D’Alema e la Cina
- 07 Giugno 2020

D’Alema e la Cina

Recensione a: Massimo D’Alema, Grande è la confusione sotto il cielo. Riflessioni sulla crisi dell’ordine mondiale, Donzelli Editore, Roma 2020, pp. 160, 13 euro (scheda libro)

Scritto da Alessandro Aresu

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“Sono un vecchio amico della Cina”[1]: questo titolo riassume la visita dell’allora Ministro degli Esteri Massimo D’Alema a Pechino nel 2006. D’Alema evoca le differenze tra la Cina delle biciclette, scoperta come “scout di Berlinguer” per la ripresa dei rapporti tra Partito Comunista Cinese e PCI[2], e quella del grande sviluppo economico, ma anche della concorrenza “sofferta dall’Italia più di altri”.

D’Alema torna a Pechino nel 2010, da presidente della fondazione Italianieuropei e presidente del Copasir. Si sofferma, tra l’altro sugli ingenti investimenti cinesi in ricerca e sviluppo, che renderanno la Cina una grande potenza tecnologica, non solo manifatturiera. Un fenomeno già in corso “di cui rischiamo di accorgercene solo quando sarà avvenuto”, nota D’Alema nell’articolo di Simone Pieranni per China Files[3], che oggi va riletto con attenzione. Come cambiano i tempi! Immaginate oggi, a soli dieci anni di distanza, il presidente del Copasir impegnato in un viaggio simile in Cina, con una forte attenzione per lo sviluppo tecnologico. Ogni due minuti, o forse ogni due secondi, arriverebbe una domanda su Huawei.

D’Alema Cina

L’interesse per la Cina, in ogni caso, non ha reso la questione cinese centrale negli altri libri di D’Alema. Per esempio, se prendiamo il libro-intervista del 2013, Controcorrente, non vi sono riferimenti significativi alla Cina. Assieme a elementi non più di attualità come Hollande e la “nuova stagione che si apre per i progressisti”, si torna invece in diverse parti sul rapporto con gli Stati Uniti.

Per esempio, è interessante un passaggio in cui D’Alema afferma: “Gli americani sono partner invadenti. Un atteggiamento che deriva loro dal fatto di essere i più forti. Però sono anche disposti a discutere con chi non è d’accordo. Quello che non accettano è che si cerchi di ingannarli e raggirarli. Se vai su questa strada si arrabbiano. In questo sono davvero moralisti. Se rispondi ‘no’ puoi avere con loro un’interlocuzione leale, ma lo deve essere davvero, perché per loro la lealtà è un punto di principio molto importante”[4]. Nel corso di quel libro, D’Alema ritorna a lungo sul suo rapporto con Condoleezza Rice e sulla politica “visionaria” degli Stati Uniti, che pure non condivide.

 

Capire la Cina

Ho letto con interesse il libro di Massimo D’Alema Grande è la confusione sotto il cielo. Riflessioni sulla crisi dell’ordine mondiale per una ragione semplice ma essenziale: D’Alema cita Étienne Balazs, un autore che adoro e che è molto importante per il mio libro Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina[5].

Balazs, di origine ungherese, è una figura di primo piano della sinologia francese del dopoguerra, in particolare dopo la morte di Marcel Granet nel 1940 e quella a Buchenwald di Henri Maspero nel 1945, una stagione drammatica di una grande tradizione di studi che meriterebbe un podcast di Alessandro Barbero. Balazs, oltre che nella sinologia, lascia un’impronta nella storia, anche attraverso la sua collaborazione con Fernand Braudel. L’idea forte di Balazs è la potenza – quasi, l’onnipotenza – della società burocratica cinese: non crede nel suo rovesciamento per via dello sviluppo industriale e dell’ideologia, ma nella sua capacità di adattamento. “La fede nello Stato e il potere assoluto della burocrazia sembrano costituire il vero denominatore comune dell’antico e del nuovo regime della Cina.”[6]. Per Balazs, la continuità della storia cinese, la “burocrazia celeste”, la prepara a giocare un ruolo di primo piano in un’era tecno-burocratica. La raccolta di testi di Balazs, La burocrazia celeste, viene pubblicata in italiano da Il Saggiatore nel 1971 con la traduzione di Renata Pisu. Il libro nel corso degli anni viene discusso con profondità da pochissimi, fuori dalla cerchia di studiosi della materia. Una felice eccezione è Luciano Pellicani. Ancora oggi, rimane un testo che trasmette una grande forza per capire alcune caratteristiche distintive della Cina.

