Scritto da Giovanni Comazzetto, Nicolò Fuccaro
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Parafrasando una nota posizione sartriana, potrebbe dirsi che il giurista, come lo scrittore, è «in situazione» nella sua epoca. «Ogni parola ha i suoi echi. Ogni silenzio anche», scriveva il filosofo francese. Non sempre è possibile rifuggire dal reale, trovare riparo e conforto nella perfezione della forma – quel culto della forma che spesso, e non sempre a torto, è considerato il peggior vizio del giurista. Non lo è soprattutto in situazioni come quella che stiamo vivendo: gli eventi si susseguono con ritmo frenetico, richiedono decisioni altrettanto rapide, compromessi, sacrifici; il diritto, o almeno il diritto che vige normalmente (qualunque cosa questo avverbio significhi), è considerato piuttosto un impaccio che uno strumento utile per affrontare nel modo più adeguato il problema. Persino la Costituzione, ossia l’atto fondativo del nostro ordinamento, sembra in sofferenza: le si imputa di non aver ‘predisposto’ gli strumenti adatti ad affrontare le emergenze, in quanto essa prevede un regime eccezionale soltanto per lo stato di guerra (situazione in cui, a dispetto della retorica dominante, oggi non ci troviamo). Ma occorre ricordare, al contempo, che in molti casi la forma è sostanza; lo è particolarmente quando, di fronte all’imprevisto e all’imprevedibile, si invoca la ‘necessità’ come giustificazione di soluzioni eccezionali – derogatorie rispetto alle procedure che vigono ordinariamente – con il rischio, tuttavia, di ‘normalizzare’ l’emergenza.
La norma e l’eccezione
È stato evocato di recente, molto spesso con scarsa consapevolezza teorica, il concetto di «stato di eccezione». Trattasi di concetto chiave nella costruzione concettuale di una delle figure più controverse della riflessione giuridica novecentesca, ossia Carl Schmitt. Nella visione schmittiana del ‘politico’, lo stato di eccezione rivela il sovrano; è il caso estremo che può essere descritto dall’ordinamento giuridico solo tramite un vago riferimento al pericolo per l’esistenza dello Stato, mentre non può esser descritto con riferimento alla situazione di fatto. Come afferma chiaramente Schmitt nella Teologia politica, «non si può affermare con chiarezza incontrovertibile quando sussista un caso d’emergenza, né si può descrivere dal punto di vista del contenuto che cosa possa accadere quando realmente si tratta del caso estremo di emergenza e del suo superamento». Il sovrano, che si situa dentro e fuori rispetto all’ordinamento giuridico normalmente vigente, decide allora sia sul fatto che sussista o meno il caso di emergenza, sia su cosa si debba fare per superarlo. Risulta evidente, dalla complessiva riflessione del giurista tedesco sulla sovranità, come l’eccezione prevalga sempre, in un certo senso, sulla norma; quest’ultima può aver vigore solo rispetto ad una situazione ‘normale’, e non rispetto ad una situazione «completamente abnorme nei suoi confronti»; lo stesso ordinamento giuridico, in fondo, «riposa su una decisione e non su una norma». Trattasi, in sostanza, di un potente attacco alle pretese del razionalismo politico moderno e ad ogni tentativo ‘liberale’ di garantire una totale giuridificazione del ‘politico’: quest’ultimo – altro concetto chiave per Schmitt – è infatti la sede di una necessaria parzialità, di una conflittualità latente che esclude ogni aspirazione all’universalità e alla pacificazione dell’ordine sociale.
Alla teologia politica schmittiana, presa ‘dall’alto’ (come osserva Mario Tronti), si oppone la teologia politica ‘dal basso’ di altri pensatori ugualmente abissali: Walter Benjamin e Jacob Taubes. Il primo, in particolare, pur esprimendo la propria ammirazione e il proprio debito verso le modalità di ricerca schmittiane, si rivela, con i suoi folgoranti scritti sulla sovranità, il vero ‘anti-Schmitt’: per lui si tratta, come ben evidenziano le celebri Tesi di filosofia della storia, di sottrarre il pensiero dell’eccezione alla dogmatica fascista, facendo sì che si abbia uno «stato di eccezione ‘effettivo’». Solo la politica anarchica, in tutta la sua intensità messianica, può svelare l’assenza di fondamento dell’ordine politico sovrano: non c’è, in ultima istanza, alcun sovrano e la teocrazia «non ha alcun senso politico, ma solo un senso religioso». Il caso d’eccezione, invece di rivelare il sovrano (come ritiene Schmitt), è ‘rovesciato’ a favore delle classi oppresse: «non vi è un solo attimo che non rechi in sé la propria chance rivoluzionaria».
