Scritto da Giacomo Bottos
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In questa intervista a Guido Samarani, uno dei maggiori esperti italiani di Cina, ripercorriamo alcune tappe della storia cinese degli ultimi decenni – dalla morte di Mao Zedong all’ascesa di Xi Jinping, passando per le riforme di Deng Xiaoping – per ricostruire il percorso che ha condotto alla Cina attuale.
Guido Samarani insegna Storia della Cina e Storia e Istituzioni dell’Asia Orientale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, dove è stato Professore Ordinario di Storia e Istituzioni dell’Asia e Direttore del Marco Polo Centre for Global Europe-Asia Connections. È autore di numerose opere sulla Cina del Novecento e sulla realtà cinese contemporanea, pubblicate in Italia e all’estero, di cui ricordiamo solo: La rivoluzione in cammino. La Cina della Lunga Marcia (Salerno Editrice 2018), La Cina contemporanea. Dalla fine dell’Impero ad oggi (Einaudi 2017), Lontane, vicine. Le relazioni fra Cina e Italia nel Novecento (con Laura De Giorgi, Carocci 2011) e Cina, ventunesimo secolo (Einaudi 2010).
Professor Samarani, lei ha raccontato di essere andato in Cina per la prima volta proprio il giorno dopo la morte di Mao. Pensando alla Cina di allora, all’epoca del suo primo viaggio, e alla Cina di oggi, quali sono i principali elementi di diversità che si possono sottolineare?
Guido Samarani: In effetti sono passati circa 45 anni dalla morte di Mao Zedong, avvenuta nel settembre del 1976, e da quella mia prima visita. E quando arrivai a Pechino, con un gruppo di studenti italiani borsisti del Ministero degli Esteri, ricordo che una delle prime cose che chiedemmo fu appunto quella di poter andare a vedere la salma di Mao. Un modo per noi giovani studenti di partecipare ad un momento storico. Da allora sono tornato almeno una trentina di volte in Cina – anche se, purtroppo, ormai manco da qualche anno – e devo dire che ad ogni viaggio, anche se è passato poco tempo, trovo grandi cambiamenti e a volte non riesco a riconoscere luoghi che ho visto anche solo due o tre anni prima. Un piccolo fatto personale che mostra l’enorme processo di trasformazione, per certi aspetti direi straordinario, che segna profondamente la Cina. Quarantacinque anni, o anche mezzo secolo, sono un breve periodo sul piano dei processi storici e questi cambiamenti del paesaggio restituiscono bene quanto profonde siano le trasformazioni a cui questo Paese è andato e sta andando incontro. Una delle immagini che mi ha colpito maggiormente durante quel primo periodo di studio in Cina dal 1976 al 1978 è l’incontro, in una caldissima estate pechinese, con un uomo che passava davanti all’Università con un carretto a pedali su cui trasportava un enorme blocco di ghiaccio che si stava vistosamente sciogliendo. Vedendolo mi chiesi: arriverà mai a destinazione il ghiaccio? E questo Paese, che sono venuto a studiare attirato dalla sua millenaria civiltà, non può fare meglio di così? Dove andrà la Cina, e in quali condizioni ci arriverà? Credo che in questi decenni la Cina abbia fatto di più e di meglio, e lo abbia fatto in modo per tanti aspetti straordinario. Ma non è stato un passaggio indolore. Dobbiamo sempre tenere presente che ogni grande trasformazione comporta dei costi. Trasformazioni di questo tipo – che non sono solo economiche e finanziarie, ma anche sociali e umane – portano grandi successi, ma lasciano anche prezzi importanti da pagare. Alcuni sono stati pagati in questi decenni, altri restano da pagare. Recentemente è stata pubblicata la terza “risoluzione sulla storia” del Partito Comunista Cinese (PCC), approvata dal comitato centrale, che è sia un documento storico – nella storia del PCC sono state solo tre, una nel 1945 con Mao, una nel 1981 con Deng Xiaoping e appunto una adesso – sia un documento politico-ideologico. Uno dei temi principali che vi viene sollevato, semplificando, è proprio la percezione di aver fatto molto, di aver prodotto grandi cambiamenti e grandi progressi, ma si mette anche in luce il fatto che in questi ultimi anni si sono addensate delle nubi che riguardano il contesto internazionale, meno armonioso di quello che i cinesi avrebbero voluto, e l’esistenza di una serie di problemi antichi non risolti, o non pienamente risolti, a cui si sommano le nuove contraddizioni da affrontare aperte negli ultimi anni. Uno dei temi centrali è sicuramente quello della corruzione.
