Dalla Great Resignation ad una nuova retention: ripensare l’organizzazione aziendale
- 18 Aprile 2023

Dalla Great Resignation ad una nuova retention: ripensare l’organizzazione aziendale

Scritto da Luca La Cava

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È stato Anthony Klotz, professore presso la Mays Business School della Texas A&M University, a coniare per la prima volta l’espressione Great Resignation, indicando con essa l’eccezionale aumento del numero di dimissioni volontarie che ha interessato gli Stati Uniti a partire dal 2021. Non solo gli Stati Uniti, tuttavia: le dimissioni di massa hanno infatti cominciato a manifestarsi in un numero sempre maggiore di aree del globo, divenendo in breve un fenomeno di portata collettiva. In Italia, secondo l’Associazione Italiana Direzione Personale (Aidp), le Grandi dimissioni sono giunte a riguardare circa il 60% delle aziende, coinvolgendo principalmente la fascia di età che va dai 26 ai 35 anni, e a seguire coloro che hanno tra i 36 e i 45 anni[1]. Le posizioni in crisi, nel nostro specifico caso nazionale, riguardano principalmente il settore informatico, quello digitale, del marketing e delle vendite, posti enormemente sotto stress in occasione della pandemia di Covid-19. Di fronte a numeri eloquenti – 1 americano su 4 si è licenziato nel periodo che va da aprile a settembre 2021, in Italia circa 306.710 persone hanno lasciato il lavoro nel primo trimestre del 2022[2] –, è diventato urgente interrogarsi sulla natura di un fenomeno che va ben oltre la tematica dei livelli salariali. La Great Resignation nasconde di fondo una preoccupante crisi di senso del lavoro, che necessita di essere esaminata con obiettività ed evitando di porgere orecchio a certe interpretazioni radicate o insidiose. Bisogna innanzitutto avere chiaro che, nel contesto del fenomeno delle Grandi dimissioni, le persone spesso non vogliono semplicemente lavorare poco o di meno, piuttosto desiderano ricercare una soddisfazione che vada al di là degli aspetti economici o del successo professionale.

Le Grandi dimissioni sono arrivate in un periodo in cui una pandemia mondiale ci ha costretto a fermarci e a riflettere, come forse mai era accaduto in precedenza in questo primo ventennio del XXI secolo. La conseguenza è stata l’inizio di un importante dibattito sul work-life balance, dal quale emergono insoddisfazioni relative ai contesti lavorativi e ai bisogni personali dei lavoratori, e soprattutto alla capacità dei primi di soddisfare i secondi. Se la frenesia delle nostre attività lavorative conduce ad abbandonare il lavoro, diventa opportuno avviare una riflessione su ciò che ci renderebbe più soddisfatti oggi o in futuro. Su questo si è pronunciato con lungimiranza l’antropologo David Graeber in Bullshit Jobs[3], affermando che se non troviamo un senso in ciò che facciamo nel quotidiano, la nostra stessa identità si svuota di significato. Ecco, dunque, che con le Grandi dimissioni ci troviamo davanti a persone che sperimentano la sensazione di trovarsi a bordo di una nave senza timoniere, di una macchina priva di freni. Partendo da queste premesse, si cercherà qui di seguito di compiere un’analisi oggettiva della Great Resignation, articolando la trattazione in tre parti: una prima incentrata sulle origini delle Grandi dimissioni e sul ruolo giocato dall’emergenza da Covid-19; una seconda su alcune modalità attraverso cui si esprime il fenomeno in questione e un’ultima sulle possibili soluzioni da poter implementare per ripensare i modelli aziendali e stimolare nuove e benefiche forme di retention negli ambienti di lavoro, alla luce anche della lotta al cambiamento climatico.

 