Negli ultimi anni gli studi sul tema hanno conosciuto una nuova fioritura, anche in ragione delle riflessioni proposte da Giorgio Agamben nel progetto Homo sacer (di cui rileva, in questa sede, soprattutto il celebre scritto del 2003, Stato di eccezione). Trattasi di una critica, sulla scia di Benjamin piuttosto che di Schmitt, del ‘dispositivo giuridico’ nella sua «struttura doppia, formata da due elementi eterogenei e, tuttavia, coordinati: uno normativo e giuridico in senso stretto […] e uno anomico e metagiuridico». L’antica dimora del diritto, sostiene Agamben, è fragile in quanto vive di questa tensione tra elementi antagonisti ma connessi: auctoritas e potestas, anomia e nomos, vita e diritto. Lo stato di eccezione istituisce una «soglia di indecidibilità» tra gli elementi di ciascuna coppia di concetti, permettendo alla «macchina giuridico-politica» di funzionare; in questo modo esso ha raggiunto oggi il «massimo dispiegamento planetario», e rende possibile la finzione per cui, mentre si conserva l’aspetto normativo del sistema giuridico-politico, lo si contraddice impunemente attraverso un’incontrollabile «violenza governamentale».
Sulla scorta di queste riflessioni, si può rilevare come alcuni eventi di carattere epocale, avvenuti nei primi due decenni di questo secolo, rendano di particolare attualità una serie di interrogativi sulla ‘tenuta’ delle democrazie costituzionali. Si pensi alle misure antiterrorismo adottate in molti Paesi dopo gli attentati dell’11 settembre, e alla correlata limitazione di molti diritti fondamentali, nonché alle crescenti preoccupazioni per le conseguenze del «capitalismo della sorveglianza»; alle nefaste conseguenze della crisi economica del 2008 e alla successiva fase di recessione; ora, all’epidemia da Covid-19 e al lockdown stabilito, sia pure con intensità molto diverse, da tutte le nazioni colpite. È davvero a rischio la tenuta del modello di Stato costituzionale? Di certo le sfide da affrontare sembrano talvolta di soverchiante complessità: oltre alle vicende citate, altre di più lungo periodo costituiscono ulteriori pericoli che raramente si tenta di affrontare ‘alla loro altezza’. Si pensi al rischio della catastrofe climatica e all’esigenza di nuovi modelli di sviluppo; alla (permanente) rivoluzione informatica; alla (apparentemente) sempre meno resistibile ascesa dei ‘mercati’, e alla loro influenza su decisioni di straordinario impatto sugli assetti delle democrazie; alla crescente spettacolarizzazione della politica; al contraddittorio intreccio di rivendicazioni localistiche, nostalgie di sovranità e fenomeni di transnazionalizzazione dei processi politici, economici e sociali in cui consiste quel complesso di problemi normalmente denominato ‘globalizzazione’. E l’elenco potrebbe continuare a lungo.
Squilibri istituzionali
Grande è la varietà di soluzioni adottate dai diversi Stati democratici per gestire le situazioni emergenziali. Alcuni ordinamenti prevedono espressamente la possibilità di dichiarare gli stati di eccezione (diverse le formule adottate, dall’état d’urgence francese all’estado de alarma spagnolo) e disciplinano – con maggiore o minore dettaglio – poteri e organi chiamati a ‘gestire’ le situazioni di crisi. Alcuni di questi stabiliscono altresì la sospensione (puntuale o generalizzata) delle garanzie di alcuni diritti fondamentali per tutto il periodo di durata dell’emergenza. Occorre peraltro precisare che anche nei sistemi ove non sono contemplati, a livello costituzionale, poteri straordinari per affrontare le situazioni eccezionali, questi si sono comunque in qualche modo sviluppati; e che nei sistemi ove, al contrario, esiste una precisa disciplina costituzionale degli stati di emergenza, si preferisce talvolta avvalersi di strumenti diversi per fronteggiare situazioni fuori dell’ordinario. Il caso francese è, in questo senso, emblematico: pur essendo previsti in Costituzione due diversi regimi eccezionali (lo stato di eccezione dichiarato dal Presidente della Repubblica e l’état de siège dichiarato dal Consiglio dei ministri) si è generalmente preferito ricorrere alla dichiarazione dell’état d’urgence (disciplinato da una legge del 1955 e non dalla Costituzione). Tra gli episodi più recenti che hanno determinato l’applicazione di quest’ultimo istituto si possono ricordare la rivolta delle banlieues del 2005 e la serie di attentati terroristici di matrice islamica fondamentalista avvenuti nel corso del 2015. Di fronte all’emergenza coronavirus, è stato tuttavia introdotto uno strumento ancora diverso: la dichiarazione dell’état d’urgence sanitaire, disciplinato con legge del 23 marzo 2020.
