Recensione a: Miguel Benasayag e Teodoro Cohen, Del dialogo nella complessità, Pensa Multimedia, Lecce 2022, pp. 144, 15 euro (scheda libro)
Scritto da Andrea Vincenzo Gasparri
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Cos’è il dialogo? Chi è il dialogante? È possibile elaborare una pura teoria del dialogo, che prescinda dai concreti contesti in cui questo va a situarsi? Se la risposta è negativa, è forse impossibile riflettere sul dialogo come fenomeno nel suo insieme, disperso nella specificità di ciascun contesto dialogico?
Questi interrogativi, e le strade che sembrano aprire, hanno spinto Miguel Benasayag, insieme a Teodoro Cohen, a concentrarsi sul tema del dialogo e a cercare di offrire una nuova prospettiva sull’argomento. Un’ardua missione: se da un lato il dialogo conosce una lunghissima storia, comparendo come una delle prime forme con cui la filosofia ha deciso di mostrarsi al di fuori delle scuole, dall’altro ha vissuto, negli ultimi cinquant’anni, una vera e propria renaissance filosofica, ma non solo. Sentiamo ogni giorno parlare di dialogo sotto molteplici punti di vista: dialogo fra nazioni in conflitto, dialogo interculturale, dialogo interreligioso, dialogo fra individui membri di una società massificata.
Come riprendere le lunga fila di questa intricata matassa? Un’indicazione metodologica sembra venirci offerta dagli autori proprio nell’Introduzione del libro: «Non una critica cinica al dialogo tout court, né un’apologia dello scontro costi quel che costi. Ma la consapevolezza che la negatività dell’esistenza non sia estirpabile tramite pratiche di buona volontà […] e che non esiste “la buona forma”, sia essa dialogica o di altra natura» (pp. 9-10). In questo breve ma denso passo ritroviamo numerosi elementi, fondamentali per capire tanto la prospettiva filosofica adottata dagli autori, quanto la metodologia che essi intendono assumere di fronte a un tema tanto vasto. Quanto al primo punto, emerge chiaramente che per Benasayag non è possibile, da un punto di vista filosofico, schierarsi bruscamente a favore o contro il dialogo, senza prima prendere consapevolezza di una negatività dell’esistenza, e cioè senza prima porre una questione di carattere ontologico. Vedremo più avanti cosa questo voglia dire concretamente. Tale scelta filosofica è già, in realtà, una scelta metodologica: se non è possibile entrare nella questione del dialogo dalla porta principale, nel primo capitolo Benasayag accompagnerà il lettore lungo una ricostruzione del contesto post-moderno – sebbene il filosofo argentino preferisca a post-moderno il termine “complessità”, come vedremo a breve – e del terreno dove quest’ultimo affonda le sue radici, necessaria per porre seriamente la questione del dialogo. È opportuno sottolineare come il taglio che il saggio intende assumere non sia di carattere specialistico, ma divulgativo. Le ricostruzioni storico-filosofiche saranno di necessità sintetiche, come avvertono gli stessi autori. L’intento non è, ancora una volta, quello di fornire spiegazioni tecniche delle trasformazioni fra modernità e contemporaneità, quanto quello di cogliere, in un certo senso, lo Zeitgeist di tali epoche. Alla luce di quanto detto in questa introduzione, si può facilmente comprendere come le due parti del titolo del saggio qui considerato giochino un ruolo egualmente importante: se si vuole riflettere “del dialogo” nel XXI secolo, lo si potrà fare solo situandolo “nella complessità”, di cui ora ci occuperemo brevemente.