Dal punto di partenza del suo primo viaggio in Cina, che avviene in un momento estremamente significativo per la storia cinese, a oggi, passando per le riforme avviate da Deng Xiaoping, se dovesse tracciare una scansione di massima quali periodi principali individuerebbe?
Guido Samarani: Innanzitutto, una premessa. Penso che, complessivamente, si sia guardato erroneamente o almeno superficialmente, seppur in buona fede, alle origini del processo di riforma avviato da Deng Xiaoping alla fine degli anni Settanta. Nello specifico, si è guardato a quel progetto di riforma, di modernizzazione e di apertura verso il mondo esterno, legandolo quasi automaticamente a un processo di democratizzazione. Si è preso il pacchetto delle “quattro modernizzazioni” – agricoltura, scienza e tecnologia, industria, difesa nazionale – approvato fra il 1978 e il 1979 e lo si è staccato dal contesto, dimenticando che pochi mesi dopo venne approvato anche il pacchetto contenente i quattro principi guida – la cornice politico-ideologica al cui interno si pose il programma di riforme, di apertura e di internazionalizzazione della Cina. Se non si tiene conto di questi due elementi intrecciati tra loro si commette l’errore di analizzare il problema in modo superficiale, creando l’aspettativa che la liberalizzazione dell’economia, l’estensione del principio di mercato, anche a livello internazionale, porti automaticamente ad una trasformazione profonda del sistema politico, mentre è chiaro che in Cina questo non è avvenuto. Anzi, oggi possiamo dire che c’è stato un certo irrigidimento del sistema politico-ideologico cinese. Per quanto riguarda le tappe del processo di riforma, direi che c’è stata una prima fase apertasi a fine anni Settanta e conclusasi a metà anni Ottanta circa, in cui le riforme sono state sperimentate a livello locale e regionale, come laboratori per poterle poi sviluppare a livello nazionale. Sono gli anni delle riforme di agricoltura e industria, della de-collettivizzazione, della fine delle comuni popolari, della riforma del sistema industriale, della modernizzazione dell’esercito – stimolata anche dalla guerra di frontiera con il Vietnam del 1979, da cui le forze armate cinesi uscirono malconce, facendo comprendere alla Cina la necessità di modernizzare la propria macchina militare –, e inoltre della riforma del settore scientifico e tecnologico, che comprendeva anche la riforma del sistema educativo. Queste riforme sono state sperimentate e portate avanti fino alla metà circa degli anni Ottanta. Dalla metà degli anni Ottanta si è aperta una seconda fase, in parte di impasse, del processo di riforma. Semplificando, direi che una quota importate dei senior leader del PCC ha avanzato perplessità e critiche sul processo di apertura che stava portando non solo capitali e tecnologie, a chiaro vantaggio della Cina, ma anche quella che si definiva la “liberalizzazione borghese”, ossia la diffusione di idee in conflitto con i quattro principi guida e la cornice politico-ideologica che era stata tracciata dal Partito. Questo si è poi combinato, nel 1987-88, con l’avvio di una crisi finanziaria e del processo inflazionistico, un fenomeno che il popolo cinese associava ai grandi problemi che aveva affrontato durante la guerra e nel primo dopoguerra. In altre parole, l’inflazione nella memoria cinese era un fenomeno legato a momenti particolarmente tragici, e che si pensava dovesse essere evitato. Combinando le tensioni appena menzionate con l’erosione del potere d’acquisto di gran parte delle famiglie cinesi, si forma il “cocktail” che porta alla crisi che poi sfocia, politicamente e socialmente, negli eventi di Piazza Tienanmen del 1989. Naturalmente, bisogna anche includere in questa fase gli eventi del “biennio terribile”, gli anni del crollo del muro di Berlino e della fine dell’Unione Sovietica. Questa seconda fase si conclude intorno ai primi anni Novanta e possiamo dire che sia senza dubbio uno dei periodi più difficili vissuti dai cinesi. La terza fase è quella del riavvio e dell’approfondimento del processo di riforma. In questa fase Deng, che in quegli anni intraprende il famoso viaggio nel Sud della Cina, dal forte significato