Scritto da Alfonso Musci
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Nel 2019 è tornata disponibile in libreria per Einaudi La fine del mondo di Ernesto De Martino (a cura di Giordana Charuty, Daniel Fabre e Marcello Massenzio). È la traduzione dell’edizione francese (2016) che ha avuto tante ristampe e ora è finalmente leggibile in italiano. Singolare esempio di ostinata sfortuna di un’opera a causa del nostro provincialismo culturale. La prima edizione è del 1977 (a cura di Clara Gallini). Allora convinse pochi (tra questi in casa Einaudi Carlo Ginzburg) e trovò molte opposizioni, perché ricadente fuori dallo schema “subalternità” – “marginalità” – “folklore” di derivazione gramsciana, che aveva caratterizzato e fissato l’opera di De Martino come “meridionalista” tra interpreti e lettori italiani. Poi, nel 2002, lo storico delle religioni Marcello Massenzio convincerà la marxista Clara Gallini a ritirare la sua introduzione-profilassi del 1977 e a pubblicarne una nuova a quattro mani. Da qui comincia il “giro lungo” oltralpe come “via breve” per tornare a casa e ristabilire l’integrità e la continuità del pensiero di De Martino. Molto si potrebbe dire di quest’opera incompiuta. L’autore moriva nel 1965, un anno prima pubblicava su «Nuovi Argomenti» di Moravia e Pasolini uno studio su Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche, una chiave di lettura importante per gli appunti sulla “fine del mondo”.
A Cesare Cases (aneddoto riferito varie volte da Massenzio) che era andato a fargli visita poco prima del trapasso domandandogli cosa significasse “fine del mondo” De Martino rispondeva: «fine del nostro mondo», non del mondo terrestre a seguito di catastrofe nucleare, ambientale, cosmica, ma del nostro essere europei e moderni. Nostro mondo? Il mondo occidentale e i suoi valori, centrati sull’autonomia della persona. La differenza cruciale tra le apocalissi culturali e le apocalissi psicopatologiche delineata da De Martino è la seguente: le prime sono culturalmente e eticamente elaborate e prospettano una possibilità programmatica di futuro oltre la fine (eschaton progressivo). Le seconde escludono ogni speranza di futuro e sono prive di elaborazione culturale, sono morbose e patologiche. Tra le apocalissi culturali De Martino include quelle giudaico-cristiane, la parusía (la seconda venuta di Cristo prevista dai Vangeli), occasione concreta per evitare la fine del mondo: l’Anticristo. Oltre i Vangeli balzano poi ai suoi occhi le profezie africane che accompagnano le speranze di decolonizzazione del terzo mondo tra Otto e Novecento e infine Marx, sommo esempio di apocalisse programmata e consapevole, fortemente influenzata dal messianesimo ebraico e degnamente inserita nell’umanesimo occidentale. La diagnosi di De Martino sul secondo Novecento è invece impietosa.
Nel dopoguerra l’apocalittica contemporanea diviene gradualmente sempre meno culturale e sempre più psicopatologica. Per questo egli rivolge la sua analisi, oltre che all’arte, alla letteratura della crisi, tedesca, spagnola, francese. Soprattutto a La nausea di Sartre ma anche a La noia di Moravia, a Beckett, Orwell, Camus, Ionesco. De Martino vede in questi autori e nelle loro opere la trascrizione di un processo profondo di disfacimento dell’individuo occidentale che intacca tutto l’umanesimo tradizionale, marxismo compreso. Ecco cos’è la “fine del mondo”, la “fine del nostro mondo” (si disfano i valori, si ammalano gli oggetti). La questione è aperta, complessa e non può essere né riassunta né risolta qui. Se penso a un capitolo dell’apocalisse contemporanea come psicopatologia, come caduta di un mondo che ha perso la sua “domesticità” (fine che De Martino non ha potuto vedere) mi viene in mente l’89, la caduta del muro di Berlino e la fine del movimento operaio socialista, compresa la dissoluzione del PCI italiano e in generale dei grandi partiti di massa, che a quel muro credevano o a quel muro si opponevano (è prezioso a tal proposito il concetto elaborato da Ernesto Balducci di “provvidenza” ideologica del socialismo reale per l’intero mondo occidentale).
In questo caso c’è il passaggio singolare, nello stesso corpo, da un’apocalittica culturale (pensiamo all’umanesimo storicista del PCI di Togliatti e Berlinguer – ma il discorso potrebbe valere anche per il romanticismo e l’azionismo politico del PSI di Nenni e Lombardi o per la DC “teologica” di Moro –) a un’apocalittica psicopatologica. La crisi della presenza che ha colto di sorpresa milioni di elettori e militanti, caduti in uno stato di profonda dispersione e perdita di “domesticità” del proprio mondo. A questo senso profondo di estraneità, di spaesamento cronico non è stata data ancora una risposta politica esplicita e adeguata.
Eppure qualcosa è accaduto fuori dal campo della politica strictu sensu e della militanza organizzata. Pensiamo a Papa Bergoglio o a Greta Thunberg. Le loro profezie della parola, alla luce degli eventi in corso (crisi ambientale, migratoria e pandemica), assomigliano a nuove “apocalissi culturali”. In esse l’orizzonte distopico della distruzione del mondo, le rovine climatiche, demografiche, sociali, ambientali attivano e mobilitano l’impegno, la ricerca di politica e di speranza. Rendono possibili idee di futuro per le nuove generazioni. Questa è la base da cui ripartire.
La pandemia in corso, se ben esaminata e tradotta politicamente potrebbe rappresentare una delle possibili vie d’uscita da quell’interminabile “apocalisse psicopatologica” o “fine del mondo” contemporaneo cui sembriamo perennemente destinati. È singolare che sia una crisi globale sanitaria, economica e sociale di queste dimensioni (una concreta minaccia di “finimondo”) a schiudere un nuovo principio di speranza. Le sinistre, in Italia e in Europa, devono interrogarsi profondamente, prendere atto di questo movimento di fondo della mentalità contemporanea e provare ad elaborare una complessiva strategia culturale e politica (verrebbe da dire un’antropologia), che sia all’altezza dei tempi, per evitare il proporsi e il riprodursi nell’avvenire di conflitti settoriali, ideologici o corporativi che l’assenza di un principio di speranza politica ha sin qui fatto lievitare.