“Disuguaglianza: che cosa si può fare?” di Anthony Atkinson
- 20 Dicembre 2017

“Disuguaglianza: che cosa si può fare?” di Anthony Atkinson

Recensione a: Anthony B. Atkinson, Disuguaglianza: che cosa si può fare?, Raffaello Cortina Editore, Milano 2015, pp. 414, 26 euro (scheda libro)

Scritto da Lorenzo Cattani

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La disuguaglianza è un tema che sta andando incontro ad una diffusione crescente, come testimonia il successo che hanno avuto i lavori di accademici come Thomas Piketty e Mariana Mazzucato. Ma la disuguaglianza non è un tema che è stato studiato solo di recente: esiste una generazione di economisti che se ne occupa da molto tempo. Anthony Atkinson è stato uno dei primi ad occuparsi di disuguaglianza, un tema che ha continuato ad essere al centro della sua analisi fino ai suoi ultimi anni di vita.

Nel suo ultimo libro Disuguaglianza: che cosa si può fare? Atkinson esegue un’operazione interessante e importantissima: l’analisi del tema viene affiancata da concrete proposte per l’iniziativa politica. L’autore fa quindi una scelta molto particolare, cioè quella di rinunciare di dare al libro un’impostazione “accademica”; come ha affermato Piketty, il piano d’azione pensato da Atkinson ricorda il riformismo sociale di Lord Beveridge[1]. La “leggendaria prudenza” di Atkinson, come Piketty l’ha definita, è comunque presente e l’apparato analitico su cui le proposte dell’autore inglese si fondano è solido e giustificato da considerazioni molto oculate.

L’autore inglese si è preso quindi dei rischi nell’esporsi con delle proposte specifiche, ma queste sono cruciali perché mostrano che, in primo luogo, è possibile pensare a delle alternative alle politiche implementate finora e, in secondo luogo, gettano luce su molti temi che attualmente vengono ancora affrontati in punta di piedi da parte della politica e potrebbero realmente rappresentare un punto di riferimento importante per una forza politica realmente interessata alla riduzione delle disuguaglianze. Il libro è ovviamente molto incentrato sulla realtà britannica, di cui Atkinson era grande conoscitore, ma ciò non toglie che le proposte avanzate nel libro non siano valide anche per gli altri paesi europei e anglo-sassoni.

Le proposte avanzate da Atkinson sono 15, più 5 idee da perseguire. Nel seguente articolo verranno presentate quelle che sono state ritenute più interessanti.

 

Cambiamento tecnologico e disuguaglianza

Atkinson non ritiene che il cambiamento tecnologico sia una determinante “esogena” della disuguaglianza, al di fuori del nostro controllo, ma è invece “il prodotto di decisioni prese da aziende, ricercatori e governi”.

Si possono imparare molte cose infatti dal modo in cui le innovazioni tecnologiche sono state impiegate nelle aziende e da quali conseguenze hanno avuto. Prendiamo quindi il caso di un’azienda automobilistica che decida di investire in nuove tecnologie che, grazie alle innovazioni nella robotica, permettano di automatizzare il processo di verniciatura dei veicoli. L’autore afferma che a prima vista questo sembrerebbe essere un cambiamento positivo: gli operai che si occupano di verniciare le macchine non correrebbero più rischi per la propria sicurezza sul posto di lavoro[2] e per eseguire controllo e manutenzione sui robot, dovranno essere assunti nuovi lavoratori con livelli di istruzione maggiori. Una volta superata una prima fase di prova, in cui gli occupati aumenteranno, è legittimo aspettarsi invece una riduzione della forza lavoro, poiché una volta “rodati”, i robot avranno meno bisogno di controlli e manutenzione.

A ciò si aggiungono anche i minori costi di negoziazione che l’azienda dovrà sostenere, dal momento che i robot non scioperano e non sono nemmeno iscritti al sindacato. Emergerebbe quindi uno scenario benevolo: col progresso tecnologico i lavori più usuranti e spiacevoli verrebbero eliminati. Eppure Atkinson avverte il lettore che quando si parla di cambiamento tecnologico è molto pericoloso lasciare tutto in mano all’economia di mercato. Vi sono infatti tre elementi di criticità rinvenuti dall’autore.

