Scritto da Carlotta Mingardi
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A più di un anno dall’invasione russa dell’Ucraina, il ritorno della guerra in Europa rende necessario ripensarne il “posto”, ponendo complesse sfide interne ed esterne alle democrazie. Queste sono chiamate a ripensare se stesse di fronte agli autoritarismi, declinando nuovamente il nesso fra dimensione domestica e internazionale. In questa intervista Vittorio Emanuele Parsi – Professore ordinario di relazioni internazionali presso l’Università Cattolica di Milano e Direttore di ASERI Alta scuola di economia e relazioni internazionali – affronta queste tematiche a partire dal suo ultimo libro: Il posto della guerra e il costo della libertà, edito da Bompiani.
Il suo ultimo saggio Il posto della guerra e il costo della libertà (Bompiani 2022) riflette, a partire dall’offensiva russa in dell’Ucraina in atto dal 24 febbraio 2022, sul bisogno per i cittadini europei di ripensare lo strumento della guerra e il ruolo che essa occupa nelle nostre vite. L’assenza della guerra interstatale in Europa, come conseguenza dell’architettura istituzionale internazionale post-Seconda guerra mondiale, era anche uno dei temi approfonditi nel suo precedente saggio, Titanic. Naufragio o cambio di rotta per l’ordine liberale. In che modo, alla luce del protrarsi di questo conflitto, occorre secondo lei “ripensare la guerra”?
Vittorio Emanuele Parsi: A mio avviso ripensare la guerra significa, innanzitutto, riconoscere che questi ottant’anni hanno dimostrato, tutto sommato, l’efficacia della teoria della pace democratica: che la diffusione della democrazia, delle economie di mercato e l’istituzionalizzazione del tessuto del sistema internazionale hanno effettivamente funzionato, nell’eliminare la prospettiva della guerra tra le grandi potenze. Occorre riconoscere che questa sia una conquista enorme: soprattutto se si pensa che la guerra tra le grandi potenze è stata il canone dei rapporti della politica internazionale dall’inizio del sistema, in particolare in Europa; e che il conflitto non sempre è stato legato a dissidi ideologici, ma a volte è sorto per la volontà di cambiare uno status quo insoddisfacente, o per prevenire un’evoluzione non gradita. In fondo, la Prima guerra mondiale è stata questo, così come tutte le guerre che si sono verificate dalla Pace di Westfalia in poi. Quindi, innanzitutto occorre riconoscere che quell’efficacia resta garantita. In questo ragionamento si inserisce, tuttavia, un elemento: cioè che, negli ultimi trent’anni, a partire dal 1990-1991, si è pensato che la dimensione mercatistica, di cui la globalizzazione è espressione molto forte e più concreta, potesse produrre da sé almeno l’assenza di conflitto. È sotto questo segno che fu ideata la politica di engagement con la Cina, perseguita dall’allora amministrazione Clinton; e anche la politica di engagement con la Russia post-sovietica, che tanto le diverse amministrazioni statunitensi, quanto l’Unione Europea e i principali Paesi europei nel loro complesso, hanno tentato di portare avanti nei confronti della Russia, con l’eccezione della Gran Bretagna. Sotto questo aspetto, sulla “sufficienza” della dimensione mercatistica per garantire la pace, si è invece visto che esiste un limite e che quest’approccio non garantisce una relazione pacifica tra Stati: anzi, sotto molteplici punti di vista, le relazioni con la Russia sono estremamente indicative. Basti portare un esempio: nel 2014 vi è stata la prima invasione dell’Ucraina e noi, dal 2014 al 2022, abbiamo aumentato la dipendenza dal gas russo. Questo è stato fatto sicuramente per motivazioni puramente coerenti con il capitalismo, inseguendo la ricerca di profitti più elevati e di costi più bassi dell’energia; ma, in parte, è stato fatto con il retropensiero che divenire così collegati avrebbe innalzato il costo dell’interruzione di tale interdipendenza, spingendo i russi a riflettere attentamente