Decifrare le grandi dimissioni. Intervista a Francesca Coin
- 27 Novembre 2023

Decifrare le grandi dimissioni. Intervista a Francesca Coin

Scritto da Chiara Visentin

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Se il modello di sviluppo che le società occidentali hanno conosciuto negli ultimi decenni ha sempre assegnato al lavoro una posizione cruciale, vanno osservati con particolare interesse i profondi e diffusi mutamenti, intensificatisi a seguito della pandemia, nell’atteggiamento nei confronti di esso. Uno dei fenomeni rivelatori di questa tendenza è quello che è stato chiamato “grandi dimissioni”. Il tema è al centro del libro di Francesca Coin Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita (Einaudi 2023). Francesca Coin ha lavorato come Professoressa associata nel Dipartimento di sociologia dell’università di Lancaster, nel Regno Unito, e attualmente insegna nel Centro di competenze lavoro welfare società della SUPSI, in Svizzera. Scrive su «Internazionale» e «L’Essenziale». L’intervista analizza il fenomeno dell’aumento di dimissioni volontarie dal posto di lavoro, nelle sue complessità, contesti e implicazioni di vasta portata, alla luce dei bisogni e delle esperienze che ispirano il “rifiuto” del lavoro.


Per iniziare, le chiederei una definizione che circoscriva il fenomeno: cosa sono le “grandi dimissioni”?

Francesca Coin: Potremmo definire le grandi dimissioni il sintomo di una disaffezione al lavoro che si è resa evidente dopo la pandemia, quando è aumentato il numero delle dimissioni volontarie. Nel 2021 ci sono state circa 48 milioni di dimissioni negli Stati Uniti, e 50 milioni nel 2022. In Italia, dove il contesto economico è molto diverso, ce ne sono state poco meno di 2 milioni nel 2021, più di 2 milioni nel 2022, e nel primo trimestre del 2023 ci sono state mezzo milione di dimissioni, in linea con gli anni precedenti. In generale, il tema delle dimissioni nasce da un modello di organizzazione del lavoro che da lungo tempo – in Italia, ma anche all’estero – viene fondato sulla competizione: tra comparti produttivi, tra aree produttive, e, alla fine, tra persone che lavorano. Con la pandemia, questa disaffezione si è resa evidente e in diversi Paesi, dall’Italia alla Cina, le critiche al sistema produttivo si sono diffuse.

 

Cosa l’ha spinta ad approfondire questo fenomeno? 

Francesca Coin: Da quando studio il lavoro, non c’era mai stato un cambio di narrazione su questo tema. La narrazione sul lavoro negli ultimi trent’anni è stata imperniata sui temi dello sfruttamento, del deterioramento delle condizioni di lavoro e della salute mentale. Questa coerenza derivava dal fatto che coerenti erano le dinamiche che caratterizzavano il mercato del lavoro. La globalizzazione ha creato uno stato di generalizzata competizione tra diverse aree produttive e una race to the bottom, ovvero una gara al ribasso, dei costi produzione, con la conseguente compressione del costo del lavoro. Di conseguenza il deterioramento delle condizioni produttive è stato il tema principale da discutere per chi si occupasse di questi temi. In quegli anni, centrale era poi il tema delle lotte o delle forme di sindacalizzazione, processi di cui abbiamo visto una ripresa negli Stati Uniti e nel Regno Unito, in seguito alla pandemia. Si trattava, comunque, nel complesso, di una narrazione pressoché uniforme, o comunque cristallizzata su un numero limitato di questioni. Quando il dibattito pubblico si è spostato sul tema delle grandi dimissioni, questo mi è sembrato il sintomo di un inizio di cambiamento. Mi sembrava stesse cambiando in modo profondo l’atteggiamento nei confronti del lavoro. Se fino a poco tempo fa era radicata l’idea che il lavoro è un privilegio, e che bisogna accettare di fare di tutto pur di tenerselo stretto, ora si cominciava a realizzare che il lavoro non è un privilegio, che esso molto spesso porta con sé forme di violenza e vessazione. Se, poi, la contropartita economica è troppo bassa, ecco che si comincia a pensare di lasciarlo. Questa è in sintesi l’inversione narrativa che ho percepito, e mi è sembrato fosse meritevole di un approfondimento, anche perché sottendeva un cambiamento di immaginario. Io stessa, in passato, mi ero già occupata delle dimissioni, quando, all’inizio degli anni Duemila, nel comparto accademico si notava la proliferazione di lettere di addio. In quei mesi, si iniziava a parlare di quit lit[1], lettere d’addio da un lavoro non adeguatamente tutelato. In generale, la letteratura sul quitting è affascinante perché contiene in sé sfumature diverse. Le dimissioni volontarie sono state interpretate come una forma di rassegnazione, giocando anche sull’assonanza con l’inglese resignation. In realtà, c’è anche una sfumatura di vendetta, di rivalsa individuale. La compresenza di queste sfumature contrastanti invitava a un’analisi più approfondita. Negli Stati Uniti, le testimonianze di milioni di anonimi dimissionari su Reddit restituivano un’immagine piuttosto precisa di alcune di queste storie. In Italia questa ricostruzione mancava quasi del tutto.

