Recensione a: Roberto Mordacci, Critica e utopia. Da Kant a Francoforte, Castelvecchi, Roma 2023, pp. 185, 19, 50 euro (scheda libro)
Scritto da Giulio Pennacchioni
20 minuti di lettura
Critica e utopia è l’ultimo libro di Roberto Mordacci, Professore ordinario di Filosofia morale e Filosofia della storia presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, dove ha inoltre fondato il centro di ricerca internazionale European Centre for Social Ethics (ECSE). Critica e utopia segue il suo precedente Ritorno a Utopia[1], del 2020, e La condizione neomoderna[2], testo del 2017 in cui Mordacci critica quell’operazione di chiusura verso le categorie del “moderno” proposta dal post-modernismo. Critica e Utopia può essere così intesa come il perfetto prosieguo e, in qualche modo, compimento di queste due opere precedenti. Perché? Perché da un lato Mordacci continua il suo lavoro sul concetto di “utopia” del libro del 2020 mentre, dall’altro, compie quell’operazione di recupero delle idee moderne già iniziata nell’opera del 2017, di contrasto alla prospettiva post-modernista. Il risultato, come dichiarato da Mordacci nell’Introduzione, è una versione innovativa di critica, in cui l’idea di utopia svolge un ruolo essenziale. Com’è evidente, quindi, Critica e Utopia è un lavoro il cui obiettivo è molto ambizioso, ma che implica come presupposta una domanda: che cos’è la critica? Arriviamo così all’altro scopo dell’ultimo libro di Mordacci, e cioè quello di fornire una risposta a questa domanda. Critica e utopia riesce in questo intento, proprio ripercorrendo tappa dopo tappa tutta la storia del pensiero critico arrivando fino ad oggi, ma anche proponendo una nuova classificazione di quest’ultimo. Una prima definizione è però fornita fin da subito. Recuperando la nozione di “critica” dagli Annali franco-tedeschi che Marx dirigeva insieme a Ruge, questa viene definita come «lo studio delle dinamiche sociali effettive, mirante a metterne in luce le contraddizioni» (p. 6). Critica è dunque un atteggiamento; un atteggiamento per l’appunto “critico”, negativo, diagnostico, finalizzato a far emergere le tensioni che i rapporti sociali esistenti generano; «una critica permanente del nostro essere storico»[3], per usare le parole Foucault. Detto in maniera ancora più semplice: la critica è un’analisi attenta e continua dei problemi sociali della realtà. In tal senso, potrebbe essere intesa come la pars destruens della società in cui si vive. E tuttavia, sottolinea Mordacci, critica non è “soltanto” questo, ma è anche «tensione emancipativa […]. La spinta trasformatrice, non meno dell’analisi, è lo scopo della critica» (Ibidem). Alla sopracitata pars destruens, il pensiero critico accompagna quindi una pars costruens, normativa, inscindibile dalla prima ma, sottolinea Mordacci, non sempre sviluppata in sinergia con quest’ultima. Ed è in questa seconda parte che si inserisce l’utopia. Due quindi sono gli obiettivi principali di Critica e utopia: spiegare al lettore che cos’è critica e, parallelamente, mostrare le potenzialità trasformative del pensiero critico-utopico.
Per quanto riguarda le differenti forme di critica, Mordacci propone una sua classificazione, altro punto di forte originalità di questo libro. Generalmente, la bibliografia secondaria sulla teoria critica propone una divisione[4] abbastanza netta fra tre modelli: la critica esterna, la critica interna e la critica immanente. Questa interpretazione non è però la sola e vi è per esempio quella di Carlo Galli, che offre a sua volta una diversa suddivisione tripartita, più focalizzata sui «modi di funzionamento della critica»[5], piuttosto che sui «tratti strutturali» (p. 7), che sono invece ciò che contraddistingue la prima classificazione. Ma, come già anticipato, l’obiettivo di Mordacci è quello di proporre una nuova caratterizzazione di teoria critica e nella sua suddivisione distingue invece tra quattro forme: la critica trascendentale, la critica dialettica, la critica genealogica e la critica messianica. La prima parte di questa recensione sarà dedicata al tentativo di restituire, almeno in parte, gli elementi essenziali di ognuna di queste quattro forme di critica. La nuova forma di pensiero critico-utopico proposta in Critica e utopia sarà invece al centro della seconda parte.