La complessità e le sue radici
“Complessità” è la categoria sotto cui Benasayag intende ricondurre l’epoca odierna – il cui inizio è rintracciabile senza dubbio nel Novecento –, per evidenziare esplicitamente l’impossibilità di raccoglierla sotto un termine definente. Se tale epoca è complessa, lo è in quanto frutto delle estreme conseguenze di processi che affondano le radici in un’altra epoca, quella della Modernità. È importante notare come tali categorie non vogliano tanto, o solamente, etichettare periodi storici, quanto evidenziare un cambiamento epocale, l’ontologia sottesa al «modo di produzione, di vivere, di abitare il mondo, pensare, agire, categorizzare» (p. 16) di un’epoca – riprendendo in questo modo un’idea di “ontologie” chiaramente ispirata all’antropologo francese Philippe Descola, che Benasayag non manca di citare e ricordare. L’ontologia della Modernità è caratterizzata da due movimenti apparentemente contrastanti: separazione e inclusione. Se la separazione è quella del soggetto dall’oggetto, del corpo dall’anima, della coscienza dalla spazialità, il movimento complementare di inclusione è quello della realtà nella mente, alla luce di un modo di intendere la conoscenza che non è più il theorein greco, ma il “rappresentare”. In altre parole, la Modernità è l’epoca della fede nel progresso, l’epoca in cui la ragione si crede capace di conoscere il mondo, di avere una presa e un potere su di esso, è l’epoca dell’individuo – dove “individuo” indica, per Benasayag, l’uomo occidentale – elevato a misura di tutte le cose.
A questo punto non stupisce perché il Novecento segni la fine della Modernità. In quanto secolo della crisi del senso, della ragione, del progresso, esso aprirà le porte a una «dimensione caotica» (p. 40), a una «molteplicità contraddittoria» (p. 25), in cui la solidità dell’individuo si frantuma nella nuova immagine del “profilo”: un aggregato di microcomportamenti e microinformazioni con cui le macchine possono entrare in contatto. Vedremo più avanti le importanti conseguenze che tale categoria produrrà nell’elaborazione di una riflessione circa le possibilità del dialogo.
Le problematicità alla base della proposta di Benasayag
Dopo esserci brevemente soffermati sul significato e sull’importanza della complessità, riteniamo sia doveroso concentrarci su alcune problematicità che risiedono alla base dell’originale proposta teorica di Benasayag, di cui ci occuperemo subito successivamente. Il filosofo argentino è ben consapevole del fatto che elaborare una riflessione filosofica sul dialogo significa confrontarsi con alcuni dei più importanti temi della filosofia del Novecento, come lo statuto della parola, del linguaggio e della relazione che grazie a questo si instaura fra essere umano e realtà. Alla luce di tale consapevolezza, Benasayag, prima di esporre la propria “ontologia Mamotreto”, si propone di tracciare delle linee di demarcazione rispetto ad altre importanti posizioni filosofiche. In questo senso l’autore procede a delineare una «posizione della trasparenza» (p. 66): caratterizzata da una fiducia nel linguaggio come strumento che traduce fedelmente la realtà, come «orizzonte di promessa di un’armonia possibile» (ibid.), questa posizione guarda ai problemi tanto filosofici quanto della società, come situazioni in cui manca “la parola adatta”, in cui la negatività è vista solamente come una mancanza, un “non ancora” in attesa di essere detto. Concludendo tale descrizione dai toni fortemente critici – senza però citare alcun nome di riferimento –, l’autore afferma che tutte le tradizioni filosofiche riconducibili a questa posizione si poggerebbero sulla tendenza più generale «che identifica nel linguaggio il custode dell’Essere (Heidegger), in una visione fondamentalmente logo-antropocentrica» (p. 67).
Ora, questa espressione, che sembra essere di minore importanza, ci sembra costituisca una fonte di problematicità. Se si pensa che viene ripetuta più volte lungo il corso del saggio (cfr. p. 67, p. 70, p. 116.), senza essere ulteriormente elaborata, la citazione assume dei tratti quasi caricaturali rispetto alla celebre affermazione heideggeriana per cui il linguaggio, più che custode dell’essere, «è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo»[1]. In altre parole, lungi dal volere intraprendere un dibattito interpretativo, ci sembra troppo conveniente riportare una non meglio precisata posizione di “trasparenza del linguaggio” ad Heidegger, i cui sforzi teoretici si sono invece sempre mossi nella direzione di pensare la verità come dis-velamento, aletheia, che accade nel linguaggio. In tale disvelamento, l’accento non è tanto posto sull’annullamento del velamento, quanto sul velamento stesso – sul fatto, cioè, che alla verità appartenga costitutivamente la non-verità, che l’essere si essenzi obliandosi, sottraendosi – e sul fatto che l’uomo possa custodire tale verità. Detto questo, la questione si fa più chiara: Benasayag sembra problematicamente leggere l’aletheia heideggeriana come “traduzione”[2], e sembra intendere “l’essere”, come dimostrato dall’uso fatto nel secondo capitolo, come totalità dell’ente che viene tradotto dal linguaggio[3], nonostante Heidegger avverta come, nel suo pensiero, tale parola debba essere diversamente intesa, alla luce del concetto di differenza ontologica – su cui ora non possiamo evidentemente soffermarci. Al di là della lettura problematica, per porre un punto a questa prima questione, pensiamo che qui Benasayag abbia forse perso l’occasione di trovare in Heidegger un alleato per la sua proposta di una verità come nuova dimensione dell’essere che si crea nella conflittualità – e cioè nella relazione – dell’uomo con la realtà.