prima di rompere l’equilibrio. Oggi vediamo, invece, come i russi abbiano utilizzato tale interdipendenza come arma. Anche alla luce di questo, quindi, credo che sia necessario “ripensare la guerra”: perché non abbiamo, ad oggi, uno strumento nei nostri rapporti con i regimi autoritari che ci permetta di prevenirla. Abbiamo visto che la sola dimensione mercatistica, il fatto che tali regimi siano collegati all’interno del sistema capitalista internazionale, non basta a prevenire la guerra: di conseguenza, dobbiamo essere pronti a pensare a come reagire quando qualcuno muove guerra nei nostri confronti. Anche, banalmente, in termini di dissuasione: che deve essere molto più puntuale, tempestiva, credibile. La forza di dissuasione nei confronti dei Paesi non democratici, in caso di rottura della posizione pacifica, deve arrivare alla minaccia della sospensione, o alla fortissima riduzione dei rapporti economici con questi Paesi. Deve arrivare, come è avvenuto nei confronti della Russia, non solo al congelamento delle risorse finanziarie depositate nelle banche occidentali, ma al loro sequestro per finanziare la ricostruzione del Paese aggredito; e deve inoltre poter consentire misure finanziarie che colpiscano in maniera permanente i circoli del potere intorno al decisore. Parliamo quindi della possibilità di sequestrare patrimoni e asset finanziari non solo dei vertici politici, ma anche di tutti i vertici di quella zona grigia, di quella terra di mezzo che esiste tra la struttura politica dei sistemi autoritari e la loro struttura economica. “Ripensare la guerra” significa inoltre essere pronti a sostenere l’aggredito anche con strumenti militari, non illudendoci che la pace si possa fare da soli: la pace si fa in due. Infine, nella mia posizione, “ripensare la guerra” significa meno che mai ritenere che la guerra possa tornare uno strumento ordinario per la modifica dello status quo: ma neanche che la semplice rimozione della guerra possa far sì che questa non si verifichi. Questi ragionamenti sul ruolo della guerra devono inoltre inserirsi all’interno di un quadro più ampio di riflessione concettuale, che coinvolga ulteriori riflessioni sulle trasformazioni dello stesso capitalismo: in primo luogo su come, per esempio, il sistema del capitalismo finanziario vada trattato nel momento in cui vi entrano dei soggetti economici che appartengono a sistemi politici come i nuovi dispotismi; inoltre, su come sono cambiati i regimi autoritari in questi trent’anni, dato che mi sembra che non corrispondano più alle caratteristiche classiche dei regimi autoritari e totalitari, categorizzate negli anni della Guerra fredda. Bisogna capire esattamente come sono fatti e come funzionano, per individuare i punti su cui eventualmente agire. Infine, allo stesso modo, è necessario riflettere sulle trasformazioni della democrazia, sia in termini di minacce esterne, che in termini di minacce interne: un esempio su tutti, il tema della crescente oligopolizzazione dei mercati e della sempre più acuta tendenza degli oligopoli a trasformarsi in oligarchie, anche nelle democrazie. Abbiamo gli strumenti dello stato di diritto, come l’antitrust: questi però non sono sempre così efficaci, sono costosi da attivare, richiedono delle tempistiche piuttosto lunghe; si pensi per esempio al contenzioso che avemmo come Unione Europea nei confronti di Microsoft e a quanto sarebbe complicato, oggi, muoversi nei confronti di Amazon, Tesla o Huawei. Occorre quindi mettere in atto una riflessione concettuale più ampia, che comprenda anche tutti questi aspetti.
Lei già in precedenti lavori affrontava quelle che sono state le fragilità, sviluppatesi negli ultimi decenni, dell’ordine internazionale liberale e delle stesse democrazie che ne hanno costituito la spina dorsale. Al sopraggiungere della guerra, tali trasformazioni continuano a portare nuove difficoltà alle nostre società. Che tipo di impatto ha questo sull’ordine internazionale?
