Scritto da Andrea Boitani, Maurizio Franzini, Elena Granaglia
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In questo contributo sono riprese e ampliate le riflessioni sviluppate da Andrea Boitani, Maurizio Franzini e Elena Granaglia nell’articolo Merito e meritocrazia: proviamo a fare chiarezza, uscito sul numero 190 del «Menabò di etica ed economia» nell’aprile 2023.
«L’idea di meritocrazia può avere molte virtù, ma la chiarezza non è una di quelle virtù». Così iniziava, nel 2000, Amartya Sen un suo breve saggio su Merit and justice[1]. Prima e dopo il 2000 i tentativi di definire, esaltare o criticare la meritocrazia sono stati numerosissimi e non è certo possibile darne conto in questa sede. Di meritocrazia si è tornato a discutere di recente, dopo la critica radicale mossa da Daniel Markovits e Michael Sandel – docenti in due templi della meritocrazia americana (le università di Yale e di Harvard) – alla meritocrazia “realizzata” e ai suoi effetti[2]. In Italia, un’appassionata difesa dell’ideale meritocratico è venuta dal filosofo Marco Santambrogio[3], mentre il Menabò di etica ed economia, tra il 2022 e il 2023, ha ospitato alcuni contributi sul tema. Nel complesso, riteniamo che un ulteriore sforzo sia necessario a districare la matassa di questioni che si pongono quando si utilizzino concetti come merito e meritocrazia per spiegare e giustificare le grandi disuguaglianze di reddito e di ricchezza che tuttora (e, in certi casi, sempre più) caratterizzano il mondo in cui viviamo.
Qui di seguito proveremo a riflettere, innanzitutto, sulle difficoltà di distinguere le competenze, comunque acquisite, dal merito personale, mostrando come quest’ultimo sia un concetto più sfuggente e, al contempo, più esigente, richiedendo che le competenze siano acquisite mediante sforzo personale (non siano cioè solo frutto di talento naturale) e in condizioni di uguali opportunità sostanziali. Argomenteremo, perciò, che una società in cui le carriere siano aperte alle competenze – a nostro avviso certamente auspicabile – sia cosa diversa da una società meritocratica. Avanzeremo poi qualche considerazione critica sull’idea (abbastanza diffusa) che il mercato sia il miglior giudice del merito e che, di conseguenza, le disuguaglianze osservate, se fondate sui meriti, valutati e misurati dal mercato, siano giuste e, pertanto, giustificate. Infine, torneremo sul “lato oscuro” della meritocrazia, per concludere che una società capace di progredire migliorandosi se, da un lato, dovrebbe valutare al massimo le competenze per la selezione e l’assegnazione di posti, dall’altro, dovrebbe rifuggire dall’esaltazione morale e dalla esagerata remunerazione di un merito assai incerto. È bene dire subito che nel mettere in luce i difetti fattuali e logici della meritocrazia intendiamo principalmente chiarire quali complesse condizioni dovrebbero essere soddisfatte perché le competenze e le azioni meritevoli permettano di realizzare effettivamente una società meno inefficiente e meno ingiusta di quella attuale.
Cos’è il merito?
L’idea di dare al merito il ruolo centrale nell’assegnazione dei posti e degli onori riconosciuti dalla società agli individui è certamente importante e risponde al desiderio di rimuovere discriminazioni basate sulla nascita, la ricchezza, l’etnia o il genere. Ma definire e misurare il merito è tutt’altro che agevole. E una delle ragioni principali è che esso porta con sé un’inevitabile connotazione morale. Se diciamo che Chiara «merita un riconoscimento» stiamo dicendo che è giusto che Chiara abbia quel riconoscimento, perché ha compiuto (almeno) un’azione appropriata. E se diciamo che lo merita più di altri è perché riteniamo che Chiara abbia fatto meglio di altri, grazie alle sue competenze, permettendo il raggiungimento di un risultato coerente con la nostra nozione di società buona. Dobbiamo, dunque, avere una qualche idea di bene comune o almeno di benessere, in relazione al quale misurare il merito. La definizione stessa di ciò che è meritorio varia a seconda del contesto socio-istituzionale in cui ci si trova e della visione prevalente di società giusta[4]. Ovviamente, dire che una società è buona se premia il merito ci porta a una circolarità imbarazzante. Se riteniamo che una “società buona” sia quella priva di grandi disuguaglianze, allora la caratterizzazione di ciò che è meritorio deve valutare se le azioni (per non dire le persone) candidate a essere considerate meritevoli generino più o meno disuguaglianze[5]. Ciò implica anche che avere le competenze può non essere sufficiente per parlare di merito se quelle competenze sono al servizio di obiettivi in contrasto con la “società buona”. Inoltre, e lo vedremo meglio, per il merito conta come sono state acquisite quelle competenze.