Le quattro forme di critica
La prima forma di critica che Mordacci individua è quella da lui definita “trascendentale”. Tratto caratteristico di quest’ultima è il fatto di non attingere a principi o valori dall’esterno, ma di essere, per così dire, pratica. Alla base di questa vi è il principio di non contraddizione, che è però regolativo delle azioni umane, senza alcun riferimento a dimensioni al di fuori di queste ultime. L’iniziatore di questa forma di pensiero critico è Kant, tra l’altro il primo pensatore ad aver utilizzato il termine “critica” in un senso tecnico e preciso. Approfondendo nei dettagli questa forma di riflessione, generalmente non rivendicata dalla Scuola di Francoforte, Mordacci la caratterizza per tre elementi essenziali: l’«analisi descrittiva» (p. 16) della realtà, lo «sguardo normativamente orientato» che mira a rilevare le contraddizioni interne della stessa e il «presupposto universalistico» (Ibidem), che costituisce la pars costruens di questa critica. Ed è proprio quest’ultima caratteristica ad aver fatto tacciare la critica di Kant di idealismo e utopismo. Nonostante sia propriamente “tipico” della tradizione della teoria critica una dialettica fra immanenza e trascendenza, ciò non è bastato affinché i critici di questa forma di pensiero si astenessero dal bollarla come utopica. Il compito primario di questa critica è quello di determinare le fonti della conoscenza a priori e di fissare i confini della conoscenza razionale, al fine di chiarire i “limiti” entro i quali la ragione non incorre in antinomie. Così, in rapporto all’azione, questa critica ha l’importante ruolo di mostrare le diverse possibilità della volontà. Ciò che in ambito teoretico e in particolare nella Critica della ragion pura (prima e seconda edizione) definisce l’ambito di esercizio della ragione, in ambito pratico (Critica della ragion pratica) determina lo spazio della volontà degli individui. Ciò significa che ogni azione, proprio come la ragione, mantiene un principio critico che non deriva dalla contingenza. Un principio critico che è dunque immanente, trascendentale, ma non trascendente, poiché non attinge da fuori ma è comunque interno alle azioni e al pensiero umano: il principio di non contraddizione. Per dirla con le parole di Kant proprio riportate da Mordacci, «nel dotare l’uomo della ragione e della libertà della volontà, fondata sulla ragione stessa, la natura ha già dato una chiara indicazione del suo intento riguardo a ciò di cui l’essere umano doveva essere fornito»[6]. Questa struttura, sottolinea Mordacci, è ancor più accurata nel Kant filosofo della storia, autore di Per la pace perpetua (1784)[7]. La fondazione di un simile criterio di giudizio sull’agire rappresenta l’essenziale istanza critica verso la realtà storica: la condizione di possibilità per un’azione razionale, cioè libera. Detto in altro modo, una certa pratica, nel momento stesso in cui contraddice l’azione razionale umana, diventa l’oggetto di questa critica. Ma in cosa si “concretizza” tutto questo? Nel «rimando a un orizzonte normativo universalistico e formale; il raccordo con una filosofia della storia teleologica ma non deterministica; l’elaborazione di una prospettiva cosmopolitica e antinazionalistica» (p. 28). E saranno proprio queste tre dimensioni che, due secoli dopo, influenzeranno la produzione filosofica di Jürgen Habermas. È in particolare nel suo testo Teoria dell’agire comunicativo che è possibile ritrovare la critica trascendentale di Kant: «sull’articolazione fra il piano del quotidiano mondo-di-vita (Lebenswelt) e la prassi dell’agire comunicativo» (p. 29). Habermas considera la modernità come un progetto incompiuto ma perseguibile attraverso un’auto-organizzazione democratica della società costituita da individui in comunicazione fra loro. L’etica del discorso diventa allora il principio pratico necessario a questo ripensamento del moderno, che è da Habermas presentato come un principio trascendentale. Come nel caso di Kant, dunque, questa critica basata sul discorso non proviene dall’esterno, bensì si svolge nella tensione fra ciò che è immanente, nello specifico attraverso l’analisi delle pratiche sviluppate dal capitalismo, e l’utopia, cioè l’elaborazione di una pratica alternativa a partire da un’etica del discorso fra individui. Chiaramente non mancano neppure in questo caso forme di obiezioni molto puntuali alla proposta di Habermas, quale quella di Nancy Fraser[8] o di Axel Honneth[9], che Mordacci spiega molto chiaramente nella parte finale di questo primo capitolo. Va detto al contempo che queste obiezioni hanno poco a che fare con la prospettiva di critica trascendentale in quanto tale, forma di pensiero che di per sé può ancora svolgere un importante ruolo nel rilevamento delle contraddizioni del mondo in cui viviamo.