Vittorio Emanuele Parsi: Prima dello scoppio della guerra, le minacce esterne rimanevano in qualche modo sullo sfondo, per quanto fossero evidenti. C’era all’epoca il problema urgente della manutenzione della democrazia, mentre quello delle minacce esterne era in avvicinamento, ma non sembrava così imminente. La guerra ha ribaltato i termini della questione: non esiste nulla di più politico e più drammatico della guerra. È difficile che una cosa così politica non polarizzi e che qualcosa di così drammatico non radicalizzi. Innanzitutto, ora, la guerra va vinta: va impedito che quel sistema internazionale, già sottoposto a fortissime minacce interne e claudicante sull’aspetto esterno, venga abbattuto. Questo perché se venisse abbattuto, avremmo un sistema più confacente agli interessi, ai principi, ai valori e alle istituzioni dei sistemi autoritari e dei nuovi dispotismi. Ciò renderebbe la sopravvivenza della democrazia ancora più difficile, proprio per via di quella fortissima connessione che c’è, come ampiamente sottolineato nella letteratura internazionale sull’approccio liberale, ma anche su quello critico-marxista e costruttivista, tra dimensione nazionale e internazionale. Detto ciò, il comparire della guerra non fa venir meno i problemi interni. Per molti aspetti, la difficoltà delle democrazie a reagire in maniera compatta, a tenere sul lungo periodo, è accentuata dal fatto che all’interno delle democrazie vi sono una serie di problemi di inclusione molto forti, sia di natura politica che economica. Essi riguardano in particolare le persone più giovani, le persone di sesso femminile, le classi sociali più disagiate. Questi aspetti non spariscono al sopraggiungere della guerra: in qualche modo scalano di urgenza, ma la connessione tra questi aspetti, tra dimensione interna ed esterna, rimane e anzi continua ad emergere. Inoltre, restano le sfide transnazionali: da quelle ambientali, che sono le più evidenti; a quelle relative ai diritti elementari delle persone, tra cui quello dello spostamento, che è un tema delicatissimo ma che rimane; ad altri temi come la parità di genere, o, se vogliamo, della dignità di genere, perché in alcuni casi purtroppo si è alla mera premessa della parità, al mero riconoscimento della dignità. Questi temi restano e su questi temi l’assetto internazionale, che sia di un tipo o che sia di un altro, costituisce una variabile in più nell’equazione: la sovranità degli Stati e il sistema degli Stati non sono fatti per agevolare la risposta a questo tipo di problemi; dobbiamo quindi affrontare un nuovo tipo di sfida, con una struttura che non è stata creata per questo scopo. Detto ciò, va anche riconosciuto che proprio la fase di conflitto ci mostra che l’assetto liberale dell’ordine internazionale, con tutti i suoi problemi e le sue magagne, è comunque quello che lascia più spazio alla possibilità di affrontare in maniera cooperativa e sostenibile queste stesse sfide di carattere transnazionale, dal punto di vista sociale e politico. Il multilateralismo tra le democrazie è maggiormente possibile del multilateralismo tra democrazie e non democrazie. E i diritti, lo stesso liberalismo, hanno una vocazione universalista: per una giovane donna non ricca, sarebbe comunque preferibile vivere nel peggiore dei sistemi liberali che nella migliore delle autocrazie. Questo non fa dei sistemi liberali il paradiso: però è all’interno di quei sistemi, che si rende possibile una conversazione come questa. Nel momento in cui queste cose non fossero più garantite neanche qui, non se ne parlerebbe più da nessuna parte. Qui si apre un altro tema importante, relativo al rapporto Occidente-mondo. Non c’è dubbio che l’Occidente abbia delle responsabilità storiche per il suo plurisecolare passato imperialista e colonialista: per aver esportato le sue guerre nel mondo, culminate con le due guerre mondiali e per aver poi proseguito nell’instaurazione di rapporti impari con quello che abbiamo definito il “Sud” del mondo. Detto questo, l’Occidente è anche l’unico posto in cui si è verificato un avanzamento dei diritti, il riconoscimento di certi bisogni delle persone come diritti: tant’è che oggi in Occidente ci preoccupiamo che possa esserci un arretramento del riconoscimento dei bisogni in quanto diritti. Questa è una realizzazione concreta che, di fatto, è stata occidentale. Ecco perché anche molte critiche mosse in questi mesi nei confronti dell’Occidente, nonostante sia stata la Russia ad invadere l’Ucraina e non gli Stati Uniti, devono essere argomentativamente rintuzzate e smontate. Ora, lo scenario che abbiamo di fronte ci presenta una situazione in cui una serie di problemi si riassortiscono in termini di urgenza: alcuni continuano ad essere presenti, ma acquisiscono un carattere nuovo; esistono inoltre delle difficoltà, che sono proprie della struttura del sistema internazionale nell’affrontare questo tipo di problemi, ma esse ci danno anche indicazione che, nell’esistente, quel tipo di assetto è migliore; contemporaneamente, questa situazione ci indica anche che avere a fare con un sistema in cui proliferano istituzioni dispotiche è un’ulteriore questione da trattare. È chiaro che con tali regimi bisogna avere a che fare: la domanda è come.
Nel saggio lei introduce anche le caratteristiche di quello che definisce il “nuovo Occidente”, differente da quello esistente fino alla fine della Seconda guerra mondiale.