 

Quali sono i fraintendimenti più comuni o più insidiosi, i “miti da sfatare”, le retoriche da decostruire, quando si parla di “grandi dimissioni”?

Francesca Coin: La prima tra queste, e quella con cui il libro è forse maggiormente in polemica, è l’idea che a lasciare il lavoro sia chi se lo può permettere. Di fatto, chi se lo può permettere ha sempre lasciato il lavoro. Ma il punto delle grandi dimissioni è che lascia il lavoro soprattutto chi non può permettersi di lavorare a certe condizioni. Il vero tema non è chi lascia il lavoro perché se lo può permettere, è come possiamo permetterci di lavorare per paghe non adeguate, né al passo con l’inflazione, in un momento in cui il costo della vita è sempre più elevato. In questo contesto, anche lavorando non è facile sopravvivere. Nel libro, ho fatto la scelta consapevole di soffermarmi su coloro che lasciano lavori poveri. Inoltre, il libro è in polemica con la narrazione, in parte simile ma non identica, secondo cui chi lascia il lavoro può permettersi di vivere di rendita. L’idea che lasciare un lavoro implichi vivere di rendita è un altro grande fraintendimento, che si rifà a un immaginario borghese che si è diffuso oltre le condizioni materiali che lo riflettono. In realtà, quello che vediamo è che lascia chi non può permettersi di avere una contropartita così ridotta, e dunque lascia naturalmente senza poter vivere di rendita, ma in qualche modo “si arrabatta” per un po’. In un caso su due si tratta di persone che, dopo tre mesi dall’abbandono del lavoro, non hanno ancora un altro impiego. Questo indica che molto spesso, come il dato qualitativo conferma, chi lascia lo fa per esasperazione, perché è arrivato a un punto di non ritorno. Dunque, un’altra operazione che questo testo prova a fare è mostrare che esiste un dato qualitativo al di sotto del dato quantitativo che spesso è l’unico a comparire nel dibattito pubblico come se esaurisse la questione, ma che, in realtà, mostra meno di ciò che promette di rivelare.

 

Una scelta, metodologica e contenutistica al tempo stesso, di dare spazio al vissuto delle persone, di ascoltare le loro voci. Perché è importante adottare un approccio come questo?