Ha ragione da vendere, D’Alema, quando scrive che l’Occidente fatica a capire la Cina. E ha ragione a deridere le continue profezie del crollo economico cinese, smentite dalla storia: “Sul piano politico la Cina viene vista spesso come una variante del modello del totalitarismo sovietico senza comprendere nulla della complessità di quel sistema e delle radici che il modello politico cinese ha nella storia peculiare di una civiltà antica e straordinaria” (p. 27). Questo è un tema che si ritrova più volte anche negli scritti di Simon Leys, non certo un sostenitore del Partito Comunista Cinese: “La Cina ci obbliga costantemente a porre di nuovo in questione nozioni che, ingenuamente, credevamo dotate di una validità universale, portandoci a riconoscere che in realtà la loro sfera di applicazione era limitata al nostro universo culturale”[7].

Gli errori occidentali di valutazione sulla Cina sono stati enormi e costanti, negli ultimi trent’anni. Tra i decisori e tra gli studiosi. A questo proposito, c’è un bel passaggio del libro di Marta Dassù Mondo privato e altre storie, in cui si ricorda l’atmosfera del 1989 tra gli studiosi della Cina: “Era l’autunno del 1989 e avevamo organizzato un convegno a Palazzo Vecchio sul dissenso cinese. Erano passati pochi mesi dagli scontri di Piazza Tienanmen. In quel momento pensavamo entrambi, sbagliando, che l’evoluzione democratica della Cina sarebbe stata solo questione di tempo”[8]. Quando dice “entrambi”, Marta Dassù si riferisce a Tony Saich, grande studioso della Cina (e suo coautore), oggi direttore dell’Ash Center for Democratic Governance and Innovation e Daewoo Professor of International Affairs a Harvard. Sempre secondo il racconto di Dassù, qualcuno invece in quel frangente capisce tutto: si tratta di Gianni De Michelis. Nella sua interpretazione, non bisogna leggere Tienanmen mettendo al centro i dissidenti, ma concentrandosi sulla lotta tra l’ala riformista del Partito e quella che aveva capito in anticipo la lezione del crollo dell’Unione Sovietica: continuare la strada della crescita economica senza attuare riforme politiche significative.

I passaggi sulla Cina, oltre ad alcuni ricordi personali, costituiscono i punti che colpiscono di più del libro di D’Alema, che per il resto si muove nel solco della politica estera italiana, anche nei frequenti richiami a Mediterraneo e Africa. Sono i riferimenti che si ripropongono con una continuità obbligata, dettata dalla geografia, al di là della distinzione tra cosiddette “Repubbliche”. Da questo punto di vista, è interessante la corrispondenza tra Andreotti e Gheddafi, alla cui presentazione ha partecipato lo stesso D’Alema[9].

Un altro tema posto dal libro è il peso della questione sociale all’interno dell’attrazione della “formula occidentale” del mondo e dello stesso modello “visionario” americano. L’indebolimento dell’irradiazione occidentale paga fortemente, secondo D’Alema, le tensioni sociali e gli squilibri accumulati da Stati Uniti ed Europa. Ricorda le parole che gli ha rivolto Papa Giovanni Paolo II: “Ho combattuto per tutta la vita contro il comunismo, ma ora che il comunismo è caduto mi domando chi difenderà i poveri”.

All’interno della lettura dell’ordine mondiale in cui si muove D’Alema, la mancanza principale a mio avviso riguarda il peso politico e geopolitico della tecnologia. Sì, Amazon, Facebook, Google sono citati nel testo, dopo il Frammento delle macchine di Marx, ma soprattutto per le questioni fiscali. Non basta. Il nesso tra tecnologia e (dis)ordine mondiale oggi è molto più forte rispetto all’aspetto, pur importante ma non risolutivo, di quante tasse pagano i giganti digitali. Riguarda le discontinuità tecnologiche, le accelerazioni, le guerre sulla tecnologia, l’antitrust, la dimensione fisica della tecnologia. D’altra parte, una sensibilità per questi temi nella generazione di D’Alema si trova raramente. Una felice eccezione è Giuseppe Berta: il nostro maggiore studioso dell’automobile si è sempre confrontato con i giganti tecnologici e i loro progetti per le industrie tradizionali.

