De Martino e Pasolini: due idee antitetiche di “popolo”
- 08 Giugno 2023

De Martino e Pasolini: due idee antitetiche di “popolo”

Scritto da Enrico Raugi

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È fatto noto che il Pier Paolo Pasolini cineasta trasse ispirazione dalla storia dell’arte per traslarla nell’opera filmica. Cruciale fu, per l’educazione estetica del registra, la formazione a Bologna con il grande storico e critico d’arte Roberto Longhi. Difatti, nella vicenda cinematografica pasoliniana non si ritrovano solo le celeberrime analogie tra alcune scene de La ricotta (1963) e la Deposizione di Rosso Fiorentino (1521), oppure il contestato – dallo stesso Pasolini – rimando fra il Cristo morto del Mantegna (1478) e la morte del giovane Ettore nel film Mamma Roma (1962). In essa – su di un piano certo meno evidente ma altrettanto significativo –, prende corpo la straniante sinonimia dei volti di donne e uomini che Pasolini osservava nei quadri del Manierismo o del Rinascimento con quel popolo delle borgate, che poi sarebbe stato chiamato a recitare sul set. Il regista ebbe una cura meticolosa nella ricerca, all’interno della borgata, di quei volti che nel passato avevano vissuto e che il tempo aveva, in un modo o nell’altro, riprodotto. Quei visi altamente espressivi, scavati dagli stenti della vita e del lavoro, erano nel pensiero di Pasolini le ultime vestigia di un mondo originario, puro e sincero, che sopravviveva ancora nella periferia romana, ma che il capitalismo rampante non avrebbe tardato a corrompere e omologare, come, del resto, già aveva fatto con i piccolo-borghesi che abitavano la città.

Quel gran teatro di personaggi che entra in scena nelle pellicole dell’intellettuale friulano ha il pregio di prestare il fianco a una riflessione di carattere comparativo. In quale rapporto sta il popolo messo in scena da Pasolini nei romanzi e nei film con quello studiato nel Mezzogiorno d’Italia dall’etnologo Ernesto de Martino[1]? La riflessione che emerge dalla messa in comunicazione dei due intellettuali è nei termini di una declinazione antitetica del medesimo oggetto di studio, ossia il popolo: sottoproletario e urbano quello di Pasolini, agreste e apparentemente fuori dalla storia quello di de Martino.

Se nell’esercizio poetico Pasolini dà fondo a un’analisi introspettiva e personale degli eventi della sua biografia – basti pensare al rapporto con il dialetto friulano nei versi di Poesie a Casarsa, o a quelli di Poesia in forma di rosa, dove l’indagine si sposta sul suo rapporto con la madre –, nella narrazione e nel cinema egli si mette invece in contatto diretto con la realtà che lo circonda. Pasolini scende nelle borgate di Pietralata o del Pigneto, parla, si fa istruire al dialetto, vive con questi uomini che la metropoli ha spinto ai margini. Questo è per lui un mondo altro che è rimasto escluso dalla cosiddetta “rivoluzione antropologica” generata dal consumismo: in borgata vive uno strato sociale ancora puro, ingenuo e in qualche modo portatore di valori ancora umani, tutt’altro che mercificati. In Accattone (1961) risalta in modo netto il contrasto fra centro e periferia. In una scena del film, Accattone, per dimostrare il suo amore (rivelatosi poi falso), porta Stella nella campagna desolata che delimita la città: qua si baciano, mentre, sullo sfondo, minacciosi e omologati, si ergono i palazzi delle case popolari della periferia romana. Due realtà diverse e volutamente ben distinte. Accattone e Stella appartengono a un ambiente atipico, ancora non conoscono i valori della civiltà urbana e consumistica, che per questo motivo restano sullo sfondo di un ignoto orizzonte. D’altra parte, vi è una realtà che Pasolini non nasconde ma che nei fatti smonta la sua esaltazione verso un popolo autentico, portatore di tradizioni antiche. Le condizioni di miseria ed emarginazione conducono gli uomini del sottoproletariato ad introiettare gli aspetti più volgari della società a cui non possono prendere parte: la violenza e la ricerca del denaro. Si rimanda ancora al protagonista di Accattone, che, nella sua totale idiosincrasia per il lavoro, cerca di vivere sfruttando quello altrui, e difatti riesce – marxianamente – a reificare il corpo di Stella facendola prostituire. Ancora, è la violenza più barbarica a caratterizzare le gesta dei giovani protagonisti di Ragazzi di vita (1955) e di Una vita violenta (1959). Niente di più lontano dall’ancestrale modo di vivere dei pastori friulani tanto cari al regista. Quella borgatara è nei fatti un’umanità che ha perduto le proprie radici culturali. Non è mondo omologato e urbano, non è isola di un’antica tradizione contadina che resiste alle spinte del progresso.