Francesca Coin: Sia all’interno della sociologia che in generale nel dibattito pubblico – in Italia e anche altrove – si è affermata l’idea che solo il numero possa dire la verità. Io sono ben lungi dal negare che il numero possa dire la verità, però deve essere affiancato da un’analisi qualitativa e del contesto. La sociologia quantitativa molto spesso ha avuto l’arroganza di dichiararsi la sola ad essere legittima e di dismettere le altre modalità di studio che pur hanno delle lunghissime tradizioni, e che hanno guidato la ricerca in passato, prima che la raccolta e l’analisi di dati quantitativi diventassero così pervasive, come le analisi teoriche ed etnografiche tipiche dei grandi filosofi e dei classici sociologici. Questo interesse per la teoria, per gli sforzi concettuali e per i contesti, al contrario, è fondamentale. In effetti, quando si parla di grandi dimissioni, molto spesso il dibattito si riduce a un contenzioso sul solo dato quantitativo; ma questo, da solo, astratto dal suo contesto, non dice niente. Il dato quantitativo deve essere inserito in un contesto ed essere affiancato, possibilmente, dall’analisi qualitativa, se vogliamo avere un dibattito affidabile.

 

Le “grandi dimissioni” sono state associate alla pandemia: qual è il legame causale che le lega? E cosa significa questo per il lascito o la continuazione delle “grandi dimissioni” e degli insegnamenti trattine, una volta che l’emergenza pandemica è considerata in gran parte superata?

Francesca Coin: Anthony Klotz ha parlato di «epifanie pandemiche»[2] per descrivere i momenti forieri di mutamento. È importante sottolineare che non c’è stata solo una questione esistenziale, ma anche prettamente organizzativa. Per molte persone la pandemia è stata una specie di rivelazione esistenziale, tuttavia, in molti settori, la possibilità di astrarsi dai contesti produttivi ha anche consentito di vedere con più lucidità tutto ciò che non siamo disposti ad accettare al loro interno. Direi, dunque, che per molte persone la pandemia è stata anche una possibilità di vedere la violenza che abita il mondo del lavoro. Negli anni Settanta se ne parlava, e mi viene in mente in particolare Studs Terkel, e il suo libro Working[3], nella cui magnifica introduzione scrive che il suo testo in quanto testo sul lavoro è un libro sulla violenza. Poi, negli anni Ottanta, hanno cominciato a dirci che quando parliamo di lavoro parliamo di emancipazione e di realizzazione di sé. Ora siamo in una nuova fase di disillusione, riflusso, frammentazione dei vecchi immaginari.

 

In cosa consiste questa promessa illusoria? Quand’è che la passione per il proprio lavoro si tramuta in una “trappola”[4], e perché questo accade? Perché l’aspirazione a svolgere un lavoro che ci appassiona e che amiamo può condurre a dinamiche tossiche? 

Francesca Coin: A partire dagli anni Ottanta, quando le prime ristrutturazioni aziendali e i primi licenziamenti di massa hanno fatto seguito alla crisi degli anni Settanta, abbiamo assistito a un uso massiccio di narrazioni centrate sul matrimonio con il lavoro, il cui fine era compensare con l’amore le forme di fedeltà che il fordismo aveva creato grazie alla retribuzione diretta, indiretta e differita. Non bisognava più lavorare perché questo restituiva una contropartita che ripagava dei propri sforzi, bisognava amare il lavoro ed essergli fedeli come una moglie al marito. La “trappola della passione” è uno dei vari modi con cui queste narrazioni hanno consentito di cambiare completamente anche l’organizzazione del lavoro. A quel punto, il lavoro non era più normato da contratti collettivi nazionali. Insieme alla precarizzazione, alla flessibilità e allo smantellamento graduale delle tutele, si instillava un’idea per cui il lavoro in quanto passione doveva avere il diritto di assorbire il nostro tempo di vita, l’intero tempo di veglia. Fino a che i sacrifici richiesti da questa situazione sono diventati tali e tanti che, a prescindere dalla passione, c’è chi ha cominciato a mettere in moto dei meccanismi di sottrazione, come ci racconta il caso di Viola nel libro[5].

 

In cosa consiste questa “sottrazione”? Come ci si sottrae a queste dinamiche?

