“Democrazia e sicurezza” a cura di Angelo Panebianco
- 20 Aprile 2022

“Democrazia e sicurezza” a cura di Angelo Panebianco

Recensione a: Angelo Panebianco (a cura di), Democrazia e sicurezza. Società occidentali e violenza collettiva, il Mulino, Bologna 2021, pp. 344, euro 28 (scheda libro)

Scritto da Andrea Germani

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Nell’estate del 1989 la rivista National Interest pubblicò un articolo del politologo Francis Fukuyama che riscosse grande successo: The End of History?[1]. Il paper tratta il concetto di fine della storia, desunto dalla lettura di Hegel offerta da Kojève negli anni Trenta, quando riconobbe nel filosofo tedesco il preconizzatore di un ordine universale sul modello delle emergenti civiltà borghesi. Il tema è noto; ci interessa qui evidenziare che, nonostante la fiducia nell’avvento di un nuovo ordine globale, Fukuyama non riconobbe mai la possibilità di estendere su scala globale i principi liberal-democratici usciti vittoriosi dalla guerra fredda. Nel 1993 Samuel Huntington pubblicò su Foreign Affairs un articolo altrettanto dibattuto, The Clash of Civilizations?[2] in cui suggeriva che nuovi attori e nuovi motori della storia avrebbero messo alla prova la leadership americana. Sepolte le ideologie, e i contestuali sistemi economico-politici, le forme di civilizzazione sarebbero state all’origine di nuovi conflitti a bassa intensità capaci di rendere obsoleta, dopo secoli di esistenza, la formula della guerra simmetrica fra Stati sovrani.

È sintomatico che sia Fukuyama sia Huntington posero sotto forma di interrogativo i titoli dei loro articoli. Dagli scritti derivarono due influenti teorie messe in discussione dagli sviluppi futuri, a riprova della difficoltà di fare previsioni puntuali anche di fronte all’evento che più di tutti sembrava aver sancito la fine della contrapposizione tra i due blocchi: la caduta del Muro di Berlino. Il recente ritorno sulla scena europea di una guerra d’invasione che coinvolge due Stati sovrani è un evento sicuramente eclatante, seppur non ci siano gli elementi per definirlo un ritrovato di epoche e ideologie superate dalla storia e dal progresso. Trent’anni dopo la pubblicazione di questi scritti possiamo dire di essere ancora lontani da una pax democratica che tenga il mondo euro-americano fuori dalle guerre convenzionali che hanno insanguinato il Novecento.

Il volume recensito in questa sede affronta un argomento di grande interesse, ritornato alla ribalta negli ultimi anni, secondo differenti prospettive: la sicurezza nei regimi democratici. Democrazia e sicurezza è una rassegna di saggi raccolti da Angelo Panebianco, professore emerito di Scienza Politica all’Università di Bologna, uscita per la collana Saggi de il Mulino. Il volume è il frutto del lavoro di un gruppo di ricerca formatosi all’interno all’Associazione il Mulino nel 2018. Gli autori dei saggi hanno studiato le declinazioni del concetto di sicurezza nazionale nel contesto delle democrazie occidentali, concentrandosi sul tema della security (minacce a persone fisiche provenienti da altre persone fisiche) tralasciando quello più vasto della safety (minacce a persone o cose provenienti da eventi accidentali). Il lavoro intende presentare lo stato dell’arte delle ricerche di scienze sociali, economiche e tecnologiche nel campo della sicurezza e, più ampiamente, della violenza collettiva, oltre a proporre delle teorie e porre dei quesiti per prepararsi alle sfide future.

L’etichetta violenza collettiva tiene in considerazione «non soltanto le varie forme di guerra simmetrica ma anche le azioni terroristiche» (p. 9), oltre alle ripercussioni sull’ordine pubblico di casi di violenza privata. Il testo è diviso in tre parti: nella prima si analizza il fenomeno della violenza collettiva nelle democrazie, ripercorrendone la storia, civile e militare, e sondando la percezione del rischio nell’opinione pubblica; nella seconda sono presi in esame i conflitti che il mondo occidentale si trova ad affrontare, dal terrorismo internazionale ai nuovi fronti di conflittualità interna – nel caso particolare delle politiche di confine come risposta ai flussi migratori – ed esterna – il riverbero nel mondo democratico delle guerre vicine e lontane; l’ultima parte è incentrata su temi di ordine economico e tecnologico, dall’economia di guerra alla cyberwarfare.

La guerra in Occidente ha una lunga storia alle spalle. L’opera di democratizzazione collaterale al Piano Marshall ha garantito un lungo periodo di pace, estraneo alla tradizione europea sin dai tempi di Carlo Magno. Prima la Respublica Christiana medievale, con gli eserciti impegnati a difendere la cristianità e a portare, o riportare, il verbo di Roma, poi la modernità delle devastanti guerre di religione: solo con la pace di Westfalia del 1648 si riuscì a trovare il terreno per una soluzione diplomatica delle controversie fra Stati sovrani – lo Jus Publicum Europeaum di Schmitt – che potesse evitare la distruzione generalizzata. L’evento creò le condizioni per le contemporanee guerre nazionali e la loro lenta degenerazione in guerra totale, totaler Krieg, fino allo sterminio della popolazione nemica come prassi di guerra.