All’origine della Great Resignation: un fenomeno antecedente alla pandemia

Dagli anni Novanta a oggi vi è stata un’enorme intensificazione della quantità di lavoro a cui ci dedichiamo: secondo un’indagine riportata sul Financial Times, la percentuale di dipendenti che riferiscono di lavorare duramente è salita dal 30% del 1992 al 46% del 2017[4]. Spostandoci tre anni più avanti, il trend delle Grandi dimissioni, come sostiene Roberto Paura, presidente dell’Italian Institute for the Future (IIF), non è stato effettivamente innescato dalla pandemia, momento, quest’ultimo, in cui la retorica del “lavoro duro” comincia con forza ad essere messa in discussione: «se vediamo il tasso di dimissioni volontarie sul lungo termine, a partire dagli anni Novanta, ci rendiamo conto che esisteva una crescita importante di questo tasso di dimissioni volontarie a partire dal 2008, dall’anno in cui si è innescata la grande recessione. Questo tasso ha avuto un crollo ovviamente nel 2020, quando il mercato del lavoro è stato congelato dal lockdown, per poi ripartire più velocemente nel 2021»[5], spiega Paura. La pandemia da Covid-19 ha poi contribuito ad aggravare i numeri, avendo determinato la perdita di numerosi posti di lavoro: «nel periodo del grande lockdown», continua Paura, «il 40% delle persone che hanno perso il lavoro, il numero più alto dal dopoguerra a oggi, prendeva di più con i sussidi di disoccupazione rispetto al lavoro che svolgeva prima»[6]. Nel quadro già di per sé complesso della pandemia s’inseriscono inoltre i processi di automazione del lavoro: secondo il rapporto dell’IIF, circa il 54% dei lavori in Europa è sostituibile dalle macchine[7].

Le Grandi dimissioni in Italia hanno anche reso evidente il divario economico e culturale che corre tra i cosiddetti baby boomer, spesso ricoprenti posizioni apicali all’interno delle aziende, i millennial e la generazione Z. É proprio tra le fila dei baby boomer che ha attecchito quella retorica del “duro lavoro” che le Grandi dimissioni mettono in discussione. Quest’ultima, impostasi a partire dalla seconda metà del Novecento, affonda in realtà le proprie radici in un’epoca più remota, quella della dottrina calvinista, dove la dedizione incondizionata al lavoro e alla vita frugale erano considerate dimostrazioni della predestinazione alla salvezza eterna, in opposizione all’ozio, simbolo del peccato e della dannazione. Ora però sembra ci si stia affrancando dalla visione di un “duro lavoro” portato avanti in nome della retribuzione, del riconoscimento del successo o dell’ottenimento di stima da parte dei superiori: l’attività professionale diventa solo una tra le molte variabili coinvolte nella realizzazione personale.

 

Un fenomeno, diverse espressioni

Dal downshifting al quiet quitting, diverse sono le modalità attraverso le quali i dipendenti si stanno orientando ad un futuro professionale più “umano”. Se il welfare aziendale a volte viene immaginato come una possibile soluzione alla sempre più allarmante emorragia di posti di lavoro innescata dalle Grandi dimissioni, esso non è comunque in grado di configurarsi sempre come la soluzione più consona. Dopo la pandemia il ricorso al welfare è aumentato per venire incontro alle difficoltà economiche e sociali dei lavoratori. Rimborsi sulle spese sanitarie sostenute (si pensi ai tamponi pagati dalle aziende), fornitura di dispositivi di prevenzione (mascherine in primis) e altri tipi di benefit sono esempi di come molte organizzazioni provvedono in tal senso, ma vanno in questa direzione anche iniziative ricreative come l’introduzione sui luoghi di lavoro di aree benessere e relax[8]. É importante tuttavia comprendere che poco conta se un’azienda dota i propri dipendenti di sale yoga o a scopo ricreativo se viene trascurata l’esperienza emotiva all’interno del contesto lavorativo: il rischio, in questo caso, è quello di incorrere in pratiche di well-being washing, in cui una serie di iniziative messe in campo dall’azienda fanno apparire il benessere dei dipendenti una priorità, raggirando tuttavia cambiamenti sistematici che realmente potrebbero fare la differenza in termini di well-being, determinando ricadute anche pesanti sulle brand reputation e loyalty aziendali.

Come reagiscono i lavoratori? Due risposte finite in particolar modo sotto i riflettori sono appunto il downshifting e il quiet quitting. Il downshifting, termine coniato dal Trends Research Institute di New York nel 1994, è quel comportamento secondo cui un dipendente decide di rinunciare ad una carriera economicamente soddisfacente ma stressante per abbracciare scelte di vita magari meno vantaggiose in termini di retribuzione ma più gratificanti. Sposando la filosofia del “less is more”, il downshifting si pone come risposta a ritmi di lavoro spesso insostenibili, capaci di trasformare la routine quotidiana in una prigione, ergendo la semplicità quale criterio orientativo delle scelte lavorative e spezzando il circolo “lavoro-produco-guadagno-pago-consumo” attraverso una nuova prioritizzazione del tempo e del benessere complessivo dell’individuo. Il trade-off, dunque, è tra una carriera di successo e un senso di appagamento più generale.