Nessuno metterebbe in discussione che i posti debbano essere assegnati e, quindi, le persone debbano essere selezionate e premiate in base alle competenze, opportunamente definite e ragionevolmente misurate. I modi e le condizioni con cui sono state acquisite le competenze che hanno permesso di ottenere un determinato posto di lavoro e una certa posizione sociale non contano molto dal punto di vista del giudizio sulle competenze specifiche. Se la meritocrazia fosse semplicemente fatta coincidere con “carriere aperte alle competenze”[6], ci sarebbero poche obiezioni. Nessuna preferirebbe che l’areo su cui viaggia o su cui potrebbe un giorno viaggiare sia pilotato da un incompetente. E nessuna vorrebbe che se stessa o una sua parente venisse operata al cuore da un ortopedico, né gradirebbe che il primario dell’ospedale fosse in quel posto solo perché maschio, raccomandato o perché affiliato a una qualsiasi lobby. Si può anche dire che a sostegno delle competenze militano ragioni di efficienza e di non discriminazione: scegliere chi è privo di competenze e perciò offre una prestazione peggiore equivale a violare l’uguaglianza di rispetto. Crediamo che sarebbe un grande passo avanti se in Italia si potesse garantire sul serio la piena ed effettiva apertura delle carriere alle competenze.
Tuttavia, senza informazioni sul modo nel quale le competenze sono state acquisite, è difficile parlare di merito di chi possiede quelle competenze. Potremmo dire che ci troviamo di fronte a competenze “meritevoli” e, quindi, a prestazioni “meritevoli”, ma non necessariamente a una persona meritevole. In generale, le competenze acquisite dipendono dal proprio talento, dalle opportunità a cui si è potuto accedere e dai propri sforzi. Il talento è distribuito in maniera puramente arbitraria e non ha molto a che vedere col merito: avere o non avere certi talenti non è sotto il nostro controllo. «Sembra infatti essere un punto irrinunciabile dei nostri giudizi ponderati che nessuno meriti il posto che ha nella distribuzione delle doti naturali, più di quanto non merita la sua posizione di partenza nella società»[7]. Si tratta di doni innati, di colpi di fortuna, di felici quanto misteriose combinazioni genetiche. Poi, certo, i talenti vanno coltivati. Ma per coltivarli servono opportunità e sforzo individuale. Non possiamo dire che persone dotate di talento e di capacità innate siano più meritevoli di altre che hanno goduto di minori opportunità, pur essendosi sforzate molto per coltivare il talento ricevuto in dono. Ciò, naturalmente, non vuol dire che non debba essere selezionato chi ha più competenze, ma il motivo per farlo non è perché esse sono sistematicamente un segnale del merito individuale.
Disuguaglianze meritate?
Se il modo in cui sono state acquisite le competenze non è rilevante per la selezione dei “migliori” lo è, invece, per giustificare le disuguaglianze economiche e per riconoscere premi a chi le possiede. Sul tema, resta difficile ignorare il monito di Joel Feinberg secondo il quale «distribuire salari, profitti e stipendi come simboli del riconoscimento di un talento superiore sembra inappropriato e, in effetti, ripugnante; perché ciò significherebbe interpretare il principio “persone migliori meritano cose migliori” in modo pienamente incoerente con le idee democratiche e liberali»[8].
La condizione minima per giustificare con il merito individuale il premio riconosciuto alle competenze è di non aver goduto di migliori opportunità degli altri. Non a caso l’uguaglianza di opportunità è al cuore di qualsiasi declinazione di giustizia sociale[9]. Tuttavia, definire in modo preciso una convincente uguaglianza di opportunità è compito non semplice, anche in astratto. Realizzarla è molto difficile. I profumati redditi ottenuti dai laureati delle grandi “scuole” europee e americane sono ancora oggi più dovuti alle “dispari” opportunità – garantite dalla posizione economica e sociale, dalla cultura e dalle relazioni della famiglia di origine – che al merito individuale. Proprio come scriveva Tony Atkinson, la disuguaglianza dei punti di arrivo si trasforma in disuguaglianza dei punti di partenza della generazione successiva e così via ereditando[10]. Il supposto merito finisce per essere una giustificazione zoppa di una realtà assai più brutale. Quanto allo sforzo – che è la seconda condizione per poter associare merito a competenze – c’è da chiedersi se il talento di cui si è dotati e le opportunità di cui si è goduto non agiscano da moltiplicatori della capacità di sforzarsi. Se così fosse (almeno in parte) ci troveremmo di fronte a uno sforzo che è a sua volta aiutato, stimolato, dal talento e dalle condizioni sociali e familiari, cioè, di nuovo, da qualcosa che non è merito personale possedere e anzi viola la condizione di uguaglianza delle opportunità.