Il primo è legato a questioni di equità e Atkinson lo riassume ponendosi la domanda “di chi saranno nipoti quelli che godranno del maggior tempo libero?”. Bisogna assolutamente prendere in considerazione il reddito da capitale che le persone ricevono, poiché impatta fortemente sul problema di una più equa distribuzione della ricchezza. Ecco quindi emergere l’altra grande domanda, che in futuro diventerà ancora più pressante: “chi possiede i robot”?.

Il secondo problema è che è facile immaginarsi un mondo in cui il cambiamento tecnologico elimini solo i lavori usuranti e spiacevoli[3]. I nostri giudizi possono cambiare sensibilmente qualora i robot eliminassero mansioni dove il “servizio umano” ha un ruolo importante. Per usare le parole dello stesso Atkinson: “l’interazione umana può dare la rassicurazione che il prodotto soddisfi i bisogni del consumatore o fornire informazioni fondamentali su come usare il prodotto. Farmaci prelevati da un distributore automatico non offrono il consiglio del farmacista sul loro uso corretto”. Ed è proprio l’elemento del servizio umano che sta al centro del pensiero di Atkinson, secondo cui il servizio umano rafforzerebbe la produttività relativa delle persone rispetto al capitale, ma solo se ci si aspettasse che tale servizio continuasse ad essere erogato.

È proprio in questo punto che emerge la posizione di Atkinson, in maniera potente ma incredibilmente semplice: se il cambiamento tecnologico prende piede in una fase storica in cui le necessità principali delle aziende e dello Stato sono quelle di minimizzare i costi di fornitura di determinati servizi, senza dare troppo peso al mantenimento della natura degli stessi, ecco che le aziende saranno spinte a investire su automazione e meccanizzazione che produrranno effetti negativi su salari e occupazione. Al riguardo, Atkinson muove un’importantissima critica nei confronti dei programmi di austerity. Se l’effetto del taglio ai budget pubblici è quello di ridurre gli elementi di servizio umano, allora i programmi di austerità “contribuiscono a spostare il reddito dai lavoratori al capitale”.

Il terzo elemento problematico rilevato da Atkinson è che l’automazione che diventa sempre più conveniente e che porta ad una crescente sostituzione con gli uomini non è l’unica strada da percorrere. Forse era possibile intraprendere una strada dove il cambiamento tecnologico valorizzasse il “servizio umano”, tuttavia in questo caso le motivazioni delle aziende potrebbero distaccarsi dagli interessi della società, ed è proprio da questa considerazione che Atkinson elabora la sua prima proposta.

“La direzione del cambiamento tecnologico deve essere una preoccupazione esplicita della politica; va incoraggiata l’innovazione in una forma che aumenti l’occupazione, mettendo in rilievo la dimensione umana della fornitura di servizi”.

In questo senso le proposte di Atkinson si intrecciano con quanto affermato da Mariana Mazzucato, mostrando come il ruolo dello Stato nel finanziare l’innovazione tramite investimenti pubblici di lungo periodo non sia solo motivato da questioni di efficienza, ma anche di uguaglianza. Per Atkinson infatti “non basta dire che la crescita della disuguaglianza è dovuta a forze tecnologiche al di fuori del nostro controllo. Il governo può avere un’influenza sulla strada che viene imboccata”. Com’è chiaro, la ricerca scientifica ricopre un ruolo vitale nel direzionare il cambiamento tecnologico; eppure, come ci ricorda Mazzucato, l’innovazione non è assolutamente un percorso studiato a tavolino ed è soprattutto un processo collettivo, dal momento che la società ha un interesse diretto nel trasferimento tecnologico. Quando vengono prese decisioni relative all’innovazione il governo dovrebbe quindi avere come primo pensiero le conseguenze distributive di tali processi. Ad esempio, sostiene Atkinson, la DARPA avrebbe dovuto porsi delle domande sulle conseguenze che avrebbe avuto il piano per realizzare veicoli autonomi, di cui un terzo delle forze di terra avrebbe dovuto servirsi entro il 2015. La DARPA avrebbe dovuto chiedersi quali potessero essere le conseguenze del trasferimento tecnologico dall’esercito alla società civile, domandandosi cosa sarebbe successo ai taxisti e ad altri lavoratori. La ricollocazione dei lavoratori umani che sarebbero stati sostituiti avrebbe dovuto essere un problema tanto importante quanto quello della realizzazione fattiva della ricerca stessa.

