall’interno, assumendo altri elementi o un contributo meramente esterno. Si tratta di capire in quale misura. Oggi però si dovrebbe comprendere che forse la questione non è solo confinabile all’interno del liberalismo e del socialismo, ma vi è la questione ecologica ad essere determinante in un secolo che può condurre l’umanità alla sesta estinzione (illuminanti le ricerche di sociologia della scienza che richiedono un ripensamento istituzionale e delle categorie del politico di Bruno Latour, mi riferisco qui a lavori come Tracciare la rotta o il più impegnativo Politiche della natura, come nuovamente attuali appaiono le intuizioni di Berlinguer del 1977 con il suo discorso sull’austerità). Per far questo, chiudono gli autori, lo stesso socialismo “dovrà uscire fuori dalla dimensione strettamente economica in cui è nato” (p. 899) – osservazione discutibile, se pensiamo anche a Marx –, e dovrà essere attento alla dimensione relazionale dell’essere umano e all’ambiente. Sono tracce da sviluppare, evidentemente, di una semantica da tradurre in pragmatica.
Pertanto si presenta uno schema dottrinale che riscopre e rilancia la sintesi di pensiero espressa già in momenti alti della storia nazionale, un pensiero che orienta nuovamente verso un’azione di ripristino delle fondamenta della democrazia, per ridare vocazione e senso sia al liberalismo che al socialismo. Un liberalismo che non può abdicare a quello che Dahrendorf chiamava la quadratura del cerchio (non a caso si valorizza il saggio di Zielonka, allievo di Dahrendorf). Una rinnovata politica socialdemocratica può nuovamente proporsi. Ovviamente servirebbe non solo un’analisi della semantica politica, ma soprattutto del contesto istituzionale, delle forze cognitive, sociali e politiche, delle forme oggi fondamentali per la costruzione di dottrine e di politiche, le forme della ricerca universitaria, della costruzione delle politiche, e le forme della costruzione del consenso, legate ad una necessaria scienza dell’opinione pubblica. Non è un caso che Honneth nel suo saggio sul socialismo, L’idea di socialismo, richiami molto John Dewey. Si tratta quindi di tematizzare una sfida cognitiva soprattutto, ma anche una sfida istituzionale e di intervento sulla sfera comunicativa. Indagare come il potenziale comunicativo nel segno di Habermas, o il Pubblico nel segno di Dewey si possano costituire o possano essere alimentati. Certamente lo scrivere saggi e definire dottrine è una parte del lavoro, come lo è costruire sedi di elaborazioni e reti di intelligenze come sono le riviste politiche. Un’altra parte del lavoro da mettere in campo è proprio tematizzare una crisi che non è solo appunto legata al prevalere del neoliberalismo, ma è il suo prevalere in una dinamica geopolitica (dimensione centrale e globale), il suo delinearsi in una dinamica di costruzione delle policies, in una dinamica della sua capacità di presiedere gli spazi della ricerca e del sapere. D’altro canto se il socialismo non può coltivare la dimensione economica solamente, ma anche quella relazionale, allora è importante porsi il problema dello Stato, del Governo, della crisi della democrazia rappresentativa in relazione alla sfera dell’opinione pubblica e della sua costruzione. Ma è importante porsi questo tema ad una scala non solo nazionale. Come riattivare l’azione politica? Come riattivare partecipazione politica e coinvolgimento dell’intelligenza sociale in una dinamica più aperta e meno opaca? Ecco che il meccanismo della genesi e dell’implementazione delle politiche pubbliche diventa importante, al pari della semantica delle idee. E diventa rilevantissimo indagare criticamente le forme di costituzione del Pubblico. Mi pare interessante a questo livello sviluppare le tracce critiche e propositive di riflessioni come quelle di Rosanvallon sul buongoverno e sulla gestione positiva della controdemocrazia, chiamata dallo storico francese forma appropriativa della democrazia. Mi riferisco qui alle analisi di Rosanvallon presentate in saggi come La politica nell’era della sfiducia, La legittimità democratica, La società dell’uguaglianza, Le Bon Gouvernement. Questo mio interesse deriva anche da stimoli costruttivi di analisi storico-concettuale, in filosofia politica proposta da Giuseppe Duso (La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica), che pone in termini critici anche i meccanismi spoliticizzanti della rappresentanza, oggi sicuramente inverata-sfigurata (?) da dinamiche sempre più plebiscitarie. Qui d’altro canto non è solo interessante allora riprendere i semi fecondi di Locke, ma anche riconsiderare la rappresentanza spoliticizzante secondo la logica hobbesiana, per sviluppare categorie politiche innovative rispetto al quadro concettuale moderno (entro cui indubbiamente il liberalismo si muove). Insomma la crisi della democrazia non è solo una questione di politiche neoliberali ma è anche una questione istituzionale, di eccessiva logica della delega e di deperimento