Ad affiancare la tendenza del downshifting è il quiet quitting. Tradotta come “abbandono silenzioso”, questa espressione nasce da un video su TikTok realizzato nel luglio 2022 da un ingegnere di 24 anni di New York, Zaid Khan, e indica il disimpegno dal lavoro, dalla reperibilità h24 e dalla dedizione totale all’attività lavorativa, per ricercare invece un impegno commisurato a ciò che è necessario. Il quiet quitting nasce dal basso, più precisamente tra le fila dei millennial e della generazione Z, e si contrappone in questo caso a quella hustle culture che, facendo leva sul concetto di performance, incita ciascuno a mettere al primo posto il lavoro e la produttività continua.

 

Ripensare i modelli aziendali per una nuova retention e un futuro sostenibile

Le Grandi dimissioni sembrano ormai urlare a gran voce che il tempo personale ha più peso del successo e della carriera, e potrebbero tradursi in un trend irreversibile perché ad essere cambiate sono le prospettive individuali, in particolare a seguito di una pandemia che ci ha spinto a interrogarci sulle nostre scelte e priorità. Si rendono necessari nuovi modi per intercettare bisogni che sono cambiati, alla luce di nuove consapevolezze da integrare all’interno delle culture aziendali, variabile imprescindibile per generare forme di retention efficaci sul lungo periodo. Si tratti di un cambiamento lento e graduale, che vede come punto di arrivo un tipo di organizzazione aziendale in cui si realizza una piena valorizzazione delle potenzialità umane, e che in realtà viene già adottato da alcuni pionieri nel mondo del lavoro. Tale modello, ribattezzato dall’ex consulente McKinsey di sistemi sociali e organizzativi Frederic Laloux “Teal[9], avrebbe già cominciato a trovare diffusione da quattro anni a questa parte, e si può realizzare solo qualora i luoghi del lavoro vengano concepiti alla pari di organismi viventi, in grado di adattarsi, migliorare e auto-organizzarsi. Il modello Teal considera le persone nella loro interezza, intendendole come somma di identità e capacità, e rende l’azienda abile nel perseguimento di uno scopo collettivo e più “umana”[10]. Esempi simili si trovano in organizzazioni come Morningstar, Budzorg, Patagonia e Zappos[11]. Ci sono poi aziende che introducono all’interno del proprio organico la figura del Chief Happiness Officer – in Italia ne esistono già 250 –, il cui compito è quello di favorire la crescita professionale, culturale e umana del personale. O ancora, c’è il caso di McEntire Produce, azienda alimentare statunitense con 600 dipendenti e 170 milioni di dollari di fatturato che ha previsto la figura di un manager il cui compito consiste nel persuadere i dipendenti a non licenziarsi[12].

Una nuova retention è il prodotto di un’attenzione riposta nei confronti del tema dello “stipendio emotivo” del lavoratore, una forma di remunerazione che poggia i piedi su elementi quali la cura dell’ambiente di lavoro, utile a far sentire i dipendenti inseriti all’interno di un luogo accogliente e confortevole, e anche l’attenzione nei confronti dello sviluppo personale e professionale, ad esempio tramite l’accesso a corsi di formazione e perfezionamento che consentano la valorizzazione del potenziale individuale. Tutti fattori che costituiscono un patrimonio non monetario su cui le aziende sono chiamate a interrogarsi e ad investire con maggior solerzia. Parimenti, scrupolose attenzioni vanno rivolte al tema del life-work balance, per garantire una flessibilità tale da consentire alle risorse interne all’organizzazione di occuparsi agevolmente e con la dovuta cura della propria vita privata, o a quello dell’autonomia decisionale, in quanto coinvolgere il dipendente nel processo delle decisioni lo spinge a sentirsi “parte di qualcosa”: un contesto, un’azienda, un progetto lato sensu. Anche se può essere faticoso, cambiare mindset all’interno di un contesto aziendale è possibile, e si tradurrebbe in una serie di benefici non soltanto a favore del dipendente. Se infatti la motivazione e la fidelizzazione di quest’ultimo nei confronti all’impresa si vedrebbero incentivate, insieme alla produttività dell’azienda stessa, tenendo sotto controlli fenomeni come l’assenteismo, le dimissioni e il conseguente turnover del personale, restituire al lavoratore maggiore spazio per sé contribuirebbe al superamento di una retorica improntata alla produzione e al consumo ad oltranza, generando concreti benefici in termini di sostenibilità ambientale. Sebbene la Great Resignation rivendichi l’importanza del tempo presente, essa non può esularsi dal chiamare in causa tematiche quali l’emergenza climatica, lo sviluppo sostenibile e la circular economy, nonché il futuro stesso della nostra collettività.