In secondo luogo, vorremmo porre l’attenzione sull’uso che viene fatto lungo i primi due capitoli della teoria di David Bohm. La teoria sul dialogo del fisico americano diviene oggetto di lucide critiche da parte del filosofo argentino: se da un lato viene apprezzato il carattere di necessità che viene attribuito al dialogo in quanto oggetto di riflessione e pratica da incentivare nelle società, dall’altro la teoria bohmiana sembra essere figlia coerente dei presupposti che hanno fondato la Modernità. Peccando di eccessivo razionalismo, la teoria bohmiana, nel pensare il dialogo come atto di condivisione, riduce il dialogante a «una pura coscienza pensante, distaccandosi da tutto ciò che lo territorializza e lo definisce nella sua singolarità» (p. 48). Ciò che la teoria bohmiana realizza è allora una neutralizzazione della multidimensionalità dell’essere umano, che per Benasayag è, come vedremo, un punto assolutamente fondamentale, insieme alla necessità di pensare il dialogo congiuntamente alla fatticità dei contesti dialogici. In altre parole, l’intento è quello di mostrare alcune ingenuità filosofiche, figlie della modernità e non più accettabili nella molteplicità contraddittoria della complessità, della teoria di Bohm.
La questione ci sembra divenire problematica nel momento in cui Bohm, fisico, attraverso un’operazione di “metonimia” (cfr. p. 98), viene eletto a rappresentante di una generale visione – filosofica – del dialogo, della razionalità, del linguaggio, nonostante lo stesso Benasayag riconosca più avanti, citando Deleuze, che quando si parla di filosofi «non ci si trova mai sullo stesso piano»[4]. Il fisico americano è infatti l’autore più citato in tutto il libro, che sembra invece eclissare alcune imponenti personalità filosofiche che sul dialogo hanno a lungo lavorato, come Jürgen Habermas, citato una sola volta. Per concludere, ci sembra che, nonostante la portata divulgativa del testo, Benasayag avrebbe potuto scegliere, nel suo dialogo sul dialogo, degli interlocutori più rappresentativi, senza schiacciare l’obiettivo critico in un’operazione metonimica.
L’ontologia Mamotreto e la possibilità del dialogo
A questo punto è possibile considerare il vero contributo che il filosofo argentino intende offrire. Come anticipato in sede introduttiva, per Benasayag parlare del dialogo significa già affrontare una questione ontologica circa l’essere e l’identità dei parlanti, per poter delineare le possibilità del dialogo. Il quadro ontologico che Benasayag qui adotta, frutto di riflessioni condotte in altri lavori – come La singolarità del vivente[5] e Le nuove figure dell’agire[6] – è caratterizzato da due elementi fondamentali: monismo e immanentismo. In tale visione unitaria dell’essere, debitrice della riflessione spinoziana, è possibile però rinvenire tre differenti livelli, che articolano le varie componenti della realtà in relazione fra loro, senza perdere di vista il monismo di partenza. Questi tre livelli – campo biologico, artefatti e misti – sono caratterizzati da un rapporto dinamico e conflittuale, sebbene non diretto ma mediato da una «barriera trasduttiva e stocastica» (p. 71). Il concetto di trasduzione e funzionamento stocastico sono essenziali e descrivono il modo di interazione dei suddetti livelli, indicandolo non come trasmissione di informazioni, ma come perturbazione non codificabile.