Vittorio Emanuele Parsi: Nel volume intendo il termine occidentale non come un trascinamento dal passato, ma per come definisco l’Occidente oggi, dopo la Seconda guerra mondiale: democrazia rappresentativa, economia di mercato, società aperta. Oggi il Giappone è Occidente, la Corea del Sud è Occidente, Taiwan è Occidente, né più né meno del Belgio, della Lituania, della Spagna. Questo è il tema, il punto su cui non si può venir meno: l’universalizzazione, il multilateralismo, vanno bene, a condizione che questo non avvenga a scapito della tenuta del modello democratico, mercatistico, sociale, “occidentale” nei principi. Da ribadire: non sto difendendo l’Occidente così come è oggi. Noi siamo lontani da come dovremmo essere: sostengo però che a questi principi si debba tenere fermo. Questo riguarda anche le riflessioni sul multipolarismo, di cui a volte si sente parlare in modo positivo: a mio avviso, il multipolarismo può essere un problema, se gli altri poli sono dispotici, perché comporterebbe una riduzione della capacità della democrazia e del sistema liberale di rimanere il punto di riferimento, l’architrave, il canone del sistema internazionale. Questo è molto pericoloso e la questione è estremamente complicata: lo vediamo per esempio nelle posizioni che hanno assunto i governi nei confronti della guerra in Ucraina. Pochissimi governi hanno votato a favore della Russia all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ma un numero non insignificante di governi si è astenuto: in gran parte governi africani e un certo numero di governi asiatici. La stragrande maggioranza dei governi astenuti sono non democratici, nei quali la percezione dell’Occidente come imperialismo, colonialismo e neocolonialismo è molto più forte della percezione dell’Occidente come società aperta, economia di mercato, democrazia rappresentativa. Questo per via delle contraddizioni che l’Occidente ha oggettivamente alimentato nel suo comportamento concreto in questi ultimi ottant’anni: nei quali c’è stata sì un’evoluzione, ma anche un trascinamento dal passato coloniale e imperialista. Le società aperte non sono il “tè delle cinque”, per così dire. Diverso invece è il caso della Russia, dove lo stesso elemento di disconoscimento incontra invece una sostanziale ipocrisia di fondo. Questa è legata al fatto che la transizione dall’impero zarista all’Unione Sovietica aveva collocato il rapporto di dominazione nei confronti delle popolazioni non russe dell’Unione su una retorica in cui gli stessi elementi cambiavano: c’erano sì Mosca e gli altri popoli, ma c’erano anche il socialismo e la rivoluzione. Quanto questo costituisca un’ipocrisia totale lo vediamo con Putin, che continua a muoversi lungo l’idea che la Russia non sia l’ultimo impero coloniale occidentale sopravvissuto al mondo. Nel caso della Cina, tuttavia, è ancora più plateale: la Cina è passata attraverso una rivoluzione comunista e il regime resta, per ideologia e per alcuni altri aspetti, comunista. Ma è anche un Paese del “Sud” del mondo, che si comporta in modo imperialista in Africa, in Asia, esattamente come gli altri. Questo ci deve tenere sull’avviso sul fatto che sì, c’è ipocrisia, c’è opportunismo, c’è doppiopesismo, però vi è anche un vissuto. L’argomentazione di alcuni regimi non democratici nei confronti dei propri sudditi funziona, perché poggia su di un’esperienza di colonialismo effettivamente avvenuta. Dobbiamo quindi chiarire alcuni punti: non possiamo accettare di vivere chiusi nel senso di colpa, ma dobbiamo distinguere. In quella distinzione, dobbiamo riconoscere che il lascito c’è, ha effetti di trascinamento alimentati dalle nostre incoerenze, ed è una variabile dell’equazione. Se ci muoviamo veramente in un approccio liberale, dobbiamo ricordare che l’approccio liberale è fermo sui principi, su cosa è meglio e cosa è peggio, cosa è accettabile e cosa non è accettabile: ma è anche estremamente pragmatico e critico, attento alle criticità nella valutazione concreta delle cose. Altrimenti saremmo alla rappresentazione dei buoni contro i cattivi e non è questo il punto. I valori e i principi delle democrazie liberali sono migliori di quelli dei regimi non liberali e noi ci confrontiamo continuamente con questi principi: a volte riusciamo pure ad attuarli e metterli in pratica, anche all’esterno. Ma ciò non toglie che questo non sempre avviene e ciò deve essere riconosciuto, altrimenti finiamo per prestare il fianco alle accuse di ipocrisia: un’accusa pericolosa, ma profondamente falsa.
Ha parlato di come secondo lei oggi anche Giappone, Corea del Sud e Taiwan possano definirsi Occidente. La Turchia è Occidente?