La democratizzazione del dopoguerra ha permesso la deviazione dal modello che Arnold Wolfers definì “a palle di biliardo”, per cui gli Stati nello stringere o rompere alleanze osservano solo le urgenze della ragion di Stato. Panebianco già pochi anni dopo la caduta del Muro discusse il problema della guerra nelle democrazie mature[3] avanzando quattro interpretazioni per approcciarsi alla fatidica domanda se le democrazie facciano o meno la guerra: «1) le democrazie non sono pacifiche per le stesse ragioni per cui non lo sono i regimi autoritari»; «2) le democrazie sono potenzialmente più pacifiche dei regimi autoritari ma sono vittime del bellicismo di questi ultimi», segue «3) le democrazie non sono pacifiche nei loro rapporti con i regimi autoritari per le stesse ragioni per cui, invece, lo sono nei loro rapporti reciproci», infine, «4) le democrazie non sono pacifiche per ragioni diverse da quelle per cui non lo sono i regimi autoritari» (Panebianco 1997, p. 91).

Leggendo i saggi che compongono il volume si può cogliere, nelle loro differenze disciplinari e metodologiche, come la sicurezza nazionale sia un tema trasversale. La percezione di insicurezza è aumentata a seguito dagli attacchi terroristici dell’ultimo ventennio, perlopiù di matrice islamista o di estrema destra; il fenomeno ha reso la paura per la propria sicurezza una voce rilevante, seppur non la più importante, fra le preoccupazioni dei cittadini occidentali. L’aumento della percezione del rischio non necessariamente corrisponde a un effettivo aumento del rischio: talvolta è conseguenza della “militarizzazione” dello scontro fra la forza pubblica e il terrorismo internazionale (la war on terror di Bush) e la criminalità organizzata (la war on drugs di Nixon). Come scrive Francesco Strazzari nel suo saggio: «[…] poteri pubblici che non si legittimano più in base alla propria prerogativa a combattere e vincere guerre contro nemici dotati di omologa sembianza statuale, ma assumono identità istituzionale in quanto schierati nella promessa di maggior efficacia nella guerra a criminali e terroristi. In altre parole, si possono cogliere in queste dinamiche i tratti di un passaggio storico dal warfare state al crimefare state» (p. 195).

L’abuso del termine guerra – esperito in questo biennio pandemico nell’ambito della lotta al virus – rientra in una serie di recenti mutamenti linguistici che agevolano l’uso di analogie militari quando non si tratta di guerra ma rendono, paradossalmente, difficile parlarne nel caso in cui ci sia effettivamente una guerra in corso, con tutte le conseguenze che questa riforma semantica ha sulle corti di diritto internazionale. Le dichiarazioni di guerra non sono più in uso e alcune definizioni più “accettabili” hanno sostituito la parola “guerra”: operazione di polizia internazionale, missione umanitaria, intervento di pace o, nel caso dell’invasione russa in Ucraina in corso, operazione militare speciale. Molti di questi interventi sono giustificati dal dovere morale o politico di fermare una guerra civile o di sostenere una fazione minoritaria ribelle, con il rischio che il conflitto possa degenerare in una proxy war. La normalizzazione della guerra è frutto anche della commistione del mondo civile, la vita e la prassi politica ordinarie, con quello militare, la logistica militare e i soldati armati in uniforme: si pensi all’uso di ufficiali militari per operazioni civili o di soldati semplici per pattugliare le strade. Scelte in controtendenza con l’austerità delle truppe novecentesche, dislocate ai confini o nelle zone di pericolo, visto il costante stato di allerta.

Anche i confini hanno cambiato volto: un tempo frontiere militarizzate che segnavano la distanza fra i due blocchi – come il caso del Friuli o, ancora di più, della città di Berlino – oggi sono il simbolo delle politiche di governance dei flussi migratori, sintomo di una diffusa destabilizzazione al di là del Mediterraneo il cui eco raggiunge l’Europa. Democrazia e sicurezza nazionale vanno di pari passo anche sul versante tecno-economico: quello che Eisenhower, nel discorso di congedo dalla Casa Bianca del 17 gennaio 1961, definì military-industrial complex è ancora oggi una componente essenziale dello sviluppo economico e politico, oltre che del progresso informatico, cibernetico e ingegneristico. Nell’Occidente dove guerra e mercato sono una coppia inscindibile non si pone più il dilemma “burro o cannoni”, perché i due possono e devono coesistere.