Rispetto ad una materia tanto magmatica, altre due osservazioni possono essere articolate. In primo luogo – è quasi banale ricordarlo – gli stati di eccezione costituiscono spesso (come insegna la Storia) l’occasione per adottare misure oppressive che danno a loro volta l’abbrivio alle più diverse forme di autoritarismo, o aggravano contesti già compromessi sul piano delle garanzie democratiche. Il recente caso ungherese conferma questa sorta di regolarità storica. In secondo luogo, costituisce similmente una regolarità storica l’accentramento, più o meno intenso a seconda dei diversi contesti ordinamentali, della gestione degli stati di emergenza da parte del potere esecutivo.
Il protagonismo dei governi è fenomeno che si può agevolmente osservare nelle vicende degli ultimi mesi. Nel caso italiano, in assenza di una disciplina costituzionale degli stati di emergenza, il Governo si è avvalso dell’unico strumento espressamente deputato a fronteggiare situazioni straordinarie, ossia il decreto-legge, nonché di una serie di altri atti di più controversa natura (ad esempio, gli ormai notissimi decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, abbreviati in DPCM). La base legale delle misure adottate è stata fin dall’inizio individuata nel Codice della Protezione civile (che ha rango di legge ordinaria), a norma del quale è stato dichiarato lo stato di emergenza con delibera del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020. Ciò che ha maggiormente suscitato dibattiti e polemiche è stata tuttavia la fase successiva nella gestione dell’emergenza, quando la gravità della situazione epidemica ha reso necessario il c.d. lockdown, esteso all’intero Paese. Si è infatti assistito, nell’arco di poche settimane, all’adozione di una serie di DPCM attuativi del decreto-legge n. 6 del 2020, nel quale era disegnato soltanto il quadro generale delle misure di contenimento dell’epidemia da Covid-19. Vista la profonda incidenza dei menzionati atti su molti diritti e libertà fondamentali tutelati dalla Costituzione (libertà di circolazione, libertà di riunione, libertà di insegnamento, solo per citarne alcuni), è legittimo chiedersi se la strada sin qui percorsa sia stata rispettosa dei limiti fissati nella Carta fondamentale all’azione dei pubblici poteri. Può il Governo con decreto-legge autorizzare sé stesso, se così si può dire, ad adottare ulteriori provvedimenti (nella fattispecie, i DPCM) di tale portata sull’ordinamento complessivo? Di certo, come hanno prontamente sottolineato alcuni costituzionalisti, la temporaneità, la ragionevolezza e la proporzionalità di siffatte misure costituiscono parametri dirimenti ai fini della valutazione della loro costituzionalità.
Ciò tuttavia non dissipa ogni dubbio. È senz’altro vero che gli stessi Costituenti erano consapevoli dell’eventualità che situazioni straordinarie richiedessero restrizioni al godimento di diritti fondamentali: si pensi proprio alla libertà di circolazione, che in base all’articolo 16 può essere limitata dalla legge «in via generale per motivi di sanità o di sicurezza». Clausole di questo tipo sono denominate «riserve di legge» in quanto consentono limitazioni dei diritti solo tramite intervento del legislatore, ossia del Parlamento: riservare all’organo rappresentativo della volontà popolare la decisione sulle eventuali limitazioni dei diritti ha un’evidente funzione di garanzia. Si ritiene pacifico, peraltro, che la riserva di legge sia soddisfatta anche da un decreto-legge, che pur essendo atto del Governo è soggetto – entro un termine relativamente breve (60 giorni) – a controllo ed eventuale ‘conversione’ in legge parlamentare, pena la sua decadenza e la retroattiva perdita di efficacia delle disposizioni in esso contenute. Proprio qui si situa però il nocciolo della questione: è soddisfatta la riserva di legge se il Governo adotta un decreto-legge ove sono fissate misure limitative dei diritti solo in via generale, mentre la loro specificazione è rimessa ad atti ulteriori di rango inferiore? Un decreto del Governo (che abbia valore di legge o sia gerarchicamente subordinato ad essa) viene elaborato ed approvato in assenza di quel ‘controllo politico’ spettante alle opposizioni e di quelle forme di pubblicità e trasparenza proprie delle procedure parlamentari.