Vittorio Emanuele Parsi: La Turchia è diventata Occidente durante la Guerra fredda: perché all’epoca la Russia era l’Oriente, il mondo comunista. La Turchia è diventata un Paese occidentale schierandosi con “il mondo libero”, come si diceva allora in modo un po’ enfatico e che coincideva con l’Occidente. Tuttavia, noi non dobbiamo mai dimenticare che chiamiamo la Turchia un Paese occidentale solo perché fa parte dell’Alleanza Atlantica. Prima che entrasse nella NATO, la Turchia, già sotto Atatürk e poi sotto i suoi successori, era un Paese in fase di modernizzazione, parzialmente di secolarizzazione, parzialmente di laicizzazione, ma in nessun modo era definito un Paese occidentale. La fine della Guerra fredda ha portato a tensione due elementi: l’essere occidentale perché l’Oriente sono gli altri; e l’essere occidentale perché membro dell’Alleanza Atlantica. Dato che la Russia dal 1989 in poi non è più stata considerata Oriente, rimase l’interpretazione di “occidentale” come appartenente alla NATO. Tuttavia, nel momento in cui la Turchia inizia a comportarsi in maniera distonica rispetto agli altri Paesi dell’Alleanza, non ha più nessun elemento di “occidentalità”: la Turchia ha un governo che non vuole essere occidentale; si schiera su posizioni che non sono coerenti con la posizione occidentale; ha solo questa flebile membership, mentre fa di tutto per ostacolare, rallentare e alzare il prezzo della membership di Finlandia e Svezia, le quali invece sono estremamente occidentali. In questo modo, questa “occidentalità” si annacqua: ma sono le azioni del governo turco a portare la Turchia a non essere un Paese occidentale.
Che impatto può avere sulla tenuta e sulla compattezza dell’Alleanza Atlantica l’atteggiamento turco e il suo tentativo di porsi, all’interno di questa crisi, come mediatore favorito tra Russia e Ucraina?
Vittorio Emanuele Parsi: Sulla tenuta e sulla capacità operativa della NATO, l’azione della Turchia ha un impatto molto grave. Soprattutto sulla dimensione politica, sulla capacità dell’Alleanza di muoversi velocemente: Finlandia e Svezia sono lentamente avviate al processo di membership, ma di fatto stavano già lavorando congiuntamente con la NATO nel Baltico, in forze di difesa a terra e di difesa area. Anche se non si muovevano in sintonia ufficiale, avveniva comunque uno scambio di informazioni e uno scambio di posizione: le forze svedesi e finlandesi erano tutte schierate sul fronte russo. Quindi dal punto di vista operativo, si supplisce. Dal punto di vista politico invece questo è pericoloso, perché il semi-automatismo del vincolo di difesa dell’Alleanza Atlantica è certamente più forte delle rassicurazioni bilaterali di Gran Bretagna e Stati Uniti di garantire in ogni modo la sicurezza svedese e finlandese, in attesa che questi entrino effettivamente nella NATO. Inoltre, vi è un altro elemento: l’atteggiamento turco consente a Paesi come l’Ungheria di Orbán, che per certi aspetti rappresenta un problema maggiore della Turchia perché si muove nell’ambito dell’Unione Europea e non solo dell’Alleanza Atlantica, di agire da “quinte colonne”, elaborando argomentazioni perfettamente sovrapposte e coerenti alla propaganda del Cremlino.
La posizione e le richieste turche ai governi di Svezia e alla Finlandia, soprattutto riguardo il riconoscimento di alcune organizzazioni curde come terroristiche come precondizione per l’ingresso nell’Alleanza Atlantica, sono poi entrate nel dibattito pubblico.
Vittorio Emanuele Parsi: Non c’è dubbio e su questo Svezia e Finlandia si sono mosse come era d’altronde prevedibile. Svezia e Finlandia non consegneranno nessuno alla Turchia, per un semplice motivo: sono Stati di diritto. Se anche il governo svedese e finlandese firmassero che sono disposti ad estradare in Turchia tutti quelli che il governo di Erdoğan, chiede pur di entrare nella NATO, le corti di giustizia svedesi e finlandesi lo negherebbero.
Rimanendo in tema di leadership dell’Alleanza Atlantica, viste anche le problematiche che il governo statunitense attraversa, quanto fa la differenza avere Biden a capo della Casa Bianca, rispetto ad un altro presidente, democratico o repubblicano?