simbolico, rilancia la necessità di riformare il Paese. La mia impressione è che l’esito sia stato il raggiungimento di un patto di fondo avvenuto nel 1992-93 fra Deng, la leadership del PCC e quello che rimaneva del gruppo riformatore – indebolito dalla morte di Hu Yaobang e dall’allontanamento di Zhao Ziyang –, per cui viene espressa la volontà di irrobustire il sistema di controllo politico del Paese (quello che voleva una parte della leadership del Partito), senza però fermare il processo di riforma (che voleva Deng). Possiamo vedere questa fase come la risposta a quelle richieste, per un verso reazionarie, che volevano un ritorno alla situazione precedente alla fine degli anni Settanta, chiedendo ad esempio la chiusura delle zone economiche speciali. Il ritorno alla sovranità cinese di Hong Kong nel 1997 e di Macao nel 1999 sono due momenti importanti per questo patto di fondo, dal momento che permettono di rafforzare l’orgoglio nazionale rafforzando allo stesso tempo la legittimità del PCC e, di conseguenza, del sistema di controllo politico. Con il Ventunesimo secolo si aprono invece due fasi nuove. La prima è quella che si conclude sostanzialmente con il primo decennio del secolo ed è la fase di grande crescita economica della Cina, caratterizzata dalla capacità cinese uscire prima dalla crisi finanziaria asiatica di fine anni Novanta, e di arrivare poi meglio equipaggiata per rispondere alla crisi del 2008. Le Olimpiadi di Pechino e l’Expo universale di Shangai sono due momenti che indubbiamente rappresentano questa quarta fase. Il 2010, per ovvi motivi, segna l’inizio di una nuova fase contraddistinta dalla contrazione dell’economia nonostante la Cina si sia difesa bene, malgrado paghi il prezzo del calo delle esportazioni a seguito della chiusura dei mercati internazionali. Infine, quest’ultima fase è marcata da una nuova leadership, molto assertiva, che fa entrare la Cina in conflitto con altre forze, a partire dagli Stati Uniti. Un carattere che negli ultimi anni si è, per vari aspetti, accentuato.
Lei ha fatto riferimento all’aspettativa, spesso nutrita in Occidente, che alle riforme economiche sarebbero seguite riforme politiche, che esistesse una sorta di nesso necessario tra le due cose. Quali pensa che siano le ragioni della difficoltà delle classi dirigenti occidentali nel comprendere le dinamiche reali di questo Paese? C’è stata una sottovalutazione, un insufficiente approfondimento, una scarsa capacità di entrare in connessione con una cultura complessa come quella cinese?
Guido Samarani: L’ultima parte della domanda mi pare centrale. Credo che le classi dirigenti non abbiano capito a fondo che il mondo è diversificato e che quindi non necessariamente i percorsi di crescita economica e liberalizzazione del mercato portano automaticamente ad una liberalizzazione politica. Forse è stato così in Occidente, anche se bisognerebbe discutere e approfondire meglio la complessità e la diversità dei percorsi compiuti dagli stessi Paesi europei e occidentali. Credo inoltre che, da parte dell’Occidente, ci sia stata una un’attenzione spesso superficiale per la Cina, e che questa superficialità si sia accentuata in particolare dopo il 1991, cioè dopo la fine del socialismo reale e dell’Unione Sovietica. Credo si sia ritenuto, secondo me erroneamente, che la partita fosse chiusa. Lo dicevo al tempo e oggi ne sono sempre più convinto. Tuttavia la Cina, a differenza di quanto si pensasse alla fine degli anni Ottanta, non è crollata. Il dilemma proposto allora era proprio questo: o sposi la democrazia politica oppure crolli, perché il mercato, la liberalizzazione e l’apertura al commercio internazionale sono forze tali da impedirti di continuare ad avere un sistema di dittatura democratica popolare. La Cina però non è crollata e invece si è affermata come potenza – regionale prima, internazionale poi – e io credo che questa evoluzione sia entrata in collisione con le aspettative politiche, molto diverse, di gran parte del mondo e soprattutto dell’Occidente.
Anche considerando il rapporto con l’Occidente, e con gli Stati Uniti in particolare, cosa rappresenta la crisi del 2008? Si tratta di uno spartiacque?