 

L’Italia e la Cina

Nel suo libro, D’Alema parla di “un’ambizione egemonica” da parte della Cina (p. 147), e anche a seguito del coronavirus afferma che, in un quadro multilaterale, l’Occidente deve considerare che “l’interlocutore primario è la Cina” (p. 26). Queste sue affermazioni hanno fatto discutere, generando il casus belli attorno al libro e alle uscite pubbliche di D’Alema. È un punto che a mio avviso merita attenzione, per decifrare i tempi in cui viviamo e vivremo. Anche perché sarà sempre più difficile avere un dibattito ragionato su questi temi in Italia.

Veramente oggi i rapporti tra Italia e Cina devono risolversi all’alternativa tra chi dice che la Cina ha vinto la terza guerra mondiale senza sparare un colpo e l’afflato anticinese che si ritiene fondato e legittimato dall’identità atlantica dell’Italia? La storia ci suggerisce altre direzioni per il rapporto bilaterale. Nell’impresa, nella politica, nella cultura. Ricordiamole, almeno con qualche breve cenno. Tali direzioni riguardano anche la storia della sinistra. Partiamo da una scena a Ginevra, nel 1952: l’incontro tra Dino Gentili e Zhou Enlai. Senza l’azione determinata di Gentili – primo europeo a intraprendere commerci con la Cina dopo la Seconda Guerra Mondiale, fervente socialista, grande amico di Nenni – le aziende italiane non avrebbero avuto un piede nella Repubblica Popolare[10]. Oggi non ricorda più nessuno questo incredibile personaggio. Di certo io non dimenticherò quella vicenda, perché una volta il mio maestro Guido Rossi mi ha raccontato di aver partecipato alle cene tra Gentili e Zhou Enlai, in cui lo storico premier cinese distillò enigmatiche perle di saggezza. Quando ho iniziato a interessarmi della Cina, tredici anni fa, ho quindi scoperto di avere un grado di separazione da Zhou Enlai, grazie a Dino Gentili.

Zhou Enlai

Di recente, il risveglio di interesse per i rapporti tra Roma e Pechino ha portato a indagare maggiormente le vicende degli italiani in Cina, come ha fatto per esempio Stefano Beltrame[11]. Oltre alle storie singole del passato e del presente da approfondire, forse la relazione più importante che investe l’Italia è quella tra il Vaticano e la Repubblica Popolare, che si fonda su profonde radici culturali e che è monitorata con attenzione e preoccupazione da Washington.

Vedremo se si concretizzerà, un giorno, in un viaggio del Papa a Pechino e nella foto del Pontefice in preghiera davanti alla tomba di Matteo Ricci a Pechino, vicino ai dignitari della “burocrazia celeste”.

Il mondo della pandemia ci fa porre direttamente e frequentemente la domanda per eccellenza: la Cina sta vincendo? Detta bruscamente, la risposta è no. In primo luogo, perché il concetto di “vittoria” è semplicistico. In secondo luogo, perché la credibilità di Pechino è stata intaccata e si inserisce in rapporti difficili e conflittuali con quasi tutti i suoi vicini più importanti. Troppo spesso dimentichiamo che, quando si avanza la prospettiva di un dialogo tra “Oriente” e “Occidente”, entrambi i dialoganti sono di difficile definizione. Si è allargato l’Atlantico, e si è allargato il divario di potenza e di valori tra gli Stati Uniti e gli europei. Dall’altro lato, non dobbiamo dimenticare – e lo dimentichiamo molto spesso – che l’Asia, per i popoli asiatici, non esiste. È un insieme di mercati, ma non è certo una qualche aggregazione politica. I dissidi tra le potenze asiatiche sono e saranno profondi. Il grande interesse per la Cina, anche nel nostro Paese, va sempre accompagnato dalla comprensione della Corea e del Giappone. Altrimenti si perdono troppi pezzi e si dà troppo credito alla materializzazione immediata di un “secolo cinese”. Se la Cina non sta vincendo, non è detto che stia vincendo necessariamente qualcun altro. Anche le dinamiche del conflitto tra Washington e Pechino non vanno viste solo con gli occhiali della cronaca, altrimenti pensiamo che un fine settimana, per una ruvida battuta del ministro degli esteri cinese, abbia vinto uno dei contendenti e in quello successivo, grazie a una puntuta dichiarazione del segretario di stato americano, abbia prevalso l’altro. Bisogna alimentare la consapevolezza storica, contro questa miopia dell’attualità.

