“Declino Italia” di Andrea Capussela
- 30 Agosto 2021

“Declino Italia” di Andrea Capussela

Recensione a: Andrea Capussela, Declino Italia, Einaudi, Torino 2021, pp. 144, 12 euro (scheda libro)

Scritto da Francesca Subioli

8 minuti di lettura

Reading Time: 8 minutes

Perché l’Italia non cresce? Con Declino Italia (Einaudi 2021), Andrea Capussela[1] vuole portare all’attenzione dell’opinione pubblica la sua documentata riflessione sulle cause profonde, economiche e politiche, del malessere accumulato dall’Italia negli ultimi quarant’anni di stagnazione economica. Il libro poggia sulle analisi pubblicate dall’autore nel saggio The Political Economy of Italy’s Decline (2019)[2] e si rivolge a chiunque desideri riflettere su come siamo arrivati a questo punto. L’economia italiana, infatti, ha avuto all’inizio del secolo il tasso di crescita medio annuo più basso del mondo, ha poi subito gli effetti della Grande Recessione e anche nella fase di ripresa è cresciuta meno della metà della media europea.

Andrea Capussela ci offre una spiegazione del perché di questo declino guardando alla storia economica e politica degli ultimi decenni. La conoscenza e la comprensione del passato, ci suggerisce l’autore, è infatti requisito necessario per evitare che l’unica spinta motrice della nostra economia – e della nostra società – sia l’inerzia. La ricerca è condotta con un approccio squisitamente multidisciplinare, che lega inscindibilmente l’economia alla storia, alla politica, alla sociologia, e con una struttura e un linguaggio che accolgono anche i lettori meno esperti.

L’identificazione delle cause del declino procede per confronti nel tempo e nello spazio, e la domanda cui il libro cerca di rispondere è: perché l’economia italiana, che negli anni Sessanta cresceva più rapidamente di quella dei paesi comparabili – Francia, Germania, Spagna, ma per certi aspetti anche Gran Bretagna e Stati Uniti – ha perso in seguito la capacità di mettere a frutto le proprie risorse? La qualità materiale della vita dei cittadini italiani è infatti ferma dal 1995, mentre tra i paesi comparabili il reddito reale medio è cresciuto di circa un quarto da allora. La risposta dell’autore è che l’economia italiana è cresciuta meno dei suoi pari perché è organizzata in modo meno equo ed efficiente di loro. Le ragioni profonde del declino, dunque, sarebbero da ricercare nell’organizzazione della società, dalla quale discendono tutti gli altri fattori che hanno influenzato la struttura politica ed economica del Paese.

Nel capitolo primo l’autore ci introduce alle cause economiche del declino: passando per le definizioni di PIL e crescita e chiarendo la natura del legame tra crescita e benessere sociale, Capussela si concentra sulla crescita di lungo periodo e spiega che essa dipende soprattutto dalla produttività, ovvero dalla capacità di produrre più o meglio, la quale a sua volta dipende da investimento – acquisto di fattori – e innovazione – novità tecnologica o organizzativa –. Quest’ultima è la componente critica della crescita di lungo periodo e il suo contributo alla produttività si chiama produttività totale dei fattori (ptf), misurata come differenza tra l’aumento della produttività complessivo e quello dovuto al solo investimento.

Si può innovare inventando o importando invenzioni dall’estero; sappiamo dalle teorie di economia della crescita che esiste un vantaggio dell’arretratezza che consente ai paesi che sono più indietro dal punto di vista tecnologico di crescere più velocemente degli altri importando innovazioni dai paesi più avanzati. Questo processo si chiama convergenza e rallenta avvicinandosi alla frontiera tecnologica, ovvero il livello massimo di tecnologia ed efficienza organizzativa disponibile al mondo – che è guidato ormai da decenni dagli Stati Uniti –. Per continuare a crescere, dunque, chi si avvicina alla frontiera deve iniziare a produrre invenzioni da sé.

Ed è proprio in questo passaggio, dal vantaggio dell’arretratezza all’economia di frontiera, che l’autore identifica il punto di rottura nel processo di crescita dell’economia italiana: le condizioni politiche e organizzative che avevano aiutato il processo di convergenza con le economie più avanzate sono diventate di ostacolo alla crescita, rallentandola, quando l’Italia è divenuta essa stessa un’economia di frontiera – addirittura superando gli Stati Uniti nel 1980 in termini di ptf grazie ai settori dell’alta tecnologia nucleare ed elettronica –.