della connessione tra governo e tessuto delle competenze e intelligenza sociale, di dinamica plutocratica, di arresto nella ricerca di forme di sperimentalismo democratico per garantire la libertà sociale ecc. C’è qui tutto il tema dell’integrazione della rappresentanza politica con forme economiche, deliberative e partecipative della democrazia (si pensi anche a R. Dahl, La democrazia e i suoi critici), come creare una comunità politica di lavoro per la risoluzione dei problemi collettivi, secondo l’idea di Dewey, come la critica ai meccanismi dell’ecosistema informativo oggi imperanti o la sfida inedita dello sviluppo dell’IA e del cosiddetto capitalismo della sorveglianza (riprendo qui Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza). Il recente saggio di Honneth, L’idea di socialismo. Un sogno necessario, richiamato da Felice e Provenzano, che in effetti valorizza molto l’idea di Dewey di utilizzare l’intelligenza sociale, favorendo la comunicazione e la cooperazione dei cittadini nella sfera pubblica (cfr. ivi, trad. it., pp. 81-82, 121-125), non a caso punta sull’importanza di uno sperimentalismo storico che costruisce analisi e repertori di politiche pubbliche per salvaguardare la libertà sociale, sia tramite un mercato regolato, che l’azione della società civile, come dello Stato, il tutto senza mai abbandonare la critica all’idea che il capitalismo per come si dà sia l’ultima parola della storia (in questo senso essere postmarxiani, come scrive Honneth, implica seguire la lezione di Marx). Peraltro a questo livello si dovrebbe ricercare l’energia e l’intelligenza per un rinnovato socialismo, come capacità di indirizzo collettivo dei risultati del lavoro umano.
Se fin qui è l’osservazione integrativa – lo riconosco un po’ sommaria – l’altro mio contributo invece è coerente con l’idea di superare il liberalismo dall’interno, per così dire. Ritorno quindi a Robert Nozick, citato all’inizio. Ebbene nel suo testo filosofico politico per eccellenza, Anarchia, stato e utopia come è noto il filosofo americano giustifica la teoria di uno Stato minimo, confutando altre posizioni, più anarchiche-individualistiche, o quello liberali egualitarie alla Rawls, fino a quelle socialiste. Assume come teoria della giustizia distributiva che definisce la teoria del titolo valido. Qui non è la sede per ricostruire puntigliosamente la teoria di Nozick, ma vorrei rilevare una cosa interessante, almeno ai miei occhi. Egli introduce rigorosamente un principio nella sua teoria, quello di rettificazione, accanto ad altri due principi di acquisizione e trasferimento dei possessi (cfr. pp. 164-166). Ebbene, sostanzialmente ammette che tramite una trattazione storica sia plausibile sempre considerare che i meccanismi di acquisizione di proprietà o di trasferimenti di proprietà possano essere stati compiuti tramite dolo, violenza ecc. misure non giustificabili nell’ottica di uno scambio. Pertanto questa trattazione potrebbe produrre una regola empirica approssimativa per rettificare ingiustizie, e una regola del genere potrebbe in linea teorica prevedere anche di organizzare la società in maniera da massimizzare la posizione di qualsiasi gruppo finisca con lo stare peggio. Noi sappiamo bene, storicamente, che le forme di accumulazione originaria vi sono state, eccome. Che sempre in qualche maniera ci sono rapporti di forza che minano ampiamente la validità dei titoli che si accampano. (Ad esempio, la recente analisi di Mariana Mazzucato in Il valore di tutto. Chi lo produce e chi lo sottrae nell’economia globale, sulla genesi del valore mette in evidenza degli squilibri evidenti e impensati dal mainstream). Ma se questo è vero, in origine, è allora chiaro che la rettificazione è giustificata, e in maniera ancor più strutturale di come sembra suggerire il teorico dello Stato minimo. Tanto che lo stesso Nozick scrive: “In assenza di una simile trattazione applicata a una particolare società, non si possono usare l’analisi e la teoria qui presentate per condannare un qualsiasi schema particolare di pagamenti di trasferimento, a meno che non sia chiaro che nessuna considerazione di rettifica di ingiustizie potrebbe applicarsi per giustificarlo” (p. 240). E questo significa che la sua critico contro le teorie che giustificano l’intervento pubblico già cade. E Nozick termina: “Anche se introdurre il socialismo come punizione dei nostri peccati sarebbe andare troppo oltre, le ingiustizie passate potrebbero essere di tale entità da rendere necessario nel breve periodo uno stato più esteso per rettificarle”. (p. 240). Certo si tratta di “un breve periodo”, secondo il filosofo americano, ma l’idea del principio di rettificazione, pur essendo coerente con la teoria del titolo valido, rende poco plausibile il libertarismo di Nozick e per estensione rende chiara l’idea che il liberalismo non può certo sopravvivere alla sua torsione neoliberale, ma ha semmai bisogno sia della sua versione egualitaria che del socialismo.