Recensione a: Georgi Gospodinov, Cronorifugio, traduzione di Giuseppe Dell’Agata, Voland, Roma 2021, pp. 320, 19 euro (scheda libro)
Scritto da Alfonso Musci
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La tentazione della neutralità
In Vremeubežište (letteralmente: “rifugio del tempo”) l’autore bulgaro non nasconde il suo debito con La montagna magica di Thomas Mann. Il titolo ha due sensi di lettura, il sentimentale rifugio nel tempo, come caldo cronotopo ideale (il proprio decennio preferito), riparato da una realtà presente straniante e minacciosa, e il rifugio dal tempo, in cui trovare riparo dalla minaccia del passato, che può «essere spietato», «infettarsi» e far male. Il protagonista del racconto, Gaustìn, ha fondato a Zurigo una “clinica del passato” per ospitare chi, a causa di malattie neurodegenerative come l’Alzheimer, ha perso la memoria. Il percorso terapeutico della clinica prevede una graduale ricerca e riappropriazione dei ricordi perduti. Ogni piano dell’edificio che la ospita riproduce filologicamente un decennio del secolo scorso; ma un rifugio dal presente finisce infine per attrarre anche chi è sano, perché la diagnosi di una patologia della memoria ha per Gospodinov una dimensione epocale: il tempo dell’Alzheimer di massa.
Di un tipo di cronorifugio archetipico e intriso di malessere aveva già scritto Carl Gustav Jung – anch’egli svizzero e geloso della neutralità dell’anima elvetica; esemplare il testo La riga svizzera nello spettro europeo (Die Bedeutung der schweizerischen Linie im Spektrum Europas, 1928) – in Psicologia e problemi nazionali (Psychology and National Problems), conferenza in lingua inglese tenuta presso l’Istituto di Psicologia medica (Tavistock Clinic) di Londra nell’ottobre del 1936. Cronorifugio da quale malessere? Dal disagio psicologico delle nazioni sconfitte nella Grande guerra. Somma di spaesamenti generati in una massa aggregata di singoli che, dal loro punto di vista, privato e individuale, hanno perduto e si sono impoveriti. Ex post, la depressione dei vinti in guerra indagata da Jung sarà una metafora anticipatrice del più largo incombere del futuro e del progresso (l’età senza tempo del Settembrini di Mann) nel mondo chiuso e malinconico di un qualunque uomo inattuale e sconfitto da una weltisierung (mondializzazione) livellatrice e senza radici. Sarà questo soggetto spaesato e dalla memoria malata, afflitto da nevrosi e psicosi, a cercare rifugio in un tempo sì ancestrale e primitivo, ma capace di violentare il presente, il futuro e i mostri della democrazia e dell’epoca liberale. Quest’uomo atterrito dalla modernità avrà una doppia natura. In quanto comune mortale – come già lo fu Hitler – sarà un «ometto timido e cortese», «inoffensivo e modesto», ma come esponente delle viscere del suo torbido animo sarà un neopagano (adoratore di Wotan e del ciclo wotanico), un anticristiano, uno sciamano (come il «medium di Braunau», città natale degli spiritisti Willi e Rudi Schneider), capace di far tuonare la sua voce e «spazzar via, come foglie d’autunno, intere folle di milioni di persone».
L’ideale congiunzione tra Jung e Gospodinov è la fine degli anni Trenta e non è solo il termine di un decennio: «il 1° settembre del 1939 la mattina presto, giunse la fine del tempo umano» (G. Gospodinov), giorno dell’invasione tedesca della Polonia. Incubo e trauma destinato a restare senza tempo e a riproporsi angosciosamente in forma attenuata nell’epilogo del romanzo: «Le truppe si ammassano e attendono. I primi colpi partiranno dalla nave Schleswig-Holstein contro i depositi militari della penisola di Westerplatte, presso Danzica. Ci si prepara da tempo, si attende il momento esatto, qualche ricorrenza. Tutto sarà ricostruito, ora per ora. C’è un piccolo disaccordo preliminare sui minuti, alcuni asseriscono che l’inizio è alle 4:44, altri alle 4:48. Cadrà il primo soldato ucciso in questa guerra, il sergente polacco Wojciech Najsarek. La Luftwaffe sosterrà l’aggressione dal cielo… Nel Mar Baltico sono in attesa alcuni sottomarini». E non sarà la sequenza filmica di un documento del passato, ma una risacca potenzialmente perniciosa, camuffata da public history o da historical reenactment: «La più grande ricostruzione di guerra mai fatta, in scala reale, con un milione e mezzo di comparse come soldati della Wehrmacht, disposti lungo tutto il confine con la Polonia, esteso 1.600 chilometri, 62 divisioni, 54 delle quali in assetto di guerra, 2.800 carri armati, 2.000 aerei (i vecchi Junkers e Stuka sono stati riparati), cannoni d’artiglieria attendono nascosti nei boschi, sottomarini, corazzate, una flotta di cacciatorpediniere, una flotta di MAS. Ripetiamo questa guerra perché non si ripeta mai più, dirà qualcuno per radio e questa assurda tautologia sbloccherà tutto». Gospodinov ha intuito che una nazione sconfitta e afflitta dal disagio psichico potrebbe un giorno affidare le sue speranze al cronorifugio di una barbarica guerra di aggressione, generando inevitabilmente l’impressione di una spettacolare messinscena.