La domanda chiave del libro, allora, da “perché l’Italia ha smesso di crescere?” diventa “perché l’Italia ha smesso di innovare una volta raggiunta la frontiera tecnologica?”. I capitoli successivi ricercano quindi le cause profonde della stagnazione della ptf, che è oggi distante di più di venti punti da quella tedesca e francese, e si trova in termini assoluti sui livelli italiani del 1995. Poiché nel lungo periodo il funzionamento di un’economia dipende soprattutto dalle regole che effettivamente la governano, risultato dell’interazione tra legge formale e norme sociali, l’autore ritiene che siano state queste a guidare il rallentamento della produttività. Alla radice del declino, quindi, ci sarebbero fattori legati all’organizzazione della società, ovvero fattori istituzionali.

Capussela sa bene che la spiegazione “istituzionale”, cui dedica la restante parte del libro, non è l’unica possibile, sia perché manca di ampie verifiche empiriche (come del resto le sue teorie concorrenti) sia perché ne esistono altre plausibili e che godono, in alcuni casi, di ampio consenso. L’autore ripercorre quindi le caratteristiche principali delle teorie concorrenti più diffuse – non necessariamente alternative a quella istituzionale – per aiutare il lettore a orientarsi nel dibattito e per spiegare perché a suo parere la spiegazione istituzionale sia più completa e meno ideologica di altre. Non confuta le spiegazioni alternative che analizza – l’inefficienza dello Stato troppo presente nell’economia, l’euro, l’UE, la globalizzazione e il cambiamento tecnologico –, ma ne inserisce gli elementi all’interno della catena causale delineata dalla teoria istituzionale.

Secondo la teoria istituzionale l’innovazione, che ha come cause prossime l’istruzione universale e la ricerca di frontiera, trova le sue cause profonde nelle regole effettive che governano l’organizzazione della società: poiché infatti il processo innovativo è per sua natura conflittuale, perché mette in crisi il paradigma esistente l’autore sposa in questo l’idea shumpeteriana di innovazione come distruzione creatrice –, esso è naturalmente avversato dalla minoranza, di solito organizzata, che da quel paradigma trae i propri guadagni. Il processo innovativo si blocca ogniqualvolta i “passati innovatori” riescono a difendersi dai “nuovi innovatori”, e questo può avvenire se la tutela della concorrenza è debole e se è bassa la responsabilità politica.

Durante il processo di convergenza, come per l’Italia del trentennio glorioso, quando l’innovazione è soprattutto importata e quindi richiede molto più investimento che creatività e concorrenza, la concentrazione e la bassa tutela (de facto se non de iure) della concorrenza possono essere addirittura un vantaggio. Queste istituzioni diventano però inadeguate una volta raggiunta la frontiera tecnologica, come è accaduto all’Italia a partire dagli anni Ottanta: le leggi si adeguarono, pur lentamente, al nuovo contesto, ma alle modifiche formali non seguì l’adeguamento delle regole effettive.

Dal capitolo terzo in poi viene definitivamente superato il confine tra economia e politica e la domanda centrale diventa: “perché le regole effettive non si adeguarono?”. La risposta dell’autore poggia sull’evidenza fornita da alcuni indicatori[3] di bontà istituzionale forniti dalla Banca Mondiale e dall’OCSE: alla radice dell’incapacità dell’Italia di adeguare le proprie regole effettive al nuovo contesto ci sarebbero state la debole supremazia della legge – inferiore a quella dei suoi pari e in storica diminuzione – e la carente responsabilità politica. Gli interessi particolari dei “passati innovatori” hanno potuto prevalere grazie alla sistematica tolleranza della violazione delle leggi, ostacolando il processo di distruzione creatrice con l’appoggio delle classi dirigenti.