Francesca Coin: Quello che mi sembra stia accadendo è che – in modo individuale, quindi completamente disorganizzato e puntiforme – per molte persone sia diventato normale fare un calcolo costi-benefici, in cui si mette sul piatto della bilancia ciò che il lavoro dà e ciò che il lavoro toglie. E questo già rende molto più complessa la nostra concezione del lavoro. Perché a quel punto, il fatto che ci siano dei pro e dei contro che vengono continuamente soppesati indica che la nostra relazione con il lavoro è diventata dinamica: non è più scontato che esso sia un privilegio e che tenerselo stretto per tutta la vita sia un destino obbligato. La relazione con il lavoro ha senso nei limiti in cui questo calcolo restituisce benefici che eccedono i suoi costi. Questo calcolo costi-benefici mi sembra in atto in tutte le storie di sottrazione che ho ascoltato e raccolto, perché tutte alla fine si chiedono se una vita sociale disintegrata, tutele insufficienti, lavoro sommerso, o troppe poche ore libere al giorno, siano un costo accettabile. Tutto questo naturalmente si dispone diversamente nella vita di ciascuno che ha esigenze e peculiarità distinte. Tuttavia, in generale rivela una postura diversa rispetto a qualche tempo fa, per cui non è più scontato che le persone restino all’interno di un’azienda, se questa non va incontro alle loro esigenze, ma pensano di lasciarla. Questo è uno slittamento molto forte, nel senso che in questa relazione dinamica già si sgretola l’idea del lavoro come identità, come definizione di sé. Non voglio con ciò sostenere che sia scomparsa, ma che si sta sgretolando perché viene messa in discussione giorno dopo giorno; perché dubitare di rimanere all’interno di un certo contesto, significa anche chiedersi, “Cos’altro potrei essere?”, “Cos’altro potrei fare?”, “Chi altri sarei se facessi altro”? Così, tutti i meccanismi che di solito vengono riassunti dalla parola lavoro, con la sua vasta portata che include aspirazioni esistenziali oltre che materiali e professionali, vengono rimesse dinamicamente in movimento verso direzioni potenzialmente impreviste.

 

Un fermento creativo dunque in questa reazione, che può portare anche a porsi domande fondamentali su quel che non va nella nostra società in senso ampio. Come la marginalizzazione sistematica di alcune categorie di persone nel mondo del lavoro interagisce con il fenomeno delle grandi dimissioni?

Francesca Coin: Questo è interessante perché, per esempio, nel contesto italiano le donne sono state costrette per lungo tempo all’uscita forzata dal mercato del lavoro, visto che il ruolo della donna era associato con il lavoro di cura e di conseguenza nel lavoro le donne avevano contratti precari e spesso part-time. Nel tempo le donne hanno cominciato a mettere in discussione il fatto che questo tipo di ruolo sociale in famiglia e nel mercato del lavoro fosse un destino. Ciò non toglie che vivano pur sempre una situazione di discriminazione, ma mi sembra che questa non sia più subita passivamente. Le discriminazioni si fanno ancora più acute se pensiamo alle persone razzializzate oppure alla comunità LGBTQIA+. In questi casi assistiamo ancora esplicitamente a vicende di espulsione dal mercato del lavoro. Basti pensare alla tragica vicenda di Cloe Bianco[6], donna che ha cominciato un percorso di transizione dopo che aveva ottenuto un contratto a tempo indeterminato in una scuola. A quel punto è stata demansionata, discriminata e umiliata, facendo passare il messaggio che lei poteva esistere in quella scuola solo nascondendo la sua reale identità. Questo purtroppo non è raro nel mercato del lavoro italiano: quei pochi dati che abbiamo ci parlano ancora di forme di espulsione, di persone che lasciano non perché scelgano di sottrarsi, ma perché la società non ha ancora accettato la loro esistenza come legittima. Sia le persone razzializzate sia le persone LGBTQIA+ sono vittime di discriminazioni continue. Ci sono esperienze in controtendenza. La storia di Patrick[7] per me era interessante perché, pur essendo lui un lavoratore migrante, ha messo dei paletti oltre i quali lo sfruttamento non era più accettabile, e ha lasciato un lavoro nella ristorazione per cercarne uno come magazziniere. Purtroppo, la società italiana è ancora, in ampi settori, fortemente razzista e discriminatoria, una cultura che va cambiata anche per migliorare le condizioni nei luoghi di lavoro.