Se alla base di qualsiasi giustificazione delle disuguaglianze deve esservi il merito individuale, il riferimento alle competenze riconosciute, e al successo anche economico che può derivarne, appare largamente insufficiente e forse anche fuorviante. Occorrerebbe, infatti, che vi fosse il merito inteso soprattutto come sforzo (e come disponibilità a farsi carico di rischi e responsabilità fuori dell’ordinario) e, qualora le competenze includano anche il vantaggio genetico e quello sociale di accesso a migliori opportunità, premiarle non equivale a premiare il merito[11].
In genere, i sostenitori della meritocrazia finiscono per fare, implicitamente, confronti di merito molto allargati, sostenendo (più o meno esplicitamente) che una manager è retribuita cento o duecento volte quanto è retribuita un’infermiera perché la prima “merita” cento o duecento volte di più. Ma qui si produce un doppio slittamento concettuale di grande rilevanza. Innanzitutto, si trasformano le differenze di competenze specifiche in una grandezza (eminentemente cardinale) che permette di misurare qualsiasi differenza specifica: il denaro è sempre denaro. Fatto ciò, e postulato che le differenze di denaro guadagnato o posseduto riflettano esattamente le differenze di merito, diviene facile presentare le disuguaglianze di reddito e ricchezza come riflesso dei differenziali di merito[12].
Riassumendo, riconoscere un premio a chi effettua una prestazione meritevole è cosa diversa dal riconoscere un premio a chi ha un merito. Il mercato, nel migliore dei casi, premia le prestazioni meritevoli e, punto essenziale per giustificare le disuguaglianze economiche, lo fa in un modo che non rispetta (e come potrebbe essere diversamente?) le disuguaglianze di “valore” delle prestazioni meritevoli. A meno di non credere che queste ultime derivino dalle disuguaglianze che decreta il mercato, e non viceversa.
Merito o valore?
Spesso, gli economisti (e dietro di loro l’opinione pubblica) hanno identificato il merito con il contributo (misurato in denaro) alla crescita del PIL o del “valore” di un’azienda. Da qui segue che enormi differenziali retributivi (e di ricchezza accumulata) vengono giustificati con argomenti solo apparentemente meritocratici, ma in realtà fondati sull’apprezzamento di mercato, come riconosceva onestamente un liberista conservatore come Friedrich von Hayek[13]. Per Hayek, le retribuzioni che si ottengono e le ricchezze che si accumulano sul mercato non hanno niente a che fare con il premio al merito: riflettono semplicemente il valore di mercato dei beni o dei servizi che ciascuno ha da offrire. Nessun (implicito) giudizio morale su ciò che ci spetta (“that we deserve”): la manager di un casinò di Las Vegas può fare un lavoro meno ammirevole sul piano morale, può avere meno talento ed essersi impegnata negli studi meno di un’insegnante di scuola o di un’infermiera, ma produce più valore di mercato e per questo guadagna (molto) di più. Tutto qui. Secondo Hayek, è proprio l’apprezzamento di mercato, non il merito in sé, che ha sostituito il privilegio della nascita nella determinazione della posizione sociale.
Il problema è che l’apprezzamento del mercato comprende rendite dovute alla scarsità (per esempio dei talenti sportivi, o musicali, ecc.) e al grado di monopolio di un’impresa o di un’istituzione finanziaria, di cui il manager e l’azionista possono beneficiare, finendo così per mettere insieme remunerazioni che vanno ben oltre il merito individuale. Per non parlare del vero e proprio rent seeking e del crony capitalism, che pure fanno parte della realtà in cui viviamo. Inoltre, mercati caratterizzati da tecnologie che permettono il consumo congiunto e contemporaneo da parte di milioni di soggetti paganti (per esempio, le partite di calcio o di tennis trasmesse dai canali televisivi a pagamento) permettono di esaltare l’estrazione di rendite da scarsità di talento (dei calciatori o dei tennisti). Tutte queste rendite implicano una significativa divaricazione tra retribuzioni di mercato e merito, inteso come contributo sociale effettivo di ogni individuo[14]. Alcuni argomentano che remunerazioni basate sul merito sono l’unico modo di incentivare al massimo lo sforzo e la produttività dei talentuosi. Va comunque ricordato che gli incentivi sono necessari in un mondo di informazione imperfetta e di non osservabilità dello sforzo e che l’incentivo deve contenere, per essere efficace, il riconoscimento di una rendita a chi gode dei vantaggi informativi. Ma dunque, in questo mondo (che è poi quello in cui siamo effettivamente immersi), le remunerazioni incentivanti, che comprendono rendite informative, non coincidono con quelle che premierebbero esclusivamente il merito.