Nel libro si parla molto della Svizzera, come Paese del «grado zero del tempo», eppur disposto a ospitare surrogati di ogni tempo. E si parla di Zurigo, come città buona per viverci e soprattutto per morirci. Una città tranquilla come un cimitero, capitale occidentale della noia, del tempo e dell’invecchiamento. Lì «si sono annoiati Canetti, Joyce, Dürrenmatt, Frisch e anche Thomas Mann». Non a caso due grandi scoperte del XX secolo, legate al tempo, si sono verificate in Svizzera: «la teoria della relatività di Einstein e La montagna magica di Thomas Mann». Il cronorifugio innominabile e privo di qualunque tasso di figuralità è la morte, l’utopia disvelata, l’epilogo ineluttabile di ogni malattia, vita compresa. «La maggior parte andava in un ospizio e restava in vita ancora per un po’ grazie alle apparecchiature, malgrado i segnali che il corpo ormai rifiutava di sostenere la vita. Si suicida un pezzo dopo l’altro, un organo alla volta, cellula dopo cellula. E i corpi non ce la fanno più, si stancano, vogliono pace. Solo in alcune parti del mondo questo desiderio del corpo può essere ascoltato». Oltre che per i vivi, la Svizzera è un paradiso anche per i moribondi. Zurigo ha tanti primati, ad esempio è la prima delle città al mondo per morire, l’eldorado dell’eutanasia: Switzerland as eutanasiland. «I dati indicano circa 1.000 stranieri all’anno, soprattutto tedeschi, ma anche inglesi. E non solo persone incurabili. Coppie di anziani che hanno deciso in anticipo di andarsene insieme, se uno dei due è già un malato terminale. Li immagino arrivare, docili e impacciati, mano nella mano. Per affrontare così, mano nella mano, l’intera procedura. Non vogliono perdersi di vista negli infiniti campi elisi». C’è però una ragione occulta, che Gospodinov coglie in modo fulmineo, e che rende la Svizzera capitale naturale dell’eutanasia. Dopo la carneficina della Seconda guerra mondiale e l’industria nazista della morte, l’Europa non può permettersi di offrire una buona morte con leggerezza ed è così che la plurisecolare neutralità elvetica ha trasformato la Svizzera in monopolista dell’affare.
Il climax del romanzo è la notizia dell’indizione del primo referendum europeo sul passato, con relativa campagna elettorale per eleggere un decennio ideale: piccola patria temporale adatta ai desideri di ciascun popolo. Ad esempio gli anni Ottanta per Austria, Francia, Germania, Spagna e Polonia, i Settanta per Portogallo, Svezia e Danimarca, i Novanta per la Repubblica Ceca e, caso isolato, gli anni Sessanta per l’Italia. Anche gli svizzeri, a sorpresa, prenderanno parte al voto. Sceglieranno forse gli anni Quaranta? Forse, con orrore di tutti, ma fedelmente alla loro secolare divergenza dal banco di macelleria del resto d’Europa. In un continente insanguinato la Svizzera sarà stata o no un’isola di pace? Tutt’altro, osserva Gospodinov, la fine del mondo incombeva anche lì, e con angoscia crescente, mista a gioia del male. Gli aerei rombavano lungo i confini e Hitler aveva anche un piano per conquistarla, città dopo città. «Ascoltare tutte le atrocità fatte ai tuoi vicini, dormire col fucile e in pieno assetto di guerra. Scavare le Alpi per costruire bunker, li chiamavamo “ridotte”, nasconderti nelle ridotte, continuare ad aumentare crediti e concessioni per il Reich». All’ultimo minuto però gli antichi maestri rousseauiani del referendum, proprio gli elvetici, prenderanno una decisione di buon senso e del tutto inattesa: la neutralità cronologica. Vale a dire l’attimo, l’anno, il mese e il giorno stesso del referendum, destinato a diventare immediatamente e inesorabilmente asincrono. Conservare la neutralità, del resto, è sempre stato un gioco fuori dal tempo, un perfetto cronorifugio dal passato in un territorio neutrale. Sul tempo oggettivo e legale della Svizzera tutti avrebbero potuto regolare i propri orologi, trovando «uno standard aureo del tempo, al quale gli altri avevano rinunciato». E se qualcuno avesse patito un improvviso attacco di claustrofobia del passato? Avrebbe trovato temporaneo rifugio in Svizzera. Rese angosciate e nevrotiche dal terrore del passato, proprio le istituzioni europee indipendenti – nel rispetto della nuova geocronia continentale disegnata da un nuovo “congresso di Vienna” del sovranismo storico (cuius regio, eius tempus) – sceglieranno inaspettatamente di localizzarsi in quel Paese anodino, al riparo da risacche del passato potenzialmente infette.