A fianco della direzione del cambiamento tecnologico e della produttività del lavoro e del capitale sta anche il problema della polarizzazione dei settori dell’economia. Atkinson ne parla partendo dal cosiddetto “effetto Baumol”, che afferma che la produttività cresca di più in determinati settori e che, al tempo stesso, in altri settori non vi sia modo di aumentare l’output per persona. L’autore ricorda che l’effetto Baumol è stato spesso applicato al settore pubblico, sostenendo che la crescita più lenta della produttività in settori come sanità e istruzione comporti un costo crescete dei servizi pubblici, che genererebbe problemi fiscali. Enunciato nella sua “versione forte”, l’effetto Baumol prevedrebbe che, poiché grazie al progresso tecnologico è ora possibile produrre due macchine nello stesso tempo con cui prima se ne produceva una, il costo relativo dell’istruzione raddoppi qualora i salari dell’istruzione pubblica aumentino in parallelo a quelli della manifattura. Atkinson afferma però che la produttività del servizio pubblico dipende sia dall’attività svolta che dal valore attribuito a quell’attività: “un mal di schiena ben curato può significare che il paziente è in grado di tornare al lavoro prima. Il fatto che il lavoratore sia più produttivo nella mansione […] a cui torna comporta che il guadagno derivante dal trattamento per il mal di schiena […] è ora maggiore. Il volume dell’attività di servizio pubblico rimane lo stesso, ma il suo valore è cresciuto”. Il governo quindi non può “arrendersi” all’effetto Baumol, prendendolo come inevitabile, ma deve puntare ad aumentare la produttività dei lavoratori nei settori ad alta intensità di lavoro e quindi investendo pesantemente sul capitale umano. Molto interessante è il ragionamento che Atkinson propone sulla pubblica amministrazione, che per lui dovrebbe essere migliorata, sostenendo la necessità di creare un servizio “ben addestrato e indipendente”.

La tecnologia ha un ruolo importantissimo nel migliorare l’efficienza di un servizio, ma il governo deve bilanciare i risparmi ottenuti tramite il progresso tecnologico ponendosi il compito di salvaguardare coloro i quali sono più svantaggiati nella loro relazione con le nuove tecnologie. Come afferma Atkinson “la disuguaglianza economica spesso va a braccetto con differenze nell’accesso nell’uso o nella conoscenza delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione […], per una persona che ha appena perso il posto di lavoro inoltrare una domanda di indennità di disoccupazione online può essere una seria sfida. Coloro che si trovano in difficoltà sono quelli che hanno più bisogno di un’amministrazione dal volto umano.

 

Investimenti pubblici: fra uguaglianza ed efficienza

In questa sezione Atkinson elabora delle riflessioni che hanno un’enorme importanza, soprattutto alla luce della spirale della crisi del debito pubblico che ha coinvolto l’UE e che i paesi membri faticano a superare. Quando prendiamo in considerazione l’eredità che lasceremo ai nostri figli secondo Atkinson non possiamo fermarci al debito nazionale, ma dobbiamo invece considerare altri tre elementi:

  1. Le passività delle pensioni statali;
  2. L’infrastruttura pubblica e la ricchezza reale;
  3. I beni finanziari e pubblici