Dalla responsabilità politica dipende l’efficacia dell’autorità pubblica nel garantire la supremazia della legge, e le due sono legate in un circolo di causa-effetto. L’autore rileva che alcune debolezze dei partiti italiani contemporanei – legate alla scarsa cultura politica, all’insufficiente apertura alla discussione pubblica e ai meccanismi di decisione interna – impediscono loro di fare opposizione al potere delle minoranze organizzate per orientare l’azione all’interesse generale. Eppure, proprio i partiti politici, insieme ai sindacati, sarebbero chiamati ad aiutare la società a superare il suo problema dell’azione collettiva: una maggioranza non organizzata, infatti, non riesce da sola a ottenere i beni pubblici desiderati – libertà, sicurezza, prosperità diffusa ect. – a causa della razionalità individuale che si basa sul calcolo privato di costi-benefici e, nel peculiare caso italiano, a causa anche delle basse competenze linguistiche[4] che ostacolano la comprensione dell’attualità e quindi la partecipazione alla vita collettiva.

Alla spiegazione approfondita del problema dell’azione collettiva, tipico dei sistemi democratici, è dedicato il capitolo terzo, mentre il quarto e il quinto analizzano, rispettivamente, le motivazioni materiali e morali che muovono l’azione individuale e che aiutano a capire perché si incorre nel problema e come si può superare. Nello scontro tra l’interesse individuale e quello collettivo si comprendono tanto la razionalità della collusione tra élite politiche ed economiche conservatrici, quanto la difficoltà della società civile – imprese, media, magistratura – nel contrastarla.

L’analisi di Capussela assolve i più popolari capri espiatori del declino italiano – le imprese familiari, l’Unione Europea, l’euro, il debito, la “mentalità” –, o almeno li solleva dal ruolo di unici responsabili per ricondurli all’interno di una più ampia e complessa catena causale. Sicuramente la parte di responsabilità più consistente è attribuita ai partiti politici: quelli contemporanei sono definiti «esangui, timorosi degli elettori, privi di cultura politica, instabili, inclini più a colludere che a competere, abbracciati allo Stato, vulnerabili alle minoranze organizzate». Tuttavia, anche la società civile ha giocato un ruolo assolutamente non trascurabile smettendo di chiedere conto alla politica del suo operato, e la maggiore responsabilità in questo è assegnata da Capussela a stampa e magistratura, soprattutto dopo la cesura di Mani Pulite. L’autore dedica forse troppo poco spazio nel libro ai sindacati, pur essendo essi corresponsabili con i partiti nel dovere di aiutare la società a risolvere il suo problema di azione collettiva. Il loro ruolo storico nella catena causale del declino meriterebbe ulteriore approfondimento.

Il capitolo sesto analizza un modello semplificato di società utile per comprendere come la razionalità individuale possa condurre a un equilibrio subottimale per la società, con un risultato che ci ricorda quello di un dilemma del prigioniero: esiste una situazione più vantaggiosa per tutti, ma raggiungerla richiede di potersi fidare degli altri; se non ci sono leggi vincolanti per tutti ed esiste la possibilità che gli altri si comportino in modo opportunistico, la strategia più razionale, a meno di forti motivazioni morali, è quella di comportarsi preventivamente in modo opportunistico. Capussela sostiene che da ormai quarant’anni l’Italia si trovi in un equilibrio inferiore a quello realisticamente raggiungibile, ma che tale posizione sia reversibile perché le dinamiche che consolidano l’equilibrio dipendono dall’interazione tra aspettative individuali, realtà e comportamenti.

Negli ultimi due capitoli l’autore si dedica alla ricerca di una possibile soluzione al declino: come innescare il circolo virtuoso che, attraverso le aspettative e i comportamenti, rafforzi la supremazia della legge e la fiducia reciproca, cambi gradualmente le norme sociali e conduca la società a un equilibrio “superiore”? Tra gli strumenti possibili l’autore predilige un movimento di idee, in grado di orientare verso obiettivi di lungo termine gli “interessi” individuali – intesi come «il prodotto delle idee che ciascuno si forma a proposito dei propri fini ultimi, degli ostacoli che si frappongono alla loro realizzazione, e del modo di superarli». Il circolo virtuoso partirebbe così da una pressione della maggioranza sulla politica, accolta da (rinnovati o nuovi) partiti finalmente sottoposti alla responsabilità politica, con conseguente aumento della fiducia reciproca e della supremazia della legge, e quindi ripresa della capacità di innovare secondo la catena causale descritta nel libro. Capussela immagina questo processo come una sequenza lenta, in cui ogni passaggio si scontra con un problema di azione collettiva e con la mancanza di organizzazioni in grado di portare avanti gli interessi delle maggioranze latenti.