Il mercato, come è noto, non ha particolarmente a cuore l’uguaglianza (che sia dei punti di partenza o dei punti di arrivo) e neppure l’equità. Considerato che l’ideale di uguali opportunità è ben lungi dall’essere realizzato, è possibile sostenere che la meritocrazia reale sia molto lontana dal suo ideale (ammesso che fossimo in grado di definirlo sul serio) e assomigli molto a un’aristocrazia ereditaria. «In effetti – chiosa una critica della meritocrazia come Jo Littler – il significato contemporaneo di meritocrazia è tale da supportare un sistema gerarchico lineare in cui, per definizione certe persone devono essere lasciate indietro. La cima non può esistere senza il fondo»[15]. La meritocrazia, insomma, da sistema di selezione dei talenti e delle capacità, fondato sulla continua creazione e ri-creazione delle condizioni di uguaglianza delle opportunità, si trasforma in un sistema di potere. Del resto, era prevedibile: affiancare la parola merito a “crazia” (dal greco , che significa forza, potere) doveva rendere chiaro l’intento. Che, infatti, era chiarissimo a Michael Young quando scrisse il suo famoso romanzo satirico (e premonitore)[16].
La promessa della mobilità sociale alimentata dalla meritocrazia, almeno negli Stati Uniti non è stata mantenuta: «L’aristocrazia del privilegio ereditario ha lasciato il posto a una élite meritocratica che è oggi privilegiata e consolidata come quella che ha sostituito»[17]. Con notevole sforzo di sintesi, il giurista di Yale Daniel Markovits ha provato a calcolare quanto valga, in termini di lascito ereditario, l’investimento che una famiglia dell’élite americana fa per l’istruzione dei propri rampolli, concludendo che «l’investimento in capitale umano fatto da una tipica famiglia ricca, in eccesso rispetto a quello fatto da famiglie della classe media, è oggi equivalente a un’eredità nei dintorni dei dieci milioni di dollari per ogni ragazzo (o ragazza)». Una somma enorme che promuove «le ambizioni dinastiche di una famiglia dell’élite»[18].
Il lato oscuro della meritocrazia
Il lato oscuro della meritocrazia è così riassunto da Michael Sandel: «Il principio che il sistema premia il talento e il duro lavoro incoraggia i vincitori a considerare il proprio successo quale frutto delle proprie azioni, una misura della propria virtù e a guardare dall’alto in basso chi è meno fortunato di loro. L’arroganza meritocratica riflette la tendenza dei vincitori a inebriarsi troppo del proprio successo, a dimenticare la fortuna e la buona sorte che li ha aiutati sul cammino»[19]. Con le parole di Jo Littler, «la meritocrazia offre un sistema di mobilità sociale basato sull’immagine della scala, promuovendo così un’etica corrosiva fondata sulla competizione auto-interessata, che a un tempo legittima la disuguaglianza e danneggia la comunità»[20]. Certamente la scala offre l’opportunità di salire ma, come notò già Raymond Williams nel 1958, «è uno strumento che può essere usato soltanto individualmente; ciascuno sale la scala da solo». Dunque, con la meritocrazia si finisce per promuovere un ideale profondamente individualista e competitivo, dove alla cooperazione è riservato un ruolo, se va bene, ancillare.
Potremmo riformulare questa affermazione per tenere conto della distinzione tra merito e prestazione meritevole su cui ci siamo soffermati, ma la sostanza cambierebbe poco. Il successo economico (al quale ci riferiamo), quale che ne sia l’origine, rischia di diventare fattore di stratificazione sociale perché utilizzato come prova dei propri superiori meriti. La questione non vale soltanto con riferimento all’atteggiamento di superiorità di alcuni. Argomenti di questo tipo sono stati utilizzati per “provare” la propria superiore capacità anche nelle cose della politica e quindi, si potrebbe dire, nel buon funzionamento della democrazia. Ma a quali meriti si fa riferimento, visto che il successo economico può derivare anche da violazioni del merito individuale? E si può assegnare al mercato anche il compito di definire la stratificazione sociale? Se questa deve rispondere ai meriti individuali occorre guardare ben oltre il mercato. Agli sforzi, alle prestazioni meritevoli non riconosciute, alle virtù individuali. Occorre allontanarsi decisamente dalla sfera economica sapendo, però, di inoltrarsi su un terreno malfermo che non consente agili passeggiate verso la soluzione.