La seconda forma di teoria critica che Roberto Mordacci presenta è invece quella che viene definita “dialettica”. Qui, abbastanza intuitivamente, il modello è quello hegeliano, a cui prioritariamente i teorici della Scuola di Francoforte fanno riferimento. Qui la critica è, per così dire, più “concreta”, riferita più specificatamente a una certa forma di vita e non estendibile ad altri contesti storici e culturali. Pur tuttavia, nell’interpretazione che Marx ne offre, questa critica non è solo critica di una certa Sittlichkeit determinata, ma raggiunge un’universalità, che è rappresentata appunto dalle contraddizioni storiche del capitalismo. E tuttavia tale aspirazione all’universale non coincide con l’orizzonte trascendentale proposto da Kant e Habermas. Una trascendenza è forse presente nei più recenti studi post-coloniali, come quelli di Amy Allen[10], in L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse o nei più recenti lavori di Axel Honneth e Rahel Jaeggi, malgrado questi ultimi rivendichino esplicitamente di praticare una critica immanente. Storiograficamente è Hegel l’iniziatore di tale forma di pensiero critico. Nella sua prospettiva, il processo dialettico è proprio nelle contraddizioni che muovono la storia (che nella critica trascendentale sono ciò contro cui si scaglia il pensiero critico) e che sono continuamente superate nell’Aufhebung. Presupposta è dunque una teleologia storica, necessaria; altrimenti non si potrebbe determinare la contraddizione come ciò che va superato. Tale movimento necessario, che Hegel finisce per connotare come “progresso” è ciò che Marx critica nei suoi Annali franco-tedeschi, nelle Tesi su Feuerbach, nell’Ideologia tedesca, nel 18 Brumaio di Luigi Bonaparte e in maniera ancor più esplicita nel Manifesto del partito comunista. Nello specifico è il suo carattere per così dire astratto a dare fastidio a Marx. La forza della sua concezione risiede proprio nel suo essere pratica; innestata nelle azioni degli individui la cui libertà sarà possibile solo all’interno di relazioni non oppressive. Ma è davvero così necessaria e inevitabile l’emancipazione prospettata in questa forma di critica? Come ben sottolineato da Mordacci è proprio su quest’ultimo punto che la più recente Scuola di Francoforte, nello specifico Honneth, ha appuntato il suo scetticismo. Quest’ultimo insiste particolarmente sulla nozione di intersoggettività. Ispirandosi a Foucault e Nietzsche, Honneth è interessato a comprendere il modo e il grado in cui un certo ordine sociale può arrivare a legittimare una pratica disciplinata e oppressiva rispetto alla libertà sociale degli individui. Come già detto, è l’idea di un’evoluzione necessaria della società capitalista o dello Spirito verso la sua contraddizione finale a costituire una tesi problematica. Per queste ragioni, Honneth è convinto che il socialismo oggi debba essere ripensato, abbandonando quel carattere necessario portato da Saint-Simon, Owen e Fourier e rilanciato solo in una forma post-marxista. Tornando al tema dell’intersoggettività, ciò sarà possibile soltanto attraverso la formazione di rapporti di libertà sociale nelle tre sfere in cui questa può manifestarsi: l’economia, le relazioni personali e la volontà democratica. Libertà sociali e forme economiche più cooperative possono inserirsi anche all’interno dello stesso mercato capitalistico, che, a differenza di Marx, secondo Honneth è fortemente trasformabile proprio dall’interno. La libertà a cui aspira non riguarda tra l’altro solo le classi operarie, ma tutte le classi che si trovano in una condizione di discriminazione e oppressione. Nella sua idea alcuni progressi sono già stati fatti, come nel caso per esempio dei diritti umani. Ciò che non convince insomma Honneth della critica dialettica è la mancanza di una ragione pratica come alternativa alla ragione strumentale/economica. Che si tratti dell’autocoscienza di Hegel, della prassi rivoluzionaria di Marx o ancora del pensiero non tecnico-razionale proposto da alcuni fra i francofortesi, la critica dialettica non ha sbocchi positivi. È fondata su criteri immanenti che, per definizione, oltre alla denuncia non possono trascendere l’esistente, lasciandolo intatto.
Arrivati a questo punto, Mordacci passa in rassegna quindi il terzo tipo di critica: quella genealogica. Qui il pensatore di riferimento è Nietzsche, la cui riflessione è il punto di partenza di questa forma di critica che non si rivolge “semplicemente” contro il capitalismo o la ragione tecnico-strumentale moderna, bensì mette in discussione la stessa origine del pensiero occidentale, nella sua radice greca e nella sua teorizzazione della separazione fra soggetto e oggetto. Detto in altro modo, qui l’attitudine al dominio non è soltanto qualcosa che viene ricondotto al capitalismo, ma viene posta come qualcosa di insito nello stesso pensiero occidentale, per definizione moderno. Com’è evidente, la decostruzione e la conseguente e prospettata liberazione a cui tale critica conduce è radicale, estrema e, citando le parole usate da Mordacci, investe «l’intero della storia» (p. 9). La declinazione più radicale di questa logica discendente della razionalità occidentale si ha quando Nietzsche la esprime con il termine francese “décadence”. E la prima comparsa, come mostrato da Mordacci, si ha nel contesto delle note intitolate Per la storia del cristianesimo, del 1887. Ma in realtà le dimensioni sono molto più ampie e riguardano tutta la storia del pensiero occidentale, da Socrate in poi, con l’eccezione di alcuni momenti. Ciò significa che gli stessi “sfondamenti” di questa décadence possono avvenire in qualsiasi periodo storico, non per forza, hegelianamente, alla fine della fase negativa. Ma ancora, ciò significa che per Nietzsche la storia è prima di tutto un problema etico, che poco ha a che fare con la lettura storicistica, in cui le varie fasi vengono viste come “momenti” dello Spirito. Ma in cosa consistono allora i momenti positivi? Come contrastare la décadence? Paradossalmente, sempre attraverso il dominio. Secondo