Guido Samarani: La capacità, o la parziale capacità, della Cina di resistere e di rispondere meglio alla crisi globale della fine del primo decennio del Ventunesimo secolo ha generato una grande spinta di fiducia, dando alla classe dirigente cinese una nuova autoconsapevolezza. Non è solo una mia impressione, diversi leader cinesi l’hanno affermato e lo ribadiscono anche oggi. Quando Xi Jinping diventa segretario del PCC, nel 2012, vive personalmente e assume politicamente questo passaggio e notiamo che nel suo programma politico, ideologico e strategico risalta proprio quest’idea di superiorità della Cina. Viene inoltre espressa una visione di Occidente non così forte e solido come sembrava essere dopo il 1991, e quindi non più in grado di guidare o pretendere di guidare – e questo vale soprattutto per gli Stati Uniti – il mondo. Non solo, rileggendo le parole di Xi Jinping del 2012-13 e anche degli ultimi anni, appare chiara l’esistenza di una visione sistemica che mette in campo la superiorità del marxismo. Questo è un tema centrale: contrapponendo il marxismo, cioè la Cina, al neoliberismo, cioè gli Stati Uniti, si evidenzia come il marxismo – un marxismo “non ossificato”, che si è liberato da una serie di pastoie ortodosse e rigide del passato – si sia dimostrato superiore al neoliberismo dell’Occidente e degli Stati Uniti, come strumento sia di lettura che di superamento della crisi. Poi naturalmente è possibile discutere se questa fiducia e questo orgoglio siano stati un po’ ingigantiti da parte della leadership cinese, ma ciò non toglie che questo sia un tema di enorme rilevanza.
Quali sono i passaggi e i principali ambiti in cui avviene il cambiamento di approccio nel momento in cui si apre la leadership di Xi Jinping?
Guido Samarani: Non si può dire che sia cambiato tutto dal biennio 2012-2013, quando Xi è diventato prima segretario del PCC e poi presidente della Repubblica Popolare: certi elementi di quelli che sarebbero stati i connotati principali della sua leadership potevano infatti essere osservati, almeno in parte, già negli anni precedenti. È chiaro che la morte di Deng nel 1997 aveva aperto una serie di scenari inediti per il PCC, che aveva bisogno di due cose: o di una grande capacità collettiva di direzione del Partito o di un altro grande leader. Non so se Xi sia il grande leader in questione, sembrerebbe di sì anche se esercita la sua leadership in modo diverso rispetto sia a Mao che a Deng. Sicuramente possiamo però dire che Xi abbia raccolto questo “humus” preesistente e l’abbia sviluppato portandolo avanti con forza e determinazione. Riprendo brevemente il testo della risoluzione a cui accennavo in precedenza, si rintraccia un’enfasi particolare, soprattutto nelle conclusioni, sul tema della “governance debole”, che viene definita anche “lassista” e che rappresenterebbe uno dei problemi fondamentali che la Cina ha ereditato dagli anni precedenti. Il focus sulla debole capacità di governo fa sicuramente riferimento alla leadership di Hu Jintao, il predecessore di Xi, a cui viene mossa la critica di non aver fatto nulla nei confronti dell’aumento della corruzione, che avrebbe danneggiato gravemente, rischiando anche di scardinarlo, il rapporto di fiducia fra il PCC e le masse. Possiamo quindi dire che l’ossatura del documento, per quanto riguarda il cambiamento da imporre alla politica interna, sia il ripristino del controllo politico-ideologico. Unitamente a ciò, viene espressa anche la necessità di riprendere a pensare seriamente sul ruolo della formazione e dell’istruzione, riavviando un percorso che si era in parte perso. In questo periodo sto portando avanti studi legati alla vicenda dell’Accademia del Marxismo, che è stata ripresa e sviluppata negli ultimi anni; il marxismo-leninismo, il pensiero di Mao e ora quello di Xi sono il patrimonio ideologico che nella nuova era che si sta aprendo è ritenuto fondamentale per riformare le menti e rinnovare l’ideologia. Attorno a questa ossatura fondamentale, vi sono altri elementi molto importanti. Uno di questi è l’accettazione che la Cina non possa più continuare la sua crescita economica allo stesso vertiginoso ritmo degli anni precedenti: ormai siamo passati da tassi di crescita del 12-13% al 6%. Chiuso questo “periodo d’oro” della crescita economica, gli ultimi piani quinquennali e le altre forme di programmazione economica pongono il problema del cambiamento del modello di sviluppo, che non deve più basarsi unicamente sulle esportazioni, ma anche sul rafforzamento dei consumi interni e del potere d’acquisto delle famiglie. Nei documenti si parla anche