Recensione a: Laura Pennacchi, De valoribus disputandum est. Sui valori dopo il neoliberismo, Mimesis, Milano-Udine 2018, pp. 172, 15 euro (scheda libro)
Scritto da Andreas Iacarella
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De valoribus disputadum est. Il recente saggio dell’economista Laura Pennacchi porta già nel titolo un invito, o forse meglio un imperativo, di grande interesse. La scomparsa dei valori dalla discussione pubblica contemporanea è una realtà ormai assodata: relegati ad una dimensione privata, i valori, e con essi i fini, nel senso di obiettivi ideali, sembrano oggi costituire un campo di indeterminatezza assoluta, nel quale non è lecito potersi affacciare con un esame critico. A ciò si accompagnano, evidentemente, processi di «depoliticizzazione» e «de-democratizzazione» che, nel generale smarrimento culturale, alimentano «molti fenomeni di populismo, che a loro volta, però, incorporano paradossalmente domande valoriali inevase» (p.9).
Come diremo meglio più avanti, i motivi di questo allontanamento sono per Pennacchi da ricercare da una parte nel dominio della ragione economica quale misura puramente quantitativa del reale, dall’altro nel radicarsi di scetticismo e relativismo, che hanno sostanzialmente gettato il dibattito politico e culturale nella dimensione della «post-verità»[1]. All’influenza determinante esercitata in questa direzione da certa filosofia novecentesca, si aggiunge anche il ruolo svolto dal secolarismo liberale: di fronte alla necessità di costruire un argine alle «pulsioni distruttive delle guerre di religione», è sembrato indispensabile confinare credenze metafisiche e assolute «in un territorio extrapolitico e extrapubblico, nella sfera privata» (p.9).
Il tema dell’eclisse dei valori si può dire ormai classico nella teoria politica, l’interesse del saggio di Pennacchi risiede dunque nel fatto che l’autrice non si limita affatto ad una semplice disamina delle sue ragioni profonde. Facendo ricorso ad un approccio fortemente interdisciplinare, che sa cogliere dai diversi ambiti strumenti utili alla riflessione, Pennacchi tenta di costruire una vera e propria “cassetta degli attrezzi” che possa servire per ribaltare l’attuale tendenza e riportare i valori al centro della discussione. L’obiettivo ultimo di tutta la riflessione è dichiaratamente quello di fornire gli elementi utili per la costruzione di una possibile «teoria dei valori».
Da dove ripartire allora per spezzare «la gabbia privatistica entro cui sono stati confinati» e riconquistarli alla discussione e alla progettualità politica? Nella sua ambiziosa ricostruzione, l’autrice sente l’esigenza di individuare innanzitutto con precisione attraverso quali percorsi di pensiero si è consumato l’ostracismo dei valori dalla dimensione pubblica.
Fondamentale in questo senso è la responsabilità del «deflazionismo filosofico», cioè quell’orientamento di pensiero che nega ogni fondamento al concetto di verità. La letteratura della decostruzione, ha scritto Renaud Garcia, «conduce a condannare ogni tentativo critico che cerchi di orientare la lotta politica e sociale basandola su concetti come la dignità umana, la giustizia o la verità»[2]. Il percorso è chiaro per Pennacchi: «la cecità morale si trasforma in cecità cognitiva e viceversa (…). Dunque, dobbiamo partire dalla mannaia che lo scetticismo contemporaneo ha calato sui valori, negando che essi possano essere veri o falsi» (p.38).
Il relativismo e lo scetticismo odierni vanno dunque ricondotti da un lato all’eredità del nichilismo nietzschiano e al decostruzionismo, dall’altro al secolarismo liberale, come già accennato. Questa rinuncia di molta filosofia novecentesca a prendersi carico della discussione valoriale trova la sua massima affermazione in pensatori come Heidegger, Derrida, Foucault.