Nietzsche, infatti, la capacità di affermarsi sulle altre forme della volontà di potenza è anzitutto il segno di un’adesione alla dinamica essenziale della vita. La genealogia consiste nello smascheramento (critico) dei rovesciamenti della volontà contro se stessa, come la “volontà di morale”. Questo tipo di volontà esprime infatti una contraddizione pratica, poiché aspira a realizzare una purezza che contraddice la violenza ineludibile della volontà stessa. Gli autori che sono stati poi i maggiori portati di questa critica sono Michel Foucault, Bernard Williams e Max Horkheimer insieme con Theodor Adorno nell’opera del 1947 Dialettica dell’Illuminismo. In questi ultimi, l’origine dell’oppressione coincide con la stessa razionalità occidentale a partire dalla Grecità classica. Dunque già dal mito greco di Odisseo in cui Ulisse (il borghese moderno) rinuncia alle forze arcaiche (il canto delle sirene) per assecondare il fine della razionalità strumentale. E questa mistificazione del pensiero moderno e illuminato è riscontrabile ovunque, persino nei prodotti culturali come il cinema, la televisione, la radio o la stampa, che Horkheimer e Adorno non mancano di sottoporre a una forte critica. «Il tutto è il falso» scrive Adorno nel suo Minima moralia. Come già anticipato però questo stesso tipo di critica di ispirazione nietzschiana interessa anche Foucault. Pur utilizzando più spesso il termine “archeologia” piuttosto che “genealogia”, che sarebbe invece un’evoluzione della prima, è innegabile che in lavori come il saggio del 1971 Nietzsche, la genealogia, la storia il riferimento al pensatore tedesco è assolutamente chiaro ed evidente. Secondo Foucault, fare genealogia significa fare una ricerca sull’origine dei valori; origine che non rimanda nietzschianamente a una fase istintiva e pre-valoriale, bensì scovare la Herkunft: la “provenienza”. Tale provenienza è critica perché mantiene questi frammenti originali nella loro forma incompleta, non-strutturata. Ma a che fine? Al fine proprio di mostrare il carattere sconnesso ma originario, frammentario, delle idee e dei valori. Solo attraverso questa critica ironica-dissociativa-sacrificale sarà possibile una trasvalutazione. A partire dal carattere frammentario dei valori, nella perenne ricerca del punto di inizio, una nuova fase può aprirsi. Questo, però, spetta forse ancor di più ad un’altra forma di pensiero critico, l’ultima: quella messianica.
Ciò che caratterizza la quarta critica, come suggerito dal nome stesso, è proprio l’idea che il tempo passato esiga un riscatto dall’oppressione e dall’ingiustizia. Si tratti di un riscatto in rapporto con l’eterno e il salvifico o, laicamente, con la rivoluzione e l’emancipazione dal dominio, il passato è ciò a cui nel futuro va dato un nuovo significato. In una concezione del tempo perfettamente “moderna”, recuperando l’insegnamento di Reinhart Koselleck[11], la critica messianica può essere intesa sia in modo religioso, sia laico, come in Walter Benjamin, o ancora può essere mediata dal concetto di utopia, come in Marcuse. Gli antecedenti a questa forma di pensiero sono senza dubbio Nietzsche, ma anche Marx. Quest’ultimo attraverso la sua filosofia della storia in cui le forme di oppressione e iniquità sarebbero infine scomparse davanti a un’istanza vitale di giustizia, mentre il primo attraverso la tematizzazione dell’imporsi improvviso di una dimensione verticale della vita e della verità che avrebbe interrotto la tensione decadente dominante. Ma questa forma di pensiero critico è presente anche in Agostino nella sua Città di Dio o persino in Adorno nel finale di Minima moralia. E tuttavia, come già anticipato, uno degli autori a cui bisogna fare riferimento in questo discorso è senza dubbio Benjamin. Opponendosi anzitutto al predominio del positivismo nel concetto di storia, ovvero all’idea di un progresso necessario e trionfale che avrebbe garantito l’emancipazione e la giustizia come esito della dialettica storica, Benjamin propone una “fuga” nel messianico-trascendente. Questo anche perché soltanto tramite tale rottura Benjamin sostiene di poter continuare a mantenere uno sguardo critico, che la semplice adesione al progressismo avrebbe inevitabilmente impedito. È solo in quest’ottica che va compreso il tanto citato Angelus novus, l’acquerello di Paul Klee che Benjamin possedeva, con il viso dell’angelo rivolto al passato, che vede dietro di sé solo le macerie di tutte le promesse del progressismo. Rifiuto di tale concetto, in un certo senso rimpiazzato da quello dell’ “adesso” (Jetztzeit). Nozione centrale di Sul concetto di storia o ancora delle Tesi e nel Passagenwerk, l’adesso è esprimibile come un momento in cui è possibile risignificare integralmente ogni cosa. Ed è proprio in questo momento contingente ma capace di trascendenza, «in cui sono disseminate e incluse schegge del tempo messianico» (p. 100) che Benjamin vede la condizione di possibilità per una possibile rivoluzione. L’altro autore al centro di questa sezione del libro è invece Marcuse. In lui l’utopia ha una valenza certamente messianica, il cui valore primo risiede tuttavia nel suo fungere da principio critico. La testimonianza più chiara di questa tensione è nella conferenza del 1967 intitolata La fine dell’utopia o in Eros e civiltà, in cui “utopistico” diviene sinonimo di “irrealizzabile” e coincide con la fine della storia. Ma se tale fine della storia coincide con la fine della continuità della storia come oppressione, allora l’utopia è ciò che è ancora realizzabile e che è la fine dell’ingiustizia subita. A questo si aggiunge l’analisi di Marcuse dei movimenti del ’68, così come la sua disposizione a tracciare il profilo di una società rinnovata e liberata e così come, infine, la sua considerazione positiva del ruolo della tecnologia e in particolare dei computer. Potenziali “tecnologie ecologiche” il cui ruolo in tal senso è solo impedito dall’inserimento delle stesse in dinamiche di dominio e repressione. Come ben evidente, siamo lontani dall’astrattezza della critica genealogica.