di uno sviluppo che in passato è stato sicuramente solido, ma anche fortemente squilibrato e diseguale. E gli squilibri sono stati posti al centro dell’agenda politica, economica e strategica perché ritenuti dannosi, dal momento che portano sperequazione e possono causare potenziali conflitti. Infine, il terzo elemento sollevato da questo documento riguarda la politica estera. Con questo nuovo corso, iniziato fra il 2012 e il 2013 ma che ha preso vigore negli ultimi 2-3 anni, viene affermata la necessità di superare quella che semplificando possiamo chiamare “mentalità della modestia”. La consapevolezza acquisita grazie alle Olimpiadi e al superamento della crisi del 2008 ha fatto capire che la Repubblica Popolare è molto più forte di quanto si pensava, motivo per cui la Cina potrebbe permettersi di essere più assertiva in politica estera in futuro. Naturalmente, non sappiamo dire dove porterà questo atteggiamento nuovo, ma per ora possiamo sicuramente dire che in Cina si sta affermando un’inedita consapevolezza dei propri mezzi.
Rispetto a questi elementi, pensa che la pandemia abbia confermato la linea delineata dal nuovo corso cinese, che l’abbia accelerata o che l’abbia invece cambiata sotto certi aspetti?
Guido Samarani: Io credo che l’abbia cambiata e che la stia cambiando almeno in parte, anche se non so in che misura. Stiamo parlando infatti di uno scenario ancora preliminare, ma per ora si può affermare che con la pandemia siano stati messi in discussione tutti i modelli di sviluppo nazionali e globali, e non solo dal punto di vista sanitario. Sicuramente occorrerà molto tempo per tornare ad una situazione più “armoniosa”, per usare un termine caro al pensiero cinese. La mia impressione è che la Cina abbia perso qualcosa in termini d’immagine agli occhi dei Paesi occidentali rispetto a qualche anno fa. I rapporti con gli Stati Uniti poi si erano già deteriorati con Trump alla Casa Bianca e penso che, a seguito di questa caduta d’immagine – attestata anche in numerose indagini statistiche effettuate nei Paesi occidentali – assisteremo ad una risposta forte, connotata da toni più duri, da parte cinese a quelle che la Cina ritiene strumentalizzazioni politiche della crisi degli ultimi due anni. Penso anche che in questo contesto, deteriorato e più ostile di quello del 2018-2019, la Cina dovrà infatti affrontare difficoltà maggiori nei prossimi anni.
Quali pensa che saranno gli sviluppi futuri nella linea cinese? La guida di Xi Jinping continuerà ad essere solida come è stata finora? Ci sono altri elementi da valutare?
Guido Samarani: Per quanto riguarda la leadership di Xi, francamente devo dire che non mi aspettavo si sarebbe mantenuta la stessa situazione di solidità degli anni precedenti. Non ho mai sottovalutato il ruolo di Xi, le sue capacità, i suoi punti forti – e i suoi punti deboli – e le sue strategie, ma non ho mai considerato Xi come il “nuovo Mao” in senso stretto, dal momento che ha governato e sta governando con altre modalità. Nonostante vi siano degli indubbi elementi di continuità fra queste due figure, devo confessare che non pensavo che questo processo di accentramento e di personalizzazione, anche politica e di potere, andasse avanti in questa maniera. Devo quindi desumere – e si può solo desumerne dal momento che la lettura e l’interpretazione di queste dinamiche in Cina sono tutt’altro che semplici – che nel corso degli anni evidentemente si sia creato un consenso solido, che aumenta e non diminuisce, su Xi da parte della classe dirigente cinese. Si è cioè strutturato un blocco politico, militare, economico e finanziario che sostiene la linea di Xi e la ritiene il modo migliore di agire. Poi si può discutere della possibile presenza di oppositori interni, questa è una cosa che sarà possibile valutare quando ci sarà il congresso del PCC, anche se non mi aspetto particolari sorprese in tal senso e, anzi, probabilmente il congresso tenderà a rafforzare l’idea della centralità di Xi. Va inoltre sottolineato come non siano ancora emersi oppositori forti di Xi e ciò perché, evidentemente, la sua politica ha ottenuto un consenso rilevante e diffuso. Ad oggi non sembra esserci infatti una reale linea alternativa, o se c’è non ha ottenuto un appoggio significativo. La lotta politica in Cina naturalmente esiste ma è tutta interna al Partito-Stato, non appare molto all’esterno ma si riflette e si percepisce nei cambiamenti del gruppo dirigente del Partito. Possiamo quindi dire che, almeno sino al prossimo congresso d’autunno, non ci si debbano aspettare grandissime novità sul piano politico-istituzionale.