Vittorio Emanuele Parsi: Decisiva. Biden, soprattutto in Italia, è stato deriso per via della sua età. Nel Paese con il maggior numero di anziani in Occidente dopo il Giappone, gli è stato detto che era vecchio. Biden ha tuttavia una solida cultura politica costruita nell’ambito della Guerra fredda, che molti vedono come un limite, ma che invece è stata fondamentale: perché è una cultura che aveva il senso della storia, vedeva la profondità del presente affondare nel passato e anche come questo ponga delle opportunità o dei vincoli in divenire. Questo è stato fondamentale: è stato fondamentale che fosse un democratico “atlantista” e non “pacificista”. Biden è inoltre stato una risposta a due presidenze americane, quella di Obama e quella di Trump, che sono state abbastanza deludenti dal punto di vista internazionale: Trump non si commenta, ma in ambito di politica internazionale la storia non sarà tenera neppure con Obama. Questo ci dice però anche un’altra cosa: che l’Europa continua ad essere un continente con un intenso bisogno della leadership americana. Molte delle polemiche italiane degli scorsi mesi, riguardo alla percepita “mancanza dell’Europa”, assumendo che nel caso in cui l’Europa ci fosse, avrebbe una posizione diversa da quella statunitense, sono francamente inconsistenti: soprattutto se si pensa che la guerra sta avvenendo in Europa e minaccia l’Europa molto più degli Stati Uniti. Io auspico per l’Europa un processo maggiore di integrazione, una maggiore soggettività politica, economica e militare europea: questo non implica la prospettiva di un divorzio dagli Stati Uniti, ma la possibilità di non dover dipendere per la nostra sicurezza dagli sviluppi della politica statunitense. Non possiamo non constatare che se domani negli Stati Uniti tornasse Trump, tutto cambierebbe: l’Europa dipenderebbe, nel suo posizionamento, da cosa accadrebbe nelle elezioni americane. Questo non può essere l’elemento: la relazione con gli Stati Uniti è solida e penso che sarebbe ancora più solida in un rapporto di unificazione europea maggiore. Ma noi dobbiamo essere capaci di stare da soli a sostenere posizioni anche comuni.
Su questo tema, in termini europei, ha visto un consolidamento delle posizioni?
Vittorio Emanuele Parsi: Ho visto un consolidamento delle posizioni dell’Unione, espresse dalla Commissione e dal Presidente dell’Unione. La Commissione e il Presidente del Consiglio europeo hanno preso molto terreno e hanno fornito una leadership sostitutiva rispetto a quelle nazionali. Buona parte della posizione europea dei primi sei, sette mesi di guerra è stata fatta principalmente da Mario Draghi e Ursula von der Leyen. Ora si pone quindi, semmai, il problema di far tornare i governi nazionali più protagonisti e in quale modo. Vediamo che la Germania fa molta fatica. Il partito socialdemocratico è in grande difficoltà, a mio avviso a causa dell’eredità di Schröder, la cui attenzione alla Russia era già molto forte nel corso del suo cancellierato, nel Partito Socialdemocratico e nel sindacato tedesco: seguendo l’idea che, sdoganatasi la Russia dal comunismo, la Germania potesse tornare alla sua tradizionale politica di grande attenzione alla Russia. L’altro elemento di debolezza è il continuo stato di crisi e precrisi della democrazia francese: la Quinta Repubblica è in affanno e non basta Macron a far finta che non sia così. Non dobbiamo mai dimenticare che la Quinta Repubblica è stata salvata da una forza politica completamente al di fuori del suo sistema dei partiti. Infine, c’è l’Italia, che vede al governo una coalizione di destra nella quale si sommano sovranismo e populismo. È oggettivamente una questione complessa: al di là del fatto che persone come Meloni o Crosetto siano, penso, assolutamente filo-atlantiste e schierate in posizioni di fermezza nei confronti della Russia, gli apparati, i sostenitori e gli alleati della coalizione di governo lo sono molto meno. Esiste quindi un problema concettuale in questa destra sovranista e populista, che ciò che è accaduto negli Stati Uniti e poi in Brasile, più o meno negli stessi giorni a distanza di due anni, ci ha posto sotto gli occhi. La destra si sta radicalizzando, vince o perde di misura radicalizzandosi. Trump e Bolsonaro sono i casi più eclatanti, ma questo vale anche per la Polonia, per l’Ungheria e, se si prendono certi termini senza offendersi, vale anche per l’Italia. La destra vince con una leadership più a destra, rispetto alla coalizione di destra concepita in maniera classica. Non “più a destra” solo perché Meloni viene da un partito post-fascista: ma anche perché la Lega di Salvini, per quanto meno pesante nei numeri, si