Il pensiero critico oggi
Passati quindi in rassegna i quattro tipi di teoria critica, Mordacci passa a quelli che sono gli sviluppi più recenti di questo pensiero. Operazione, quest’ultima, assolutamente meritoria e di cui il panorama editoriale italiano aveva bisogno, tendendo troppo spesso ad associare la teoria critica con prospettive emerse durante la seconda metà del secolo scorso[12]. In tal senso, dunque, il riferimento di questa sezione di Critica e utopia al volume Was ist Kritik? curato da Rahel Jaeggi e Tilo Wesche. Obiettivo di questa parte del libro non è però “solo” quello di restituire al lettore l’attuale dibattito sul concetto di critica, bensì anche di chiarire il senso delle più diverse forme di pensiero critico attuali. Mordacci comincia così col sottolineare il confronto più serrato della nuova teoria critica, ormai ben oltre i confini della Scuola di Francoforte, con alcuni temi tipici della tradizione marxista. Oltre a ciò, l’ulteriore elemento di forza di questa stagione del pensiero critico è il maggior tentativo rispetto alle generazioni precedenti di indicare prassi sociali alternative. Detto in altro modo: nella nuova teoria critica, la pars costruens è maggiormente presente. Ma vediamo, seguendo la linea di Critica e utopia, quali sono le varie forme di questa nuova teoria critica.
Uno dei fenomeni più evidenti della società contemporanea è sicuramente l’accelerazione; un’accelerazione non solo dello sviluppo tecnico-scientifico, ma anche delle relazioni sociali. A questo si dedica nella sua riflessione Hartmut Rosa, tra i più attivi esponenti della teoria critica attuale. Come ben sottolineato nel suo libro edito in italiano come Accelerazione e alienazione e nell’articolo Risonanza come concetto chiave della teoria sociale, ciò che Hartmut Rosa critica è che quel progetto etico dell’assoluta autonomia propugnato dai moderni si è convertito iniquamente in una rincorsa all’espansione indefinita degli spazi d’azione. Che cosa significa? Spiegandolo per contrasto, significa che l’obiettivo di un pensiero critico secondo Hartmut Rosa dev’essere quello di mantenere viva la memoria di un diverso “essere-nel-mondo”, contraddistinto dall’ascolto e dalla risposta, piuttosto che dal dominio e dal possesso “della modernità”. Un’altra modalità di essere-nel-mondo è dunque la pars costruens di questa critica, che certamente non può esaurire la sua forza soltanto in quelle “oasi di decelerazione” rappresentate dai limiti naturali dello spazio e del tempo o da quegli spazi umani sottratti al flusso accelerato della modernità.