La presa di coscienza della maggioranza potrebbe essere innescata, secondo Capussela, da contributi di qualsiasi genere dell’élite intellettuale. Possiamo tuttavia immaginare che la barriera che separa i cittadini dalle élite intellettuali e politiche, testimoniata dagli allarmanti dati sulle competenze linguistiche degli adulti italiani, impedisca alla battaglia di idee invocata da Capussela di raggiungere proprio le maggioranze che dovrebbero beneficiarne. Il ricordo dell’occasione mancata degli anni 1991-1994, riportata nel libro, in cui il palesarsi dei difetti dell’equilibrio su cui l’Italia era assestata «spinse la tensione tra i comportamenti opportunistici dei cittadini e le loro preferenze latenti a un punto di rottura, che scatenò una domanda corale di “cambiamento”», smorza notevolmente l’ottimismo che permea le riflessioni conclusive di Declino Italia: persino allora si finì per riassestarsi sul precedente equilibrio.

È purtroppo difficile immaginare che oggi, con strumenti di democrazia più deboli di allora e con partiti e sindacati sempre più vittime delle minoranze organizzate, ci sia margine per una movimentazione di tale portata. Potremmo pensare a un’alternativa di tipo top-down, più impopolare ma forse più verosimile: se la spinta al cambiamento non riesce ad arrivare dalla maggioranza non organizzata, e se la classe politica italiana risulta inadeguata nel proporre credibili programmi di crescita, un ruolo decisivo potrebbe averlo l’Europa. La natura vincolante di alcuni patti potrebbe fornire credibilità agli occhi dei cittadini ai programmi politici nazionali, come può avvenire nei prossimi anni per l’utilizzo dei fondi di Next Generation EU. I cittadini potrebbero allora modificare le proprie aspettative nei confronti della classe politica e quindi avere maggiore fiducia nel raggiungimento di un equilibrio superiore, con conseguente adeguamento delle aspettative, degli interessi e dei comportamenti. Il dibattito è aperto, proprio come nelle intenzioni di Capussela: la soluzione non è univoca né definita, l’importante è che se ne inizi a discutere.


[1] Andrea Capussela è stato a capo dell’ufficio economico dell’International Civilian Office in Kosovo, e consigliere del Ministro dell’Economia della Moldavia per conto dell’Unione Europea. Ha lavorato sullo sviluppo della Calabria e tiene incontri nelle scuole sull’etica delle regole.

[2] The Political Economy of Italy’s Decline, Oxford University Press 2018; tradotto in italiano come Declino. Una storia italiana, Luiss University Press 2019. Già recensito su Pandora Rivista da Giacomo Gabbuti.

[3] L’autore riporta in particolare i risultati delle indagini sulla rule of law, sulla corruzione, sulla tutela degli azionisti di minoranza e sull’affidabilità dei bilanci delle imprese.

[4] L’autore riporta i risultati dell’indagine PIAAC sulle competenze degli adulti, secondo i quali gli adulti italiani si trovano all’ultimo posto dei paesi avanzati per competenze linguistiche. La ragione, più che la qualità dell’istruzione in età scolare, sembrerebbe essere l’analfabetismo di ritorno in età adulta.

Scritto da
Francesca Subioli

Dottoranda di ricerca in Economia politica alla “Sapienza” Università di Roma, si interessa di disuguaglianze socio-economiche, mobilità sociale e reddituale, uguaglianza di opportunità e polarizzazione sociale.

Pandora Rivista esiste grazie a te. Sostienila!

Se pensi che questo e altri articoli di Pandora Rivista affrontino argomenti interessanti e propongano approfondimenti di qualità, forse potresti pensare di sostenere il nostro progetto, che esiste grazie ai suoi lettori e ai giovani redattori che lo animano. Il modo più semplice è abbonarsi alla rivista cartacea e ai contenuti online Pandora+, è anche possibile regalare l’abbonamento. Grazie!

Abbonati ora

Seguici