Se ciò vale per i decreti-legge, per i quali un ‘recupero’ del ruolo del Parlamento avviene ex post con il procedimento di conversione in legge, vale a maggior ragione per i DPCM, i quali – come il nome stesso suggerisce – promanano e sono di esclusiva competenza del Presidente del Consiglio, senza che neppure l’organo governativo collegiale abbia voce in capitolo (non è inverosimile ipotizzare si sia proprio voluto, in tal modo, evitare divergenze tra le forze politiche di governo sul merito delle misure adottate, demandandone la responsabilità dell’assunzione al solitario vertice dell’Esecutivo). Inoltre, i decreti di quest’ultima tipologia non soggiacciono all’emanazione – e quindi ad un controllo prima facie di legittimità – del Capo dello Stato, né sono assoggettabili al ‘solenne’ sindacato di legittimità costituzionale da parte della Corte costituzionale. Conclusivamente sul punto, può dirsi che mentre la sostanza dei provvedimenti limitativi di diritti di libertà finora adottati sembra condivisibile, rappresentando una forma di ‘disciplina’ – ma anche di spinta all’autodisciplina – necessaria a tutelare diritti e valori costituzionali di rilievo almeno pari a quelli temporaneamente sacrificati (diritto alla salute, propria e altrui, e principio di solidarietà, che verrebbe leso da comportamenti ‘irresponsabili’, tali da favorire l’ulteriore diffusione del virus), meno convincenti sembrano gli strumenti normativi finora adottati al fine di contenere l’epidemia.
In questi mesi si è altresì parlato del ruolo del Parlamento in questo frangente di crisi e si è discusso circa le modalità di svolgimento dei lavori delle Camere, tenute in considerazione anche le dovute precauzioni sanitarie da adottare. A chi ha proposto la temporanea limitazione delle presenze in Aula (fermo il principio di proporzionalità della rappresentanza dei gruppi parlamentari), c’è chi ha contrapposto l’opzione del voto a distanza, tramite strumenti telematici. L’opzione prescelta è stata quella di ridurre al minimo il numero di sedute e ‘contingentare’ le presenze in Aula, sulla base di gentlemen’s agreements tra le diverse forze politiche. È inoltre allo studio una riorganizzazione degli spazi nelle due Camere – utilizzando le tribune generalmente riservate al pubblico o gli spazi attigui all’Aula, come il Salone del Transatlantico – allo scopo di rispettare le norme sul c.d. distanziamento sociale.
Sul punto occorre però fare precisazioni ulteriori. Molti hanno sottolineato il ruolo marginale del Parlamento nella complessiva gestione della crisi: se l’attuale ‘stato di eccezione’ di certo ha sconvolto l’intero assetto costituzionale dei poteri, molte delle difficoltà emerse non rappresentano delle novità, quanto piuttosto l’aggravamento o la deriva di squilibri da tempo esistenti. La ‘crisi’ del Parlamento è fenomeno commentato da decenni, senza che tuttavia si sia mai intrapresa una riflessione profonda e ‘a tutto campo’ sul ruolo e sul significato della rappresentanza politica in una democrazia caratterizzata da una complessità crescente. Fenomeni pur molto diversi tra loro – quali l’integrazione europea, la crescente ‘digitalizzazione’ dei processi democratici, le costanti rivendicazioni localistiche, la crisi ormai endemica del sistema dei partiti – impongono di interrogarsi in modo radicale e non più eludibile, se si vuole scongiurare il lento declino della democrazia costituzionale e il passaggio a forme più o meno mascherate di autoritarismo.