Il punto fondamentale è che non ci si può concentrare solo sul debito quando si esamina il bilancio del settore pubblico, ma si deve considerare anche il patrimonio nazionale. Bisogna infatti guardare anche agli attivi del bilancio, dati dai beni pubblici reali e finanziari. Nel caso dei beni reali, Atkinson cita il presidente Eisenhower, che nel suo discorso sullo Stato dell’Unione nel 1961 rivendicava la realizzazione del sistema di autostrade interstatali e altri investimenti pubblici, di cui le generazioni hanno continuato e continuano a godere. È difficile calcolare il valore esatto di questi attivi, ma non può essere ignorato il valore che questi attivi hanno per il patrimonio nazionale.

È proprio il patrimonio nazionale che Atkinson mette sotto la lente di ingrandimento, analizzandone il percorso storico per il caso britannico[4]. Nel 1957 il debito nazionale era maggiore del patrimonio nazionale, che però iniziò a crescere, diventando positivo nei primi anni ’60, quando il patrimonio pubblico raggiunse più o meno i tre quarti del reddito nazionale. Le cose sono cambiate dal 1979, con l’elezione di Margaret Thatcher, sotto il cui governo iniziò il declino del patrimonio nazionale: in parte lo Stato trasferì la proprietà di molti dei suoi beni reali alle famiglie, ad esempio con il programma “Right to Buy”, che permise a chi viveva nelle case popolari di acquistare la propria casa[5]. Un altro caso di trasferimento patrimoniale lo si è avuto con la privatizzazione di aziende pubbliche come la British Telecom e la British Gas. La conseguenza è stata che nel 1997, anno in cui Tony Blair vinse le elezioni, il patrimonio nazionale era di poco superiore allo zero e questo trend è stato sostanzialmente confermato nei 10 anni successivi, ad esclusione dei primi anni di governo laburista in cui il patrimonio aveva leggermente recuperato. È opinione di Atkinson che il patrimonio netto dello Stato torni ad essere significativamente positivo, non solo tramite la riduzione del debito nazionale ma anche tramite l’accumulazione degli attivi di Stato. “Detenendo capitale e condividendo i frutti degli sviluppi tecnologici, lo Stato può usare le entrate risultanti per promuovere una società meno disuguale […] Alla domanda <<chi possiede i robot?>>, la risposta dovrebbe essere che, in parte, appartengono a tutti noi.

Atkinson muove quindi la sua proposta successiva:

“Deve venire creata una Autorità di investimento pubblica, che gestisca un fondo patrimoniale sovrano al fine di accrescere il patrimonio netto dello Stato con investimenti in aziende e proprietà immobiliari”.

La questione dei fondi sovrani è indubbiamente interessante ed è stata trattata anche da Piketty, mostrando come siano soprattutto le vendite del petrolio a finanziare questi fondi sovrani. Se però Piketty sollevava diversi dubbi sulla natura e sul ruolo di questi fondi[6], Atkinson rileva delle opportunità indiscutibilmente interessanti: l’idea è che tramite il fondo sovrano lo Stato aumenti le sue partecipazioni in aziende e proprietà immobiliari, aumentando di conseguenza il patrimonio netto. Anche in questo caso, le motivazioni che spingono l’autore a fare una simile proposte sono legate a considerazioni di uguaglianza, nello specifico di uguaglianza intergenerazionale. Poiché il patrimonio dello Stato è una misura di quanto verrà lasciato alle generazioni successive, la costruzione di un fondo patrimoniale sovrano è un mezzo per tutelare l’uguaglianza fra generazioni.

Come dovrebbe funzionare però un simile ente? Secondo Atkinson lo scenario migliore sarebbe quello di uno Stato che trae “beneficio senza controllo” dalle proprie partecipazioni. Dovrebbe quindi possedere una partecipazione azionaria significativa traendone un beneficio fiscale, senza avere controllo sulle politiche imprenditoriali. Naturalmente, Atkinson non si immagina un ente di investimento totalmente passivo; gli investimenti dovrebbero essere “guidati da criteri etici relativi ai campi in cui le aziende operano e dalla sensibilità alle sue più generali responsabilità sociali, come la politica salariale”.