Queste nostre riflessioni, motivate dal tentativo di contribuire a fare chiarezza sul merito e sulla meritocrazia, sono approdate a una semplice conclusione. Il merito è un concetto troppo complesso per “metterlo in mano” al mercato. E in mancanza di questa consapevolezza si rischia di essere fin troppo benevolenti nei confronti del mercato. A noi pare certo che una società migliora non soltanto se affida le prestazioni più importanti alle persone più competenti ma anche se mette il più gran numero in condizione di poter acquisire quelle competenze. E a noi pare anche che una società migliora se non si fida troppo delle disuguaglianze economiche che il mercato decreta (che, come si è detto, possono essere ingiustificate) e se non asseconda e, meglio, non tollera la cultura che alimenta “il lato oscuro” della meritocrazia, mentre fa sempre di più per dare a tutti uguali opportunità di perseguire i propri piani di vita e di rialzarsi dopo cadute e fallimenti.
[1] A. Sen, Merit and Justice, in (a cura di) K. Arrow, S. Bowles e S.N. Durlauf, Meritocracy and Economic Inequality, Princeton University Press, Princeton 2000.
[2] D. Markovits, The Meritocracy Trap, Penguin Random House, New York 2019; M. Sandel, La tirannia del merito, Feltrinelli, Milano 2021.
[3] M. Santambrogio, Il complotto contro il merito, Laterza, Roma-Bari 2021.
[4] La desert base è, cioè, mutevole al cambiare della situazione storica e sociale in cui avviene il giudizio.
[5] Così, però, il merito perderebbe il suo ruolo di giustificazione delle disuguaglianze esistenti, ma perderebbe anche il metro con cui viene oggi misurato: il denaro, il suo possesso, la capacità di generarlo.
[6] M. Santambrogio, op. cit., fa coincidere le carriere aperte alle competenze con la sua idea di meritocrazia.
[7] J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1982, p. 100.
[8] J. Feinberg, Doing and Deserving. Essays in the Theory of Responsibility, Princeton University Press, Princeton 1970, p. 91.
[9] E. Granaglia, Uguaglianza di opportunità, Laterza, Roma-Bari 2022.
[10] A. Atkinson, Disuguaglianza. Che cosa si può fare?, Cortina, Milano 2015.
[11] Secondo il massimo teorico del liberalismo del secondo dopoguerra, John Rawls (op. cit. p. 98), «coloro che sono stati favoriti dalla natura, chiunque essi siano, possono trarre vantaggio dalla loro buona sorte solo a patto che migliorino la situazione di coloro che ne sono rimasti esclusi». Il che implica che non si dovrebbe attribuire alcun carattere meritorio ai differenziali retributivi e che, anzi, chi ottiene una retribuzione più alta in virtù di competenze e talenti apprezzati dal mercato deve essere pronto a riconoscere come quella retribuzione non è interamente di sua “proprietà”, perché è stato aiutato dalla società, dalla comunità. Se ne deduce che non ci si debba lamentare se il sistema fiscale fa restituire parte di quei guadagni alla comunità e alla società che ha contribuito a crearne le premesse.
[12] A. Boitani e M. Franzini, Dall’illusione meritocratica alla “limitata immeritocrazia», «Menabò di etica ed economia», N. 175, 4 luglio 2022.
[13] F. von Hayek, La società libera (1960), Rubbettino, Soveria Mannelli 2007.
[14] M. Franzini, E. Granaglia e M. Raitano, Dobbiamo preoccuparci dei ricchi?, il Mulino, Bologna 2014; E. Granaglia, Can market inequalities be justified? The intrinsic shortcomings of meritocracy, «Structural Change and Economic Dynamics», n. 51, 2019, pp. 284-290.
[15] J. Littler, Culture, power and myths of mobility, Routledge, Londra 2018, p. 3.
[16] M. Young, (1958), L’avvento della meritocrazia, Edizioni di Comunità, Roma 2014.
[17] M. Sandel, La tirannia del merito, Feltrinelli, Milano 2021, p. 166.
[18] D. Markovits, op. cit., p. 146.
[19] M. Sandel, op. cit., p. 25. Vedi anche ibidem, p. 123.
[20] J. Littler, op. cit., p. 3.