Da parte sua, Ernesto de Martino realizza, a cavallo fra anni Cinquanta e Sessanta, diverse spedizioni etnografiche in Lucania e nelle frazioni più arretrate della Puglia con lo scopo di dare una spiegazione alla persistenza dei riti magici in alcune sacche del tessuto sociale del Mezzogiorno italiano. Diversamente dalla classe politica e intellettuale dell’epoca, che bollava come arcaica e ignorante una tale sopravvivenza, de Martino ne fornisce un’interpretazione tutta razionale. Il problema nasce dal contesto sociale in cui quei cittadini vivono. La miseria e la fatica che caratterizzano un’economia agricola arretrata, la carenza di forme di assistenza statali, la totale mancanza di prospettive di riscatto sociale per il futuro e la precarietà della vita di fronte a un ambiente naturale ostile sono condizioni che favoriscono la stagnazione dei riti magici. Perché? De Martino spiega il radicamento della magia e dei riti di sincretismo religioso definendoli come dispositivi psicologici per rispondere, in assenza di mezzi tecnologici e cultura scientifica, agli scacchi della vita. Il rito avrebbe infatti una funzione protettiva in quanto in grado di far confluire tutto ciò che di negativo si manifesta nel presente in un piano alternativo, metastorico, permettendo di «stare nella storia come se non ci si fosse»[2]. La magia, in ultima analisi, sarebbe un costrutto psicologico incaricato di proteggere l’io dalle avversità altrimenti inspiegabili della vita. Siffatta condizione viene denominata dall’etnologo napoletano «crisi della presenza» di fronte al negativo con cui l’ambiente, la mancanza di servizi, l’aridità dei rapporti sociali e, in generale, la precarietà delle condizioni di vita, sistematicamente, mortificano l’uomo. De Martino chiarisce in questi termini la funzione necessaria della magia per quelle società:

La protezione magica, […], si effettua mercé l’istituzione di un piano metastorico che assolve a due distinte funzioni protettive. Innanzi tutto tale piano fonda un orizzonte rappresentativo stabile e tradizionalizzato nel quale la verità rischiosa delle possibili crisi individuali trova il suo momento di arresto, di configurazione, di unificazione e di reintegrazione culturali. Al tempo stesso il piano metastorico funziona come luogo di «destorificazione» del divenire, cioè come luogo in cui, mediante la iterazione di identici modelli operativi, può essere di volta in volta riassorbita la proliferazione storica dell’accadere […]: infatti sul piano metastorico della magia tutte le gravidanze sono condotte felicemente a termine, tutti i neonati sono vivi e vitali, […], tutte le malattie guariscono, tutte le prospettive incerte si definiscono, e così via, proprio all’opposto di ciò che accade nella storia[3].

Rinunciare al costrutto magico in assenza di un sostituto “scientifico” significa cadere in uno stato di disperazione catatonica, significa cessare di controllare il proprio corpo: esso sarebbe agito. Le forme manifeste di questi disturbi sono le convulsioni, la spersonalizzazione, l’allucinazione psichica, il delirio. In un contesto dove le forme della vita sono labili, il rituale consente a chi cade in crisi di uscirne addomesticando il disturbo, riconducendolo a un orizzonte metastorico – ma psicologicamente necessario – in cui tutto è già avvenuto, tutto è già conosciuto, quindi tutto è risolvibile. La riflessione di de Martino, motivando come necessità ontologica – e pertanto degna di essere spiegata – l’apparente irrazionalità della magia, smontò la narrazione tradizionale del mondo contadino letto come un’irrazionale terra del mito e dell’eterno ritorno, così come lo descrisse Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli (1945). Le condizioni di vita delle campagne del Mezzogiorno erano tutto il contrario, e rinviavano piuttosto a drammi storici e a meccanismi di risposta psicologica osservabili, decifrabili e razionali, se rapportati al contesto; non averli compresi e anzi criticati con alterigia dimostrava un «limite umanistico» degli intellettuali dell’epoca[4].