[1] Gianni Rusconi, “Great resignation”: perché è un fenomeno in crescita e come rallentarla, «Il Sole 24 Ore», 20 aprile 2022.

[2] Dati dell’Osservatorio sul precariato dell’Inps, consultabili al seguente link.

[3] David Graeber, Bullshit Jobs, Garzanti, Milano 2018.

[4] Luca Angelini, Perché Keynes si sbagliava e noi lavoriamo sempre più sodo, «Corriere della Sera», 15 giugno 2022.

[5] ASviS Italia, Paura: “In Europa il 54% dei lavori è sostituibile dall’automazione” – Futura Network, YouTube, 12 luglio 2022.

[6] Si rimanda al precedente video a cura di ASviS Italia. Paura spiega anche che un’ampia parte del turnover determinato dal Covid-19 ha interessato lavori a basso rendimento e produttività, di facile sostituibilità e afferenti prevalentemente ai settori della ristorazione, sanitario e informatico. Si parla quindi di mansioni ad alto tasso di precarietà, o in certi casi di veri e propri “bullshit jobs”, il cui obiettivo è primariamente quello di tenere semplicemente occupate le persone.

[7] Si faccia riferimento all’analisi di Roberto Paura a cura di ASviS Italia.

[8] Lo smart working non è un benefit in senso proprio, ma piuttosto uno strumento che, se associato a misure di welfare aziendale, può stimolare un sano equilibrio tra vita privata e vita professionale. Nel sistema di welfare aziendale, inoltre, si inseriscono misure quali promozioni e premi che si pongono come riconoscimenti a seguito del soddisfacimento di una data performance da parte del dipendente.

[9] Si rimanda a Frederic Laloux, Reinventing Organizations. A Guide to Creating Organizations Inspired by the Next Stage in Human Consciousness, Nelson Parker, 2014. Edizione italiana: Frederic Laloux, Reinventare le organizzazioni, Guerini Next, Milano 2016 / 2022. Laloux spiega che le forme organizzative che creiamo sono fondamentalmente figlie del nostro modo di pensare, vedere e governare il mondo, sulla base di un approccio psico-antropologico che identifica cinque stadi evolutivi della vita organizzata, ciascuna identificata con un colore (red, amber, orange, green, teal). La tesi di fondo di Laloux è che le aziende dovrebbero capaci di svilupparsi ed essere consapevoli dei bisogni emergenti all’interno dell’organizzazione, così da puntare primariamente alla prosperità degli individui, piuttosto che a quella delle attività (e quindi all’incremento della ricchezza).

[10] Un tale modalità organizzativa corrisponde al livello di autorealizzazione secondo la piramide di Maslow, dove le necessità umane sono disposte secondo una gerarchia in cui il soddisfacimento dei bisogni di livello superiore non si può realizzare senza previamente aver soddisfatto quelli collocati più in basso.

[11] Per citare uno di questi casi, Zappos è una società online di e-commerce la cui cultura è improntata al principio del dare priorità al cliente e al benessere del personale, come specificato nel manifesto dei valori dell’azienda.

[12] Altre aziende hanno seguito strade che potremmo definire più “tradizionali”: recentemente Amazon ha deciso di premiare i dipendenti con bonus fino a 3.000 sterline in occasione del Natale, mentre Walmart ha aumentato il salario minimo a 12 dollari l’ora, una soglia piuttosto al di là dell’asticella federale di 7,25 dollari. Google ha invece puntato sulla formazione del personale mettendo a disposizione un corso online di analisi dei dati.

Scritto da
Luca La Cava

Nato a Reggio Calabria nel 1996. Dottore triennale in Scienze politiche presso l’Università della Calabria con una tesi in Sociologia generale dal titolo “Forme di aggregazione e disaggregazione sociale. Un itinerario sociologico”, dottore magistrale in Relazioni internazionali all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, appassionato di temi sociali, filosofici, psicologici e culturali. Ha conseguito un Executive Master in Organizzazione e Sviluppo delle Risorse Umane presso la GEMA Business School.

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