 

In relazione alle grandi dimissioni, lei parla di “anomalia italiana”: cosa rende anomalo il caso del nostro Paese?

Francesca Coin: La ragione per cui l’ho definita un’anomalia è che in Italia si verifica una strana situazione: esistono interi settori produttivi che non sono in grado di trovare personale, e contemporaneamente ci sono almeno cinque milioni di persone disoccupate e scoraggiate. In altre parole, c’è un grosso bacino di persone disoccupate che avrebbe bisogno di lavorare, e tuttavia i lavori che vengono offerti sono senza personale. Da un lato possiamo parlare di un certo tipo di competenze che non sono diffuse, soprattutto per quanto riguarda i lavori nelle società di tecnologia o nelle comunicazioni. Tuttavia, dobbiamo anche ammettere che per tutta una serie di altre professionalità le competenze ci sono. C’è una domanda di lavoro e c’è un’offerta di lavoro, ma le due non si incontrano: l’offerta, per così dire, è rigida, e a volte, per vari motivi, con quella domanda non vuole avere a che fare. Quando domanda e offerta non si incontrano, per farle incontrare, deve esserci una volontà di mettersi in ascolto e di rispondere alle richieste di chi lavora.

 

Come muoversi verso soluzioni collettive, sul piano della politica e della mobilitazione?

Francesca Coin: Ci vorrebbe un’inversione di rotta, un po’ come è avvenuto in Spagna. Serve una presa di consapevolezza del fatto che un Paese non può svilupparsi esclusivamente sulla compressione del costo del lavoro. Certi obiettivi e direzioni che ha preso la Ministra del lavoro spagnola sono possibili e auspicabili, come ridurre la precarietà, aumentare le tutele, lavorare nell’ottica di ridurre l’orario lavorativo, che significa anche aumentare nuovamente gli organici che nel corso degli anni sono stati ridotti all’osso. Questo per quanto riguarda la politica. Dal punto di vista di chi lavora quello che è auspicabile è lasciarsi alle spalle molti anni di solitudine, che in parte hanno avuto inevitabilmente a che fare con l’individualizzazione dei contratti lavorativi, ma anche con un po’ di inerzia e paura. Oggi assistiamo alla riscoperta di un altro tipo di priorità nella vita, di alcune urgenze di tutela, della riproduzione sociale, del pianeta. Questa è una direzione che può fare pressione per, o convergere con, un cambio di rotta politica – ed entrambe le cose sono urgenti.


[1]F. Coin, On Quitting. The labour of academia, «Ephemera: Theory and Politics in Organization», Vol. 17 No. 3 (2017), pp. 235-249. Tradotto in italiano per Effimera: https://effimera.org/smettere-quitting-francesca-coin/.

[2] «Lo psicologo Anthony Klotz ha parlato di “epifanie pandemiche” per descrivere i momenti di verità che, nel buio di quei mesi, illuminavano la necessità di sottrarre la propria esistenza da una cornice economica che, per troppi anni, ha chiesto di fare sacrifici con la prospettiva di promesse che non sono state mantenute quasi mai». F. Coin, Le grandi dimissioni, Einaudi, Torino 2023, p. 11.

[3] S. Terkel, Working: People Talk About What They Do All Day and How They Feel About What They Do, Pantheon/Random House, New York 1974.

[4] «La trappola della passione è […] il sintomo di una cultura del lavoro che si serve della passione come esca per estorcere una disponibilità completa». F. Coin, Le grandi dimissioni, op. cit., p. 271.

[5] Ivi, pp. 270-284.

[6] Ivi, pp. 267-8.

[7] Ivi, pp. 201-4.

Scritto da
Chiara Visentin

Sta svolgendo un dottorato interdisciplinare in Sociologia storica e Studi medievali presso la Cornell University. Ha precedentemente studiato filosofia presso la Scuola Normale Superiore e l’Università di Pisa.

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