Alla luce di queste evidenze, ponendo a confronto serrato i due autori, si potrebbe affermare, in modo un po’ provocatorio, che Pasolini, diversamente da de Martino, nella sua difesa del popolo autentico – e pur nella sua affinità alla critica francofortese –, ha dimostrato un atteggiamento assolutamente borghese ed elitario[5]. Infatti, se Pasolini da un lato si pone come il critico intransigente della borghesia, dall’altro tende a vedere gli stili di vita arcaica dei contadini immigrati nelle grandi città come un bene da mettere sotto formaldeide o da conservare protetto in una teca. La lode nei confronti della bellezza di un popolo puro, non contaminato dal consumismo, lo porta a disprezzare quella ricerca del benessere che quelle classi sociali andavano perseguendo in quegli anni: l’acqua calda, il gas e i mobili di plastica negli appartamenti costruiti col calcestruzzo, l’istruzione scolastica per i figli, lo stipendio fisso, la partecipazione politica[6]. Paradossalmente, Pasolini, sebbene in buona fede, sposa de facto i requisiti e le regole del conformismo proprie delle élite, guardando con disprezzo l’avvicinamento delle masse popolari al benessere. Pasolini – non si discute – nelle sue prime raccolte poetiche narrò con intensa partecipazione emotiva e con pathos sognante la vicenda umana del popolo friulano; l’utilizzo del dialetto, tuttavia, è l’unica forma espressiva con cui l’intellettuale si mostra sinceramente sodale coi suoi conterranei, per il resto è una certa forma di estetismo o di contemplazione incantata a dominare i versi di Poesie a Casarsa o dell’Usignolo della Chiesa Cattolica. Tale narrazione evidenzia, sottotraccia, il piedistallo – e la distanza incolmabile – dal quale il poeta, quasi fosse uno scienziato in laboratorio, osservava i suoi contadini, ridotti a nient’altro che elemento pittoresco, a massa incapace di sviluppare una coscienza di classe. In un noto saggio critico, Alberto Asor Rosa, indossando le lenti con cui Pasolini osservava l’umile contadino friulano, così ne descrive l’esistenza: «La sua vita, scorrendo al livello di quella naturale, non conosce perciò le inquietudini, ma neanche l’animosità, le ribellioni, di chi passa attraverso la Storia ed usa quotidianamente la coscienza». E ancora: «Il contadino non è dunque ancora “uomo”, in un certo senso: il contadino è terra, è zolla, è gemma d’albero»[7]. Difatti, in un saggio recentemente pubblicato in raccolta, Paolo Desogus sottolinea il pessimismo pasoliniano in questi termini:

Già nell’importante introduzione alla Poesia dialettale del Novecento Pasolini tende invece a ridimensionare la lettura, presente nell’area marxista […], che vede nei componimenti del popolo anonimo il luogo di una coscienza, quantunque germinale, che esso ha di sé sul terreno dei processi storici. E pur provenendo da una significativa esperienza politica al fianco dei contadini friulani nelle loro battaglie del secondo dopoguerra, non fa propria la posizione di de Martino che, in questa fase, segnata dalla «tensione drammatica fra interesse scientifico e interesse etico-politico, fra storia da contemplare e storia da vivere e da fare», intravede nell’esperienza della Resistenza, dell’occupazione e delle lotte dei contadini del Mezzogiorno la nascita di un popolo che irrompe nei processi politici e racconta in versi il proprio dramma sociale, la propria «angoscia della storia», il proprio desiderio di essere partecipe del nuovo corso politico[8].