presenta sempre più come una Lega reazionaria e di ultradestra. Di riflesso, in questo quadro, vediamo come la sinistra paradossalmente abbia delle chance di vittoria solo quando si modera: vince con Biden, o con Lula se Lula non è più lo stesso di due elezioni fa. Per la sinistra, paradossalmente, non c’è solo un cambio di elettorato: l’elettorato tipicamente di sinistra antisistema migra nella destra, mentre rimane, nella sinistra, una parte dell’elettorato della sinistra tradizionale e una parte di elettorato pro-sistema. In questo modo, l’assetto politico si sbilancia sempre di più: la destra diviene sempre più radicale, mentre la sinistra lo è sempre meno e tiene nella misura in cui recupera i voti degli elettori pro-establishment. Questo però implica che se la crisi interna alla democrazia cresce e se il numero degli insoddisfatti della democrazia aumenta, la sinistra non riuscirà più ad intercettarli. Cosa significa questo, per le culture sovraniste e populiste? Che la componente populista porta a dire che il “vero popolo” è solamente quello che lei rappresenta e che “gli altri” rappresentano un finto popolo. Quindi il “vero popolo” è il popolo di Trump, di Bolsonaro, di Meloni, di Salvini, di Berlusconi, per quel che conta. Tutti gli altri sono mal guidati, degli illusi. Il populismo sostiene che quando avrà soddisfatto i suoi, il “vero popolo”, gli altri se ne renderanno conto, perché non possono esserci due verità. A questo si aggiunge la componente sovranista, la quale porta a ritenere che le proprie istituzioni nazionali siano conquistate dall’esterno dal “grande complotto”, da “Soros” o dalla “globalizzazione”. Questo fa sì che la destra, che ha sempre difeso le istituzioni nel nome della loro sacralità, in quanto manifestazione concreta della patria e tendenzialmente conservatrici, fatte per essere il punto di tenuta – è difficile che le istituzioni siano radicalmente innovatrici – quando perde, assalti le istituzioni. Ma non assalta le “proprie” istituzioni: riconquista fisicamente le istituzioni “prese occultamente dal nemico” e le riprende, manu militari, per riportarle al “suo” popolo. È qui che, a mio parere, si crea quella saldatura fra sovranismo e populismo: e si tratta di fatto nuovo e pericoloso. Un ultimo elemento che caratterizza la destra populista sovranista è costituito dalla forza devastante delle immagini: come diceva Giovanni Sartori, dall’Homo videns. I sostenitori di Bolsonaro hanno copiato l’immagine del sostenitore di Trump vestito da uomo delle pianure, diventata virale in seguito all’assalto a Capitol Hill. C’era addirittura un uomo vestito da capo indiano: in Brasile, dove i popoli indigeni hanno connotati e costumi completamente diversi. Eppure, l’immagine è fortissima: l’immagine resta. Noi possiamo anche dire che in Brasile, alla fine, la situazione si sia evoluta (si spera), per il meglio, che gli Stati Uniti hanno tenuto: ma quell’immagine si mangia tutto. Quell’immagine, proprio perché arrivata dal tempio della democrazia contemporanea per eccellenza, continuerà ad essere un’icona che alimenterà la mente di queste persone, al di là delle nostre analisi. Il “tizio con la testa di bisonte”, rimarrà.
Spostandoci dall’Europa e dalla guerra in corso in Ucraina, troviamo altre zone del globo in situazione di potenziale tensione: Taiwan rimane il nodo principale, ma ci sono anche i cosiddetti Balcani Occidentali e tutta l’area del Medio Oriente, soprattutto alla luce di quanto sta avvenendo in Iran.
Vittorio Emanuele Parsi: Dopo Taiwan, i Balcani sono un punto centrale. La Serbia si muove in stretto coordinamento con Mosca: a ciò si unisce l’acquisto di missili antiaerei cinesi da parte del governo di Belgrado, circa otto mesi fa, oltre al “soffiare sul fuoco” della situazione con il Kosovo, in concomitanza dell’aumento della violenza da parte della Russia nel contesto della guerra in Ucraina, sapendo che la Russia continua a proporre un parallelo tra la sua guerra in Ucraina e l’intervento della NATO in Kosovo nel 1999. Un parallelo che a mio avviso non sta in piedi: la Corte penale internazionale ha acclarato, nel caso del Kosovo, ripetuti episodi di violazioni dei diritti umani e di pulizia etnica da parte delle autorità serbe e non dimentichiamo che in Kosovo si agì anche in virtù del record della Serbia di dieci anni di guerra civile con le altre repubbliche dell’ex-Jugoslavia e dopo ciò che avvenne in Bosnia. Oggi la Serbia si sta muovendo in maniera strettamente coordinata con Mosca: soffia sul fuoco non solo per le sue tendenze scioviniste, ma perché queste sono, oggi, funzionali allo sciovinismo russo nei confronti dell’Ucraina. L’apertura di un