 

Un’aliquota al 65%

Nel corso degli anni il Regno Unito, così come molti altri paesi, ha radicalmente diminuito le tasse più alte. Il governo Thatcher, appena insediato, ridusse l’aliquota massima sul reddito da lavoro dal 83% al 60% e poi, nel 1988, l’aliquota massima venne nuovamente diminuita al 40% (attualmente è al 45%). Nel corso degli anni vi sono stati diversi dibattiti sugli effetti dell’aumento delle imposte, nello specifico relativi al rapporto fra l’aumento delle aliquote e il gettito; Brewer, Saez e Shephard ad esempio, hanno stimato che l’aliquota d’imposta più alta che massimizzi il gettito è del 40% . Atkinson critica apertamente l’idea per cui l’aliquota che massimizza il gettito debba essere fissata al 40%; secondo l’autore vi sono diversi motivi per essere scettici riguardo questa affermazione. Innanzitutto c’è molta incertezza sull’elasticità imponibile, inoltre il livello dell’aliquota massima può cambiare a seconda degli assunti di partenza (e se i guadagni marginali derivassero dal lavoro autonomo? Se i lavoratori dipendenti venissero pagati attraverso un’azienda così che non vengano versati tutti i contributi per la previdenza sociale?). Vi è anche un problema relativo all’interdipendenza fra i redditi di persone diverse, che nei lavori discussi da Atkinson, come quello della Mirrlees Review, non vengono presi in considerazione; l’autore sostiene infatti che “l’aumento del reddito del primo 1% risultante dal taglio delle imposte vada a spese di altri contribuenti. In termini di attività imprenditoriali, potrebbe essere come pescare nello stesso stagno: l’aumento di reddito per i primi significa meno opportunità per altri”.

A queste considerazioni bisogna anche aggiungere che l’abbassamento delle aliquote ha stimolato la crescita dei “super-dirigenti”, un elemento che anche Piketty ha ritenuto essere centrale nella determinazione delle disuguaglianze nei redditi da lavoro.  In passato, con aliquote marginali d’imposta elevate, i dirigenti non avevano molti incentivi nel negoziare retribuzioni più elevate, cosa che invece hanno incentivo a fare adesso. Dagli anni ’80 in poi, i manager si sono sempre più sforzati per aumentare le loro remunerazioni o i loro bonus, a spese degli azionisti. Perciò, sostiene Atkinson, “all’aumento dei guadagni dei manager vanno contrapposte le cifre più basse pagate agli azionisti che, sotto forma di dividendi più bassi, significano minor gettito fiscale”.

Prestando attenzione ai tremi di equità fiscale, sostenendo che l’aliquota marginale deve essere tenuta distinta da quella media, anche e soprattutto per tutelare le persone con i redditi più bassi, che quindi potrebbero trovarsi inverosimilmente svantaggiate da un aumento del proprio reddito, poiché questo farebbe scattare prelievi maggiori, Atkinson arriva a proporre l’introduzione di un’aliquota massima per i redditi più elevati delle persone fisiche del 65%. L’idea è quella di aumentare l’aliquota media pagata dalle persone con i redditi più alti. “Ciò significa che, per aumentare l’aliquota media di chi sta meglio, devono aumentare le aliquote marginali sui gradini inferiori della scala dei redditi”.

“Dobbiamo tornare a una struttura di aliquote più progressiva per l’imposta sui redditi delle persone fisiche, con aliquote marginali crescenti per scaglioni di reddito imponibile, fino a un’aliquota massima del 65%, il tutto accompagnato da un ampliamento della base imponibile”.

 

Reddito minimo di partecipazione

Per Atkinson ci sono pochi dubbi: è fondamentale rovesciare il trend che da più di trent’anni ha caratterizzato le politiche di taglio al Welfare State, che