Il secondo autore di teoria critica recente a cui Mordacci fa riferimento è Rahel Jaeggi, anche lei molto concentrata sul concetto di alienazione. È in libri come Nuovi lavori, nuove alienazioni o Alienazione. Attualità di un problema filosofico e sociale o ancora Critica delle forme di vita che emerge la sua idea. Sulle orme di Honneth, il principale ambito in cui Jaeggi studia l’alienazione è quello classico del lavoro. Chiara l’influenza anche di un testo come Manoscritti economico-filosofici del 1844 e forte la distanza, in tal senso, da presupposti essenzialistici o metafisici “alla” Foucault o vicini al modo di pensiero strutturalista. Una vita non-alienata è in Jaeggi una relazione pratica; lo stesso concetto di “appropriazione” (Aneignung) non va dunque inteso nel senso di possesso, bensì nel senso di “integrazione a sé”. Prendendo le mosse dai conflitti e dalle contraddizioni presenti nella realtà sociale e dovute ai valori stessi cui mirano le prassi presenti nella società, per esempio il libero mercato, il libero lavoro salariato e i contratti di lavoro stipulati fra soggetti liberi, Jaeggi rileva anzitutto lo stato di crisi in cui ci si trova e propone un “ritorno a sé”, di contrasto allo stato di alienazione vigente e diffuso. Di qui il carattere fortemente trasformativo di questa critica che, al contrario della natura più “ricostruttiva” del pensiero di Honneth, non mira “soltanto” a ricostruire le norme razionali incorporate nella realtà, ma pone il possibile sviluppo oltre le prassi date. Andare oltre dunque, hegelianamente e a partire da un momento negativo, «negativista» (p. 120), per usare la terminologia di Adorno, che, seppur poco chiaro nel suo esito, evita di rinchiudere l’intellettuale nell’Hotel Abisso, sull’orlo del baratro e sorseggiando Martini, per rievocare l’immagine proposta da Lukács. È necessario immaginare l’evoluzione della prassi in esiti inauditi, proprio al fine di superare quella contraddizione pratica in cui ci troviamo a vivere, ben sottolineata, fra gli altri, dall’ancora non citato Karl-Otto Apel, ma centrale nell’opera di Mordacci.
L’ultimo fra gli autori della più recente teoria critica proposto in Critica e utopia è Rainer Forst, francofortese e che sviluppa la sua prospettiva a partire da un punto di vista più schiettamente normativistico, incentrato in particolare sulla nozione di “giustificazione”. A differenza che in Habermas, la pratica che fonda la validità di ogni altra pratica umana non è la comunicazione, bensì la giustificazione: «quel tipo di comunicazione che mira a offrire giustificazioni ragionevoli a ogni altro agente sociale» (p. 122). Principio di giustificazione che è anche alla base della sua ambiziosa reintepretazione della tesi kantiana circa il principio della ragion pratica. Principio di giustificazione in cui trova collocazione un altro tipico concetto kantiano, quello di “rispetto”[13], che è in realtà fondativo del primo in quanto proprio il rispetto altrui comporta primariamente un «fondamentale diritto di (dare e ricevere) giustificazione» (p. 123). Detto ciò, è in Normatività e potere che Forst “fa” la sua teoria critica, dove la giustificazione chiama in causa i contesti concreti in cui si esercita e che sono sottoposti a un minuzioso esame critico. In questa prospettiva, il progresso è dunque la pratica trasformativa che si avrà solo nel momento in cui nuovi livelli di giustificazione, ulteriori rispetto a quelli già dati, verranno raggiunti. Il potere costituito[14], in tal senso, si basa quindi più sulle aspettative di giustificazione e in quelle già presenti piuttosto che sulla forza. E proprio quest’ultimo punto di vista, così come il non utilizzo del principio di non-contraddizione parlando di ragione pratica sono le due critiche che Mordacci muove a Forst, pur non mancando di elogiare lo slancio trasformativo dietro al suo pensiero.
E tuttavia la teoria critica attuale non si ferma qui. Questa ha infatti ormai investito tanti ambiti di studio differenti. A riprova di questa diffusione e conseguente estensione, come ben segnalato in Critica e utopia, basti solo pensare che nel mondo anglofono con Critical Theory si intende soprattutto indicare gli studi di critica letteraria e artistica da tempo coltivati nei dipartimenti di Arts and Humanities. Un esempio in tal senso è sicuramente il lavoro di Amy Allen, importante voce del femminismo contemporaneo, che ha rivolto una forte critica alla Scuola di Francoforte, in particolare a Habermas, Honneth e Forst, accusandoli, in maniera forse un po’ troppo generalista e generalizzata, di essersi allineati in una prospettiva neocolonialista. In questa prospettiva, se meritorio è certamente il lavoro di critica, non lo è lo svuotamento di qualsiasi forma di normatività, che tende a disperdere ulteriormente proprio il potenziale critico di questi pensieri. Senza sapere che cosa si intende con concetti come “emancipazione”, “alienazione” o ancora “solidarietà”[15] si finisce inevitabilmente per perdere quell’elemento utopico, immaginativo, che, come già accennato, è invece la seconda ambizione di Critica e utopia. Malgrado, dunque, dal punto di vista di una teoria critica della società, l’utopia non sembri una valida risorsa, questa ha come la forza di riemergere sempre, e soprattutto quando la crisi del pensiero e della prassi critica si fa più acuta. Nonostante, quindi, le tante obiezioni al concetto di utopia, nell’ultima sezione del suo libro Mordacci riesce a dimostrare come l’immaginazione utopica sia tutt’altro che fluttuante nel vuoto, ma ben ancorata all’analisi critica della realtà e dunque necessaria, oggi più che mai.