conflitto nel Kosovo da parte di Belgrado, diretto o indiretto, metterebbe davvero in difficoltà l’Alleanza Atlantica, che si troverebbe a gestire una duplice minaccia e porterebbe legna al fuoco della Russia. Dal punto di vista dell’Unione Europea, i Balcani Occidentali rappresentano il nostro confine e mettono impietosamente in luce le difficoltà dell’Unione: eppure l’Unione Europea non riesce ad ammettere come membri la Bosnia, l’Albania, il Kosovo e domani, magari, una Serbia diversa, più liberale e non più coinvolta da attori come Russia e Cina. Questi Paesi sono, a livello di popolazione, numericamente piccolissimi: non stiamo parlando della Turchia, che ha oltre ottanta milioni di cittadini. Allora, con tutte le difficoltà, garantire effettivamente l’ingresso di questi Paesi nell’Unione Europea permetterebbe di chiudere quella ferita aperta all’interno del territorio dell’Unione: ci sono molte opportunità da cogliere, a partire dal porre un argine alla penetrazione cinese. Ci permetterebbe, inoltre, anche a poco prezzo, di mettere a tacere tutte quelle discussioni sull’identità unicamente cristiana dell’Unione Europea. Il caso iraniano e le possibilità di tensione nella regione del Medio Oriente rappresentano invece un caso un po’ diverso. Intanto, credo che purtroppo ci sia un tema: non vi è un genuino e sincero interesse sulla questione iraniana. O meglio c’è, ma molto minore rispetto ad altri temi. Inoltre, in genere la mobilitazione popolare all’interno dei regimi democratici contro i regimi non democratici, è difficile proprio perché funziona per i regimi democratici: anche verso regimi democratici ampiamente in difficoltà come Israele, per esempio, ma non contro l’Iran. L’Iran è inoltre un Paese che sostiene l’invasione russa concretamente, con armi di cui i russi hanno estremamente bisogno. Quello che si potrebbe fare, nel caso iraniano, è il richiamo degli ambasciatori per consultazioni, in forma congiunta, da parte di tutte le capitali dell’Unione Europea: successe anche tra Francia e Italia per questioni molto meno gravi. Nell’area del Medio Oriente e Nord Africa, può esserci la preoccupazione di un aumento della tensione regionale, anche se non particolarmente: è vero che un regime iraniano più screditato potrebbe consentire ai Paesi della regione di “chiudere la partita”. Tuttavia, l’Iran è comunque un Paese pesantemente armato: aprire ora una guerra contro l’Iran, nel momento in cui prosegue la guerra della Russia contro l’Ucraina, sarebbe difficile da spiegare. Gli stessi israeliani, che sono quelli che più sono, in genere, potenzialmente inclini ad azioni offensive verso la Repubblica Islamica, sono anche estremamente prudenti nei confronti della Russia: questo perché la Russia garantisce a Israele un certo assetto di relazioni nei confronti della Siria, oltre al tema del controllo di Hezbollah nel Libano. Infine, gli altri Paesi del “Patto di Abramo” non sono poi così diversi dall’Iran, quanto a temi sociali.
Nel corso degli scorsi dodici mesi, ci si è a lungo interrogati su cosa non abbiamo voluto vedere nell’evoluzione dei rapporti con la Russia. Su cosa, secondo lei, non ci siamo soffermati e non ci stiamo soffermando abbastanza?
Vittorio Emanuele Parsi: Credo che sia fondamentale riconfigurare e rianalizzare le categorie dei regimi politici. Paesi come la Cina, come la Russia, che sono quelli che ci riguardano più da vicino, sono molto più simili ai dispotismi di cui parlava Montesquieu che alle categorie politologiche dei sistemi autoritari, totalitari o post-totalitari. Necessitiamo dunque di elaborare una ridefinizione delle categorie dei regimi politici, a iniziare da quelli delle nuove autocrazie, che non sono esattamente codificate; e anche di riflettere, come detto in apertura, su come il capitalismo sia cambiato, se corrisponde a quello che intendevamo in precedenza; e così anche per le democrazie. Necessitiamo di uno sforzo analitico, di molitura delle categorie, in alcuni casi di costruzione di altre categorie. Questo mi sembra lo sforzo più urgente, per evitare di parlare di qualcosa che invece si è trasformato: è un po’ quello che, a livello internazionale, sostenevo quando dicevo che siamo passati “dall’ordine liberale all’ordine neoliberale” internazionale. Il non cogliere questo passaggio ha fatto sì che non avessimo argomentazioni ficcanti per difendere l’ordine liberale e per capire dove agire per rimetterlo in sesto. La stessa cosa vale ora per i regimi politici: se non capisci ciò che hai di fronte, non capisci né come metterlo a posto, né se ti interessa metterlo a posto, né tanto meno come affrontarlo efficacemente, quando lo devi affrontare.