Non a caso, de Martino, confrontandosi con le elaborazioni di Antonio Gramsci sul folklore[9], vede lo studio dei ceti subalterni non come materia di analisi a sé, ma in rapporto dialettico con la classe egemonica. Così come il rituale magico protegge dalle ostilità di un presente che non si può controllare, così la permanenza di rituali ascrivibili al sincretismo religioso fra paganesimo e cattolicesimo, visibili nel culto miracolistico della Vergine, sono interpretati come forme di resistenza alla cultura dominante, in questo caso quella della Chiesa. Tuttavia, il progressismo demartiniano si evidenzia quando egli riconosce il limite storico della magia. Essa protegge psicologicamente le comunità, lasciandole però confinate ai margini della storia e dello sviluppo, vale a dire fuori da una reale possibilità di emanciparsi e risolvere i propri problemi attraverso la partecipazione al dibattito politico-sociale[10]. In effetti il rapporto dialettico fra popolo ed élite si definisce tale proprio in quanto i canti e le tradizioni popolari sono forme con cui i ceti subalterni esprimevano il loro disagio nei confronti di quelli egemonici. Allo stesso tempo essi sono forme rielaborate di una pratica “alta” discesa, nei secoli, verso il “basso”, sono «agglomerato indigesto»[11]. Pertanto, de Martino, comprendendo che le tradizioni folkloriche sono una catena al collo dei contadini, auspica la scomparsa di quelle forme di vita vessate tramite la diffusione del benessere. Questo poteva avvenire solo se il sapiente, l’intellettuale si fosse fatto – gramscianamente – organico col popolo; ed è ciò che prova a fare l’etnologo napoletano con i suoi studi sul Meridione:

Io penso che intorno a queste spedizioni organizzate [per studiare le comunità in cui sopravvive il magismo] dovrebbero raccogliersi gli intellettuali italiani, a qualunque categoria essi appartengano, narratori, pittori, soggettisti, folkloristi, storici, medici, maestri, etc. Il nuovo realismo, il nuovo umanesimo, manca, per quel che mi sembra, di questa esperienza in profondità, e spedizioni di questo genere costituiscono una occasione unica per formarsela, e per colmare quella distanza fra popolo e intellettuali che Gramsci segnalava come uno dei caratteri salienti della nostra cultura nazionale[12].

Diversamente, Pasolini, pur riconoscendo l’assioma di Gramsci sul «folklore progressivo» – contenuto nel Quaderno XVII – non ne accetta la validità; sempre secondo Desogus, infatti, il dato popolare, da un lato

viene ricondotto [dallo scrittore] alla tesi gramsciana secondo cui «la storia dei gruppi subalterni è necessariamente disgregata», soggetta «all’iniziativa dei gruppi dominanti». Dall’altro però se ne distacca: proprio per la loro condizione di subalternità non è infatti possibile studiare i loro prodotti per un presunto potenziale dato progressivo, raro sul piano tematico e assente su quello stilistico, ma occorre limitarsi a rileggerlo nel processo «storico del mondo in evoluzione dialettica» come «infelice antitesi» di «sedimentazioni e sopravvivenze»[13].

In conclusione, si potrebbe sostenere che, nonostante l’oggetto di studio dei due intellettuali sembri simile, lo è solo in apparenza: l’uno ne studia il sostrato psicologico nascosto per accenderne la vitalità necessaria al conseguimento dell’emancipazione sociale e alla lotta di classe, l’altro lo giudica in senso conservativo, come un patrimonio inerte che necessiti di essere conservato, privandolo degli stimoli necessari ad un risveglio della coscienza politica ritenuto irrealizzabile[14]. Ma il confronto fra de Martino e Pasolini non conduce solo a questo. Esso, sottotraccia, fa emergere anche l’annoso problema – più volte sottolineato dal dispositivo letterario – dell’incomunicabilità degli intellettuali con le classi popolari, afflizione – peraltro tutta italiana – che annichilisce tutto il potenziale rivoluzionario insito nella loro alleanza[15].


[1] Ci riferiamo alle tre monografie che de Martino scrisse per dare una spiegazione alla persistenza dei riti magici e alle forme di sincretismo pagano-cristiano nelle zone della Lucania e della Puglia: Morte e pianto rituale nel mondo antico (1958); Sud e magia (1959); La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud (1961).

[2] Ernesto de Martino, Sud e magia, Donzelli, Roma 2015, p. 66.

[3] Ibidem.

[4] Ernesto de Martino, L’opera a cui lavoro. Apparato critico e documentario della «Spedizione etnologica» in Lucania, in Ernesto de Martino, Sud e magia, op. cit., pp. 170-6, p. 171.

[5] Fabio Dei, Cultura popolare in Italia. Da Gramsci all’Unesco, il Mulino, Bologna 2018, p. 118.

[6] Ivi, p. 116.