Il pensiero critico-utopico
Roberto Mordacci inizia quest’ultima sezione del suo Critica e utopia a partire dalle critiche mosse al pensiero utopico, che sono da lui classificate in quattro gruppi: a) l’obiezione che viene dal senso comune, che influenzato da testi come La Repubblica o Leggi di Platone associa l’utopia a una fantasia completamente scollegata dalla realtà; b) l’accusa, spesso associata ad autori come Saint-Simon, Owen a Fourier, secondo cui l’utopia non offrirebbe alcuna base scientifica alla critica e di cui un testo come L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza di Engels è assolutamente emblematico; c) l’osservazione, sempre proveniente da testi marxiano-engelsiani, secondo cui il pensiero utopico non sarebbe altro che espressione della classe borghese, inadatta a rappresentare un progetto emancipativo per le classi oppresse (di questa certamente il Manifesto del partito comunista è l’opera più rappresentativa); d) la critica a proposito delle conseguenze della pianificazione utopistica. L’immagine offerta da alcuni testi distopici novecenteschi come 1984 o La fattoria degli animali di Orwell, o Il mondo nuovo di Huxley hanno contribuito infatti a far passare l’idea che una società perfettamente ordinata sia necessariamente una società dove la libertà individuale è totalmente sacrificata al controllo. Il problema fondamentale di queste obiezioni secondo Mordacci è che non colgono l’essenza originaria dell’utopia. Non tengono conto del potenziale critico-emancipativo del pensiero utopico, incarnato da Thomas More e dal suo libro Utopia, il testo che ha introdotto tale concetto nella cultura occidentale. Se certamente alcune opere si prestano alle obiezioni sopra elencate, ciò comunque non scalfisce il fatto che parlare propriamente di utopia (nel senso di More) in riferimento a questi testi non è del tutto corretto. Ma che cos’è allora un’utopia? Se non è possibile fare fede a testi come La città del Sole di Tommaso Campanella o La nuova Atlantide di Francesco Bacone, a cosa rifarsi? Qual è il “vero” metodo dell’utopia? La proposta di Mordacci, come già accennato, è di ripartire da Utopia di Thomas More. Secondo l’umanista inglese – ma è in effetti un tratto di pensiero presente anche in John Stuart Mill –, una critica utopica non può che essere attraversata da una denuncia analitica di una distopia presente. In tal senso va compresa l’importanza di lavori come Noi di Evgenij Zamjatin, del Panopticon di Jeremy Bentham o di Fahrenheit 451 di Ray Bradbury. Ed ecco la compatibilità fra la critica utopica e le altre forme di critica. Più nello specifico, con la critica trascendentale la critica utopica condivide il riferimento alle condizioni minimali di una società vivibile; con la critica dialettica l’idea di partire sempre da un’analisi delle contraddizioni della realtà; con la critica genealogica, il tentativo di ricostruire da un punto di vista diacronico le contraddizioni del presente e con la critica messianica, infine, la proiezione in una condizione futura migliore ma pur sempre realistica. L’utopia critica non è quindi estranea alla parte “negativa” del pensiero critico, per citare Adorno, anche se certamente, rispetto a quest’ultimo, ripone una maggiore fiducia nella pars costruens.
Ultimo elemento della critica utopica sottolineato da Mordacci è il suo basarsi su alcune strutture fondamentali del senso comune. Ma quali sono? Secondo Mordacci, è possibile individuare cinque di questi elementi costitutivi del sensus communis: «il senso di giustizia»; «la tensione verso l’uguaglianza»; «il desiderio di libertà»; «l’impulso alla solidarietà»; «l’aspirazione alla felicità» (pp. 158-160). Arrivati a questo punto del testo, l’autore propone quindi una ricostruzione della sequenza di passaggi che caratterizzano il pensiero critico-utopico: l’«analisi critica della realtà sociale»; l’«identificazione delle contraddizioni fondamentali»; l’«immaginazione di assetti alternativi»; la «progettazione di pratiche trasformative» (pp. 162-165).