Il tema della sicurezza nazionale investe le democrazie condizionando il gioco democratico – nelle pratiche di legittimazione e nel ruolo di authority, ability e attitude delle assemblee di eletti – lo standard di benessere – economia e sicurezza, in questo orizzonte interdipendenti – e il progresso scientifico. In questo scenario la garanzia di sicurezza è la conditio sine qua non dell’esistenza stessa delle democrazie e dell’ordine liberale, immerso in un campo di tensione con l’ordine non-liberale, capeggiato dalle potenze regionali Russia e Cina, con cui va a costituire l’“ordine internazionale” – Uni-multipolar[4] nelle parole di Huntington – i cui player principali fanno pressione sugli attori che rientrano nella loro sfera d’influenza, limitandoli nelle scelte sovrane in cambio di determinati benefici, la sicurezza su tutti. Condizione possibile perché, come ricorda Panebianco, la contemporanea sicurezza nazionale è la versione democratica della moderna Ragion di Stato (si veda p. 38). Questo ordine, nelle parole di Michele Chiaruzzi, «dipende da un insieme di regole e istituzioni più profonde e persistenti di quelle che si sono imposte con l’ordine liberale sorto dall’affermazione internazionale delle potenze democratiche guidate dagli Stati Uniti» (p. 155).

Democrazia e sicurezza tenta di disvelare la complessità del problema della sicurezza, evidenziandone la pervasività nelle ramificazioni del settore pubblico e nella vita quotidiana della società civile, e di fornire una bussola per orientarsi in tempi critici per le democrazie, sminuite da chi ne denuncia presunte fragilità strutturali che le renderebbero inadatte allo scontro con forze autoritarie che non fanno segreto del loro regresso autocratico e nazionalistico. Il fatto che alcune di queste forze si siano mascherate da democrazie per decenni – o tentino ancora, goffamente, di passare per nazioni tolleranti e pluraliste – evidenzia l’esigenza per gli attori globali, seppur non tutti, di darsi una parvenza democratica e acquisire potere contrattuale nei consessi internazionali, evitando di diventare isole autarchiche in preda a deliri paranoici e cospirazionisti.

Le democrazie occidentali si qualificano per la loro ricerca di un perfetto equilibrio fra le libertà individuali e l’eguaglianza formale e sostanziale dei cittadini, portato di una visione laica e razionale della giustizia maturata quando i progressi in senso democratico sembravano aver reso la guerra un mezzo superato per risolvere le controversie. «Dove non passano le merci, passeranno gli eserciti»: la celebre frase attribuita a Frédéric Bastiat rende senso di quello che è stato a lungo il doppio obiettivo del liberalismo, ossia garantire pace e benessere, in una dimensione in cui la sicurezza fisica e il miglioramento delle condizioni materiali sono interdipendenti. Nonostante le enormi conquiste raggiunte dalla liberal-democrazia, resta difficile sostenere l’idea di Bastiat se si considera l’importanza che ha ancora oggi per uno Stato democratico proteggere se stesso e chiunque subisca le violenze di regimi illiberali.

Il politologo di scuola neorealista Kenneth Waltz, in un passaggio di un suo articolo citato all’interno di questo volume, esplicita il bisogno di una politica di potenza per le democrazie, affinché l’ordine internazionale non rappresenti per loro una minaccia: «If the world can be made more safe for democracy only by making it democratic, then all means are permitted and to use them becomes a duty»[5]. L’affermazione di Waltz merita di essere discussa, se necessario criticata, ma coglie un punto fondamentale che costituisce probabilmente l’aspetto non tenuto debitamente in considerazione da Fukuyama alla fine della guerra fredda: un mondo dove democrazie e dittature convivono, e condividono affari e confini, non è un mondo pacificato (né tantomeno un mondo in cui sono rimasti i gruppi etnici informali a combattersi, come propose Huntington), ma un mondo in cui, parafrasando Bastiat, le merci passano solo se scortate dagli eserciti.


[1] Francis Fukuyama, The End of History?, «The National Interest», 1989, (16): 3 – 18.

[2] Samuel Huntington, The Clash of Civilizations?, «Foreign Affairs», 1993, 72 (3): 22 – 49.

[3] Angelo Panebianco, Guerrieri democratici. Le democrazie e la politica di potenza, il Mulino, Bologna 1997.

[4] Samuel Huntington, A Uni-Multipolar World?, AEI Newsletter – Foreign and Defense Policy, 1 luglio 1998.

[5] Kenneth Waltz, Structural Realism after the Cold War, «International Security», 2000, 25 (1), 5 – 41, p. 12.

Scritto da
Andrea Germani

Nato a Perugia, concluso il liceo classico si è spostato a Bologna per studiare filosofia, successivamente ha conseguito un dottorato in Diritto e Scienze Umane all’Università dell’Insubria specializzandosi in Filosofia Politica. Attualmente è Knowledge Transfer Manager all’Università di Bologna e collabora con alcune riviste di cultura; il suo podcast “Libri che NON hanno fatto la storia” è disponibile sulle principali piattaforme.

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