[7] Alberto Asor Rosa, Scrittori e popolo. Il populismo nella letteratura italiana contemporanea, Einaudi, Torino 1988, pp. 291-292.

[8] Paolo Desogus, L’infelice antitesi. De Martino e Pasolini nei primi anni Cinquanta, in Paolo Desogus, Riccardo Gasperina Geroni e Gian Luca Picconi, De Martino e la letteratura. Fonti, confronti e Prospettive, Carocci, Roma 2021, pp. 96-109, p. 99.

[9] I Quaderni del carcere furono pubblicati a partire dal 1948, mentre le fondamentali Osservazioni sul folclore comparvero per la prima volta nel 1950, nel volume Letteratura e vita nazionale curato da Palmiro Togliatti. Si veda Fabio Dei, Cultura popolare in Italia, op. cit., p. 95; cfr. Ernesto de Martino, Gramsci e il folklore nella cultura italiana, in «Mondo operaio. Rassegna politica settimanale», III, 133, 15 giugno 1951, p. 12; cfr. Marco Gatto, Dall’autonomia alla mediazione. Ernesto de Martino e Rocco Scotellaro nel solco di Antonio Gramsci (1949-53), in Paolo Desogus, Riccardo Gasperina Geroni e Gian Luca Picconi, De Martino e la letteratura, cit., pp. 83-95, p. 85.

[10] Fabio Dei, Cultura popolare in Italia, op. cit., p. 25.

[11] Antonio Gramsci, Osservazioni sul «Folclore», Quaderno 27, in Quaderni del carcere, vol. III, Einaudi, Torino 1975, pp. 2309-17. Un esempio particolarmente suggestivo di quel fenomeno che, dopo Gramsci, verrà chiamata «circolazione sociale dei fatti culturali» si ritrova nella pratica – studiata da Alberto Mario Cirese – del “lamento funebre”. Il pianto rituale eseguito dalle prèfiche – donne nerovestite –, almeno fino agli Cinquanta del secolo scorso, durante i funerali, era considerato una pratica tutta popolare; diversamente, esso, nella Troia omerica dove, al momento del funerale dell’eroe Ettore, tutto il “gotha” della corte troiana lo esegue, risulta evidentemente una pratica culturale egemonica. A questo proposito vedi Alberto Mario Cirese, Cultura egemonica e culture subalterne. Rassegna degli studi sul mondo popolare tradizionale, Palumbo Editore, Palermo 1974, pp. 15-23.

[12] Ernesto de Martino, Una spedizione etnologica studierà scientificamente la vita delle popolazioni contadine del Mezzogiorno, in Ernesto de Martino, Sud e magia, cit., pp. 164-167, p. 166.

[13] Paolo Desogus, L’infelice antitesi, op. cit., in Paolo Desogus, Riccardo Gasperina Geroni e Gian Luca Picconi, De Martino e la letteratura, op. cit., p. 107.

[14] Difatti, anche nell’unico romanzo pasoliniano di ambientazione contadina, Il sogno di una cosa, pur accettando l’autore un momento di risveglio della coscienza di classe – esemplificato dalla lotta contadina per l’occupazione delle terre e delle ville –, tuttavia, le condizioni di vita di questi umili non migliorano, e anzi sarà con la morte dovuta agli stenti del lavoro di uno dei protagonisti, Eligio, che si chiuderà il romanzo: il sogno di una rivoluzione che potrebbe avvenire ma che agli occhi dei protagonisti resta ancora indefinita, una cosa appunto, dimostra la lucidità di Pasolini nel vedere nel popolo una forza tutt’altro che matura ad inaugurare un futuro nuovo: esso resta sullo sfondo, etereo ed impalpabile. A questo proposito si veda Alberto Asor Rosa, Scrittori e popolo, op. cit., pp. 302-3.

[15] Al grande tema dell’Italia come terra delle rivoluzioni mancate, oltre al postulato gramsciano dell’«intellettuale organico», deve aggiungersi anche il concetto di «Rivoluzione passiva» – ossia “importata” –, come teorizzato da Vincenzo Cuoco nel suo Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799.

Scritto da
Enrico Raugi

Laureato in Storia e Civiltà all’Università di Pisa. Collabora con numerose riviste cartacee e online. I suoi principali campi di interesse sono la storia e la geopolitica, con particolare attenzione alle vicende mediorientali.

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