In conclusione, l’idea di fondo di questo libro di Mordacci è che il pensiero utopico ha la forza e l’ambizione di poter immaginare scenari alternativi alle contraddizioni dello status quo. Limitarsi al solo pensiero critico, soprattutto nella sua parte negativa, sarebbe certamente un errore. Affinché tutto ciò sia possibile è anzitutto necessario recuperare la nozione di “rispetto” di Kant; solo fondando tale capacità creatrice del pensiero utopico sul “rispetto”, principio fondativo di tutte le azioni possibili, della «relazione fra poteri» (p. 170), sarà possibile immaginare (utopisticamente, si può dire) un futuro diverso. Quanto al contenuto, è proprio la distanza dall’idea di utopia come creatio ex nihilo a caratterizzare l’ultimo lavoro del del Professore dell’Università Vita-Salute San Raffaele, motivo per cui questa può essere tanto frammentaria quanto sistemica, a seconda della contraddizione sociale davanti a cui l’utopia stessa si trova. Anche questo è già presente in Utopia di Thomas More, che, malgrado venga percepito in modo differente, è un testo dove solo alcuni tratti della società inglese vengono ripensati. E dunque, come dimostrato anche dal crescente interesse da parte di sempre più intellettuali, soprattutto di area socialista, radicale e non, come Nick Srnicek[16], Alex Williams[17], Zygmunt Bauman[18], o ancora Remo Bodei[19] (soprattutto nell’ultima fase del suo pensiero), il concetto di “utopia” sembra essere uno strumento insostituibile dell’essere umano per tentare di uscire dalle contraddizioni rilevate. Contro la distorsione di alcune strutture sociali della società neomoderna in cui viviamo non basta il pensiero critico, ma è necessario poter immaginare anche delle alternative. Alternative che sono però il contrario di una fuga nella fantasia. Alternative che hanno bisogno di teoria critica, in tutte le sue diverse forme e con le tante differenze. Aver tenuto insieme queste due forme di pensiero, quello critico e quello utopico, infine, è il grande merito di quest’ultima fatica di Roberto Mordacci, di cui la lettura è quanto mai consigliata e necessaria. Sempre posto che quel vecchio motto francese “Un autre monde est possible” abbia ancora senso, almeno per qualcuno. Se così non fosse, allora forse davvero la grande dea della Sapienza ha ormai lasciato il nostro mondo e si è consegnata all’inattuale e all’inutile.
[1] Roberto Mordacci, Ritorno a Utopia, Laterza, Roma-Bari 2020.
[2] Roberto Mordacci, La condizione neomoderna, Einaudi, Torino 2017.
[3] Michel Foucault, Che cos’è l’Illuminismo?, in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, 3. 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica; a cura di Alessandro Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, p. 226.
[4] Su questo, si veda Rahel Jaeggi, Critica delle forme di vita, Mimesis, Milano-Udine 2021, p. 302.
[5] Carlo Galli, Forme della critica. Saggi di filosofia politica, il Mulino, Bologna 2020, p. 22.
[6] Immanuel Kant, Idea per una storia universale in prospettiva cosmopolitica; trad. it., di Stefano Banchin e Francesca Pongiglione, Mimesis, Milano-Udine 2015, p. 49.
[7] Per un approfondimento di questa parte del pensiero kantiano, si veda Alberto Burgio, Strutture e catastrofi. Kant Hegel Marx, Editori Riuniti, Roma 2001.
[8] Nancy Fraser, Capitalismo. Una conversazione con Rahel Jaeggi, Meltemi, Torino 2019 e Nancy Fraser, Cosa significa socialismo nel XXI secolo?, Castelvecchi, Roma 2020.
[9] Axel Honneth, Pathologien der Vernunft – Geschichte und Gegenwart der Kristichen Theorie, Suhrkamp, Berlino 2007; trad. it. di Antonio Carnevalo, Patologie della ragione. Storia e attualità della teoria critica, Pensa Multimedia, Lecce 2012 e Axel Honneth, Kampf um Anerkennung, Grammatik sozialer Konflikte, Suhrkamp, Berlino 1992; trad. it. di Carlo Sandrelli, Lotta per il riconoscimento, il Saggiatore, Milano 2002.
[10] Amy Allen, The End of Progress. Decolonizing the Normative Foundations of Critical Theory, Columbia University Press, New York 2017.
[11] Reinhart Koselleck, Futuro Passato. Per una semantica dei tempi storici, Clueb, Bologna 2007.
[12] Con le dovute eccezioni, si veda Carlo Galli, Forme della critica. Saggi di filosofia politica, il Mulino, Bologna 2020; David Marcey, Dictionary of Critical Theory, Penguin, Londra 2020; G. Fazio, Ritorno a Francoforte. Le avventure della nuova teoria critica, Castelvecchi, Roma 2020; Seminario di Teoria Critica, Che cos’è la politica?, Meltemi, Torino 2008.
[13] Su questo, si veda sempre Roberto Mordacci, Rispetto, Cortina, Milano 2012.
[14] Proprio sul rapporto fra il potere “costituito” e il possibile “istituente”, mi permetto di rimandare agli scritti più recenti di Roberto Esposito, filosofo teoretico che insegna presso Scuola Normale Superiore di Pisa. Di quest’ultimo, in particolare si veda Istituzione, il Mulino, Bologna 2021.
[15] Su questo, si veda Alessandro Volpe, Solidarietà. Filosofia di un’idea sociale. Carocci, Roma 2023.
[16] Nick Srnicek e Alex Williams, Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro, Nero Edizioni, Roma 2018.
[17] Nick Srnicek e Alex Williams, Manifesto accelerazionista, Laterza, Roma-Bari 2018.
[18] Zygmunt Bauman, Socialismo utopia attiva; trad. it. di Massimo de Pascale, Castelvecchi, Roma 2018.
[19] Remo Bodei, Sogno e utopia, Collana Paginette, Festival Filosofia 2008.