Nella nuova fase aperta dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, la posizione cinese riveste una grande importanza ed è stata oggetto di molta attenzione. Quali sono gli elementi di questa posizione e quali le implicazioni degli avvenimenti in corso dal punto di vista delle prospettive strategiche della Repubblica Popolare?
Samarani: La questione della posizione cinese nei confronti dell’invasione russa è, a mio modo di vedere, uno dei temi essenziali che possono potenzialmente incidere, anche se è difficile dire in quale misura, sull’andamento del prossimo congresso del PCC. Sono state legittimamente sollevate varie critiche alla posizione cinese, ritenuta poco incisiva e troppo attendista: forse è vero, ma a me pare che essa sia oggi l’unica, tra i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’ONU, a porre “politicamente” la questione dell’oggi e del dopo, mettendo al centro (si vedano le varie prese di posizione del Ministro degli Esteri) due aspetti chiave: il primo, il rispetto della sovranità di tutti i Paesi (e questa è una chiara indicazione, assieme ad altre, dell’insofferenza cinese verso l’azione russa, la quale rischia di portare seri problemi – certo indesiderati – al rapporto già complesso con Stati Uniti e Occidente) e il secondo, l’esigenza di tutelare gli interessi di sicurezza di tutti gli attori dell’area (e qui il messaggio è a garanzia della posizione di Mosca, con cui Pechino intrattiene rapporti solidi – anche se non ferrei – da ormai trent’anni): un aspetto questo che ritengo debba essere affrontato se si vuole veramente la fine del conflitto e soprattutto se si vogliono affrontare e risolvere le radici storico-politiche della crisi. Aggiungerei, se mi è concesso, un secondo tema essenziale che potrà pesare nelle decisioni politiche del prossimo congresso: i fatti di Shanghai e la gestione della pandemia in Cina. Il tema, va da sé, è complesso e tocca temi, quali quelli scientifico-sanitari, che esulano dalla mia competenza. Tuttavia, vorrei mettere in luce due aspetti: il primo, quella di Shanghai è stata ed è una “battaglia” vitale affinché l’intero partito e popolo possa valutare se la scelta di Xi Jinping e della leadership cinese della strategia “covid zero”, con i suoi enormi costi economici, sociali e umani, sia o meno quella vincente, in un rapporto tra costi e benefici; il secondo, la scelta cinese è stata criticata su vari fronti, sia interno (lettere di giuristi preoccupati della tutela dei diritti della popolazione, ecc.) sia internazionale (il segretario generale dell’OMS, ad esempio), e in certi casi sono state lanciate ipotesi di malattie, colpi di stato, ecc: penso occorra stare ai fatti ed uno di questi è che la scelta della strategia “covid zero” è basata su studi scientifici cinesi, alcuni dei quali anche pubblicati all’estero, che sostengono che tenuto conto delle fragilità del sistema sanitario cinese e del fatto che la protezione vaccinale per gli oltre sessantenni è relativamente bassa, l’unica politica efficace sia quella portata avanti a Shanghai, in assenza della quale le stime cinesi indicano una inarrestabile diffusione dei contagi e un grave innalzamento del tasso di mortalità. Ovviamente il tempo dirà se tale strategia è stata o meno corretta e se per i cinesi i benefici sono stati o meno superiori ai costi: mi pare però fondamentale precisare che, a differenza di quanto ipotizzato, la “pazzia politica” per cercare di spiegare certe scelte e decisioni è una categoria che va affrontata con molta prudenza, parlando della Cina così come della Russia e dell’Occidente.