In questa cornice di una realtà articolata e conflittuale, appare evidente come i dialoganti non possano essere assimilati a unità sostanziali e razionali. Se la precedente articolazione si riflette anche in noi, in quanto “partecipanti” dei tre livelli del reale, la multidimensionalità caratterizzerà anche l’identità dell’essere umano, mai riducibile ad un unico attributo. Il dialogo, proprio per questo, non potrà mai essere la via per l’accesso totale all’altro; al contrario, è abitato dall’asimmetria e dall’alterità, e perciò non potrà mai rivelare l’essenza di ciò che parliamo. Nonostante ciò, potrà illuminarci circa una delle sue costitutive dimensioni dalla nostra prospettiva, sempre in maniera trasduttiva e stocastica, conflittuale e dinamica.
Attraverso questa restituzione tanto lucida quanto efficace della fatticità del nostro essere e del nostro porci in dialogo, Benasayag esclude la possibilità di qualsiasi approccio ingenuamente razionalista al dialogo, in favore di un pensiero e di un agire situazionali. Tutto ciò ha una conseguenza estremamente importante circa la possibilità del dialogo: non sempre dialogare è possibile. Il pensiero situazionale è un pensiero che si oppone tanto all’universalismo figlio della modernità, per cui non si può che giungere a una giusta conclusione, tanto al relativismo figlio della complessità frammentaria, per cui dialogare non è mai possibile veramente. Per il pensiero situazionale il dialogo è possibile se la concreta situazione lo permette. Benasayag qui, a buona ragione, smaschera l’ipocrisia dal «retrogusto colonialista» (p. 118) delle posizioni del “dovere del dialogo”, per cui la possibilità di dialogare non dovrebbe essere sottratta a nessuno. L’ipocrisia risiederebbe nel fatto che accettare il dialogo significa già accettare le regole di un contesto, i suoi rapporti di forza, e talvolta questo non può essere possibile, come nel caso dei popoli indigeni del Sud America e delle multinazionali che deforestano i loro territori.
Per concludere, l’indicazione finale di Benasayag è allora un invito ad assumere quel legame ontologico che ci unisce in una medesima situazione: ciò significa accettarne il grado minimo di conflittualità e di asimmetria. Senza cedere al sogno di un giorno del “mai più”, ovvero di un giorno della totale estinzione della conflittualità nel e del reale. Ma al contrario agendo «con la convinzione che, in mezzo all’inferno, sia necessario trovare la maniera di resistere e di fermare la sua avanzata» (p. 137).
[1]Martin Heidegger, Lettera sull’umanismo, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 267. Semmai è l’uomo, secondo una altrettanto celebre espressione, ad essere «il pastore dell’essere», Ivi, p.284.
[2] Già nel primo capitolo infatti, Benasayag accosta, in nota a piè di pagina, la verità come aletheia allo «scoprire qualcosa che era lì da sempre e attendeva di essere svelato» (p. 18). Si segnali solamente come la verità “heideggeriana” sia intesa dai principali studiosi del filosofo come una verità il cui «carattere non metafisico, ma differenziale è di non stare in se stessa, ma di prodursi essenzialmente nell’uomo, anche se non per l’uomo» o come di «un’apertura di cui [l’uomo] non dispone e che tuttavia non accade senza di lui» Mario Ruggenini, L’uomo e la differenza, in I fenomeni e le parole, Marietti, Genova 1992, p. 151, p. 148.
[3] A riprova di ciò vi è l’affermazione per cui l’uomo avrebbe «ruolo centrale all’interno dell’essere» (p. 70). Ma si può essere “all’interno” solo di un essere oggettivato a totalità dell’ente, e non di un essere pensato come differenza.
[4] Gilles Deleuze e Félix Guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 1996, p. 18, citato a p. 102.
[5] Miguel Benasayag, La singolarità del vivente, Jacabook, Milano 2021.
[6] Miguel Benasayag e Bastien Cany, Les nouvelle figures de l’agir, La Découverte, Parigi 2021.