Contro postmodernisti e decostruzionisti, Pennacchi propone diverse argomentazioni, rimandando ora al proceduralismo di Rawls e Habermas, ora alla disamina dei confini morali proposta da Joan Tronto. Di questa autrice particolarmente pregnante il recupero, all’interno della sfera morale e politica, del discorso sulle emozioni e sull’individuo, sulla cura dell’altro non in un’ottica generalizzata e astratta ma estremamente concreta.
Questo forte afflato umanista è uno dei motivi di maggiore originalità del testo di Pennacchi. A più riprese emerge nelle sue riflessioni l’intento, per usare le parole di Ernesto de Martino, di definire una «ragione più ampia ed efficace della ragione tradizionale»[3], che sappia includere sé e l’altro, raziocinio e sentimento, in uno sforzo continuo di valorizzazione. Seguendo questa linea di ricerca, la studiosa recupera la critica adorniana ad Heidegger, sostenendo che il disinteresse heideggeriano per l’etica è legato alla identificazione del «soggetto con la morte stessa (…). Il dasein si estrinseca in una relazione costitutiva con la morte, solo la sofferenza, la passività, la capacità di sostenere il negativo assoluto sono autentiche» (p.53). È questa critica del soggetto che ha portato poi, con Foucault, alla totale demolizione di tutte le categorie annesse («validità», «soggettività», «autonomia») e alla convinzione dell’impossibilità di ogni definizione.
Questi pochi accenni dimostrano attraverso quali filoni di pensiero sia possibile, secondo l’autrice, il superamento della prospettiva decostruzionista e l’edificazione di un «nuovo umanesimo»: «se la modernità è trasgressività, non accettazione dello status quo (…) e dunque passione del cambiamento e della progettualità, contrariamente a quello che pensano i postmodernisti noi siamo ancora molto moderni» (p.41).
L’altro grande obiettivo critico di Pennacchi è il pensiero economico neoclassico e lo statuto epistemologico guadagnato dalla scienza economica. L’affermazione del paradigma dell’homo oeconomicus ha generalizzato una visione dell’essere umano come massimizzante, guidato esclusivamente da razionalità utilitaristica; ne è discesa una netta separazione tra economia ed etica, che ha espulso fini e valori dall’ambito del razionalmente indagabile. A fondamento di questo processo vi è la capacità che la scienza economica ha avuto di presentare quelle che sono realtà storicamente determinate come principi regolatori insisti nella stessa natura umana. Questo processo di naturalizzazione dell’economia, di estensione dell’economico a ogni ambito vitale, ha avuto come conseguenza una sostanziale disumanizzazione del soggetto. In questa rappresentazione del mondo si può dire che, riprendendo Lukacs, «una relazione tra persone riceve il carattere di cosalità e quindi un’oggettività spettrale che occulta nella sua legalità autonoma, rigorosa, apparentemente conclusa e razionale, ogni traccia della propria essenza fondamentale: il rapporto tra uomini» (Cit. p.94).
Questo è l’orizzonte di pensiero all’interno del quale, prima e dopo la crisi finanziaria del 2007, si è mosso e continua a muoversi il neoliberismo. Ma di fronte a quella che poteva essere una crisi irreversibile di quella visione del mondo, si è assistito invece ad una sua pervicace riaffermazione. Questo è da imputarsi, secondo Pennacchi, anche all’incapacità della sinistra europea di elaborare una «cultura della crisi», di rilanciare i propri valori. Una sinistra che invece «tace, è timida, balbetta, perché ha taciuto, è stata timida, ha balbettato nel ventennio di affermazione dell’egemonia neoliberista» (p.80).