In questa situazione complicata, l’Italia è emersa ed emergerà come una delle arene – non certo l’unica, non esageriamo – del conflitto tra Stati Uniti e Cina. Arena di investimenti, di influenza, anche di propaganda, come si è visto nella malriuscita attribuzione di canti di ringraziamento alla Cina da parte degli italiani sui balconi. E si è già visto anche nell’evidente controffensiva mediatica degli Stati Uniti che restano, ci piaccia o meno, il riferimento della sicurezza italiana. E che anche in questo frangente, per riprendere il D’Alema di Controcorrente, fanno e faranno pesare la loro forza.

In quest’epoca tempestosa, sappiamo alcune cose. Sappiamo per esempio che basare solo sul piano economico le relazioni tra Italia e Cina è sbagliato: nei commerci, i rapporti dell’Italia con gli altri paesi europei e con gli Stati Uniti sono molto più rilevanti e lo saranno ancor di più in un momento di riorganizzazione delle catene del valore. Inoltre, per la stessa Cina il rapporto con l’Italia è e sarà molto più rilevante sul piano strategico che su quello economico: tutto il contrario della logica esclusivamente economica con cui è stata raccontata l’anno scorso l’adesione italiana alla Belt and Road Initiative. Così la questione è vista da Pechino e da Washington, e così meriterebbe di essere affrontata e dibattuta con lucidità anche da noi, che altrimenti rischiamo di essere “intrappolati”[12]. Mentre il conflitto tra Stati Uniti e Cina avanzerà, sarà più difficile avere un vero dibattito nel nostro Paese, soprattutto quando scopriremo che lo spartito anticinese di Washington sarà suonato, al di là di differenze stilistiche, anche dai Democratici.


[1] “Sono un vecchio amico della Cina”, La Stampa, 13 novembre 2006.

[2] Si veda C. Galzerano, “L’ala ‘filo-cinese’ del Pci (1970-1980). Conflitti all’interno del partito e sulle pagine de ‘l’Unità’”, Pandora Rivista, 24 dicembre 2018.

[3] S. Pieranni, “D’Alema a Pechino: la Cina è già cambiata”, China Files, 20 giugno 2010. Sulla Cina e l’innovazione, si veda ora S. Pieranni, Red Mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina, Laterza, Roma-Bari 2020.

[4] M. D’Alema, Controcorrente. Intervista sulla sinistra al tempo dell’antipolitica, a cura di P. Caldarola, Laterza, Roma-Bari 2013.

[5] L. Mesini, “‘Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina’ di Alessandro Aresu”, Pandora Rivista, 4 aprile 2020.

[6] É. Balazs, La burocrazia celeste, trad. it., il Saggiatore, Milano 1971, p. 244.

[7] S. Leys, L’angelo e il capodoglio, Irradiazioni, Roma 2005, p. 42.

[8] M. Dassù, Mondo privato e altre storie, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, p. 37.

[9] Si veda Andreotti e Gheddafi. Lettere e documenti 1983-2006, a cura di M. Bucarelli, Luca Micheletta, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2019. L’intervento di D’Alema del 5 febbraio 2020 è disponibile su Radio Radicale. Sulla questione mediterranea nella storia della politica estera italiana rimando anche alle osservazioni in A.Aresu, L. Gori, L’interesse nazionale. La bussola dell’Italia, Bologna, il Mulino 2018.

[10] Su Gentili si vedano le testimonianze di Tra politica e impresa: vita di Dino Gentili, Passigli, Firenze 1988.

[11] S. Beltrame, Breve storia degli italiani in Cina, Luiss University Press, Roma 2019.

[12] Si veda A. Aresu, “Come non restare intrappolati nello scontro tra Usa e Cina”, Limesonline, 30 aprile 2020.

Scritto da
Alessandro Aresu

Laureato in Filosofia del diritto con Guido Rossi all’Università San Raffaele di Milano, è consigliere scientifico di «Limes» e collabora con varie riviste. È stato consulente e dirigente di diverse Istituzioni, tra cui la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero dell’Economia e delle Finanze. Tra le sue numerose pubblicazioni: “Il dominio del XXI secolo. Cina, Stati Uniti e la guerra invisibile sulla tecnologia” (Feltrinelli 2022), “I cancelli del cielo. Economia e politica della grande corsa allo spazio. 1950-2050” (con Raffaele Mauro, Luiss University Press 2022), “Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina” (La Nave di Teseo 2020) e “L’interesse nazionale. La bussola dell’Italia” (con Luca Gori, il Mulino 2018).

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