Libertà fragili: il mondo dopo l’epidemia
A dispetto delle critiche (costanti negli ultimi decenni di riforme istituzionali, più spesso tentate che portate a termine), la Costituzione italiana sembra aver retto anche i durissimi colpi assestati dall’epidemia in corso. Si sono accennate in questa sede alcune critiche agli strumenti utilizzati per contrastare la diffusione del contagio, ma ciò non toglie che la sostanza delle misure possa essere considerata in sé condivisibile e che l’assetto costituzionale abbia dato prova, invero, di una significativa elasticità, necessaria a qualunque ordinamento che non voglia soccombere – per l’eccessiva rigidità del suo impianto normativo – a situazioni impreviste che ne impediscono il ‘normale’ funzionamento.
Ci si interroga ora, sembrando terminata la fase più intensa della pandemia, sugli scenari futuri. Sul punto, sembra opportuno evitare indebite generalizzazioni. Vi è chi vede nell’epidemia l’occasione per innescare trasformazioni ‘rivoluzionarie’ degli assetti esistenti, e chi invece ritiene inevitabile (e inarrestabile) un ulteriore peggioramento delle condizioni di vita, anche in molti dei cosiddetti Paesi occidentali. Quel che è probabile (se non certo) è che l’epidemia produrrà sull’economia globale conseguenze persino più gravi della crisi del 2007-2008, che tuttavia non colpiranno ‘linearmente’ tutti allo stesso modo. Il rischio che le disuguaglianze crescano, tra le nazioni e all’interno delle stesse nazioni, è decisamente concreto e non difficile da prevedere. Anche su questo versante occorre precisare che non vi è nulla di nuovo sotto il sole. Anche limitando lo sguardo all’Europa, si può osservare come negli ultimi decenni al riconoscimento di sempre nuove categorie di diritti abbia fatto da contraltare un’effettività decrescente nel godimento degli stessi. Le ‘vittime’ di questo progressivo (e spesso silenzioso) esaurimento delle possibilità di valorizzazione di ogni singola persona e delle formazioni sociali, nelle quali – per citare l’articolo 2 della Costituzione italiana – «si svolge la sua personalità», sono state in particolare i valori di uguaglianza e solidarietà, la cui rilevanza è viepiù compressa nei contesti ove i diritti sociali non sono adeguatamente tutelati; mentre è al contrario favorita una competizione illimitata per l’accesso alle risorse in senso lato intese (non solo le risorse materiali ma anche le opportunità di accesso all’istruzione, a condizioni di lavoro dignitose e alle prestazioni sanitarie, fino ad arrivare ai c.d. digital rights).
Se a seguito della crisi epidemica si daranno ulteriori misure restrittive delle prestazioni sociali, ci si allontanerà una volta di più dal disegno inscritto nella Carta costituzionale, caratterizzato da una sorta di ‘attitudine dinamica’ che vede nelle libertà civili e politiche (quelle limitate in modo più evidente nel corso della pandemia) non un traguardo già raggiunto, bensì solo il punto di partenza per un percorso di emancipazione che, per essere effettivo, esige che non si fermi la lotta contro «gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (articolo 3, secondo comma, della Costituzione, espressione del c.d. principio di eguaglianza in senso sostanziale). Contro ogni tentativo di rendere tollerabili regressioni su questo fronte, occorre ricordare la necessità di una ‘lotta per il diritto’ affinché diritti e libertà, formalmente riconosciuti e garantiti, acquistino effettività e diano nuova linfa ad una democrazia in crisi.
Cambiano i tempi e i contesti, ma non le istanze: oggi il binomio indissolubile libertà-uguaglianza esige uno sforzo comune, solidale e instancabile a tutela dei diritti dei lavoratori, dei cittadini e degli stranieri, dell’ambiente, di un’istruzione gratuita e universale, di servizi sanitari e sociali efficienti e accessibili a tutti, nonché di una partecipazione effettiva ai processi di decisione politica. Se l’epidemia sia davvero occasione per discutere di tutto ciò – e dunque per rimettere radicalmente in questione le libertà storicamente acquisite e l’apparente esaurimento della loro funzione emancipatrice – o se al contrario si riveli l’inquietante laboratorio di una società post-politica dai tratti autoritari, composta da individui isolati e infelici, spetta a noi deciderlo.
In foto il Palazzo della Consulta, sede della Corte costituzionale della Repubblica Italiana.