Emerge qui l’altro grande punto di forza del volume di Pennacchi, ovvero il suo essere un saggio estremamente politico: nelle argomentazioni, che non dimenticano mai di ancorare l’elaborazione teorica all’attualità, e ovviamente nelle aspirazioni. Gli ultimi due capitoli sono così dedicati a rintracciare quegli elementi utili per riaffermare una discussione pubblica sui valori, approfondendo i nessi tra dimensione morale e dimensione politica. L’autrice non arriva qui alla formulazione di una vera e propria teoria dei valori, ma si limita ad indicare quale potrebbe essere una strada riflessivamente proficua in questa direzione, auspicando che siano altri ad intraprenderla e portarla a compimento. Preziosa però in questo senso è la positività della sua visione, pervasa dalla convinzione che resti sempre aperta la possibilità di mutamento dell’esistente «verso un nuovo mondo migliore» (p.132).
Il concetto cardine che attraversa l’ultima parte del testo è infatti quello di «trasformazione», intesa come spinta immaginativa alla progettualità, che accoglie emozioni e passioni come ragioni morali, dotate di «autorevolezza raziocinante e forza valoriale normativizzante» (p.129). Questa riconsiderazione del ruolo dell’immaginazione parte da una critica all’economico che porta a destrutturare la convinzione ideologica di una neutralità etica del capitalismo. Superare questo abbaglio è un punto di avvio irrinunciabile per approdare ad una visione spessa dell’essere umano, che superi la nozione di razionalità strumentale e abbracci un’idea di razionalità «in termini di “ragionevolezza”, carica anche di sentimenti e di passioni» (p.10).
Solo in questo modo si può riscoprire, per l’autrice, la possibilità di porre al centro della discussione le questioni valoriali, guadagnando «un’immagine ampia della nostra comune umanità, abbracciante non solo mezzi ma anche fini, non solo bisogni ma anche valori» (p.112). Qui ovviamente il richiamo all’approccio delle «forme di vita», che connette l’idea della «fioritura» personale alle istanze valoriali della società.
Su questi aspetti, risulta forse debole il riferimento che Pennacchi fa alle diverse correnti psicoanalitiche. In particolare, nella costruzione di un’immagine spessa dell’essere umano e nel superamento dell’idea della razionalità strumentale, potrebbe essere proficuo il discorso di distinzione tra bisogni ed esigenze condotto da alcuni economisti in accordo con la ricerca psichiatrica[4].
Nelle ultime pagine del volume, Pennacchi arriva a proporre con forza quelle che potrebbero essere le ricadute pratiche del percorso disegnato: da un lato la rivalorizzazione del lavoro, ormai precipitato nell’invisibilità politica, dall’altro la «riattivazione dello straordinario patrimonio valoriale e normativo racchiuso nell’idea di Europa» (p.158). La linea tracciata dall’autrice, con la sua scrittura non consueta, si conclude così con una forte speranza trasformativa.
Questo saggio è stato da alcuni definito il «libro di una vita», un’affermazione con la quale non si può che concordare, per una molteplicità di ragioni. Il testo recupera e porta a maturazione quanto abbozzato da Pennacchi in alcuni suoi precedenti volumi, in particolare Il soggetto dell’economia. Dalla crisi a un nuovo modello di sviluppo (Ediesse, 2015). Inoltre, nell’impressionante mole di riferimenti di cui l’autrice si serve per condurre la propria argomentazione, sembra di poter scorgere anche la volontà di saldare i debiti intellettuali di riconoscenza contratti in un’esistenza di studio. In fondo, questo di Pennacchi è un saggio impegnativo ma pieno di vita. Passa, nella scrittura, la passione di chi ha condotto una ricerca non puramente intellettuale, ma di attivismo, di agire politico reale. Un invito al pensiero critico che pone al centro l’attenzione ad una vita vissuta, ad un soggetto, economico politico e sociale, spesso e concreto.
[1] La letteratura sul tema è sterminata. Di recente pubblicazione, vedi: L. McIntyre, Post-verità, Utet, Torino 2019
[2] R. Garcia, Il deserto della critica, elèuthera, Milano 2016, p.24
[3] E. de Martino (1962), Furore simbolo valore, Il saggiatore, Milano 2013, p.78
[4] Vedi in particolare: A. Ventura, Il flagello del neoliberismo. Alla ricerca di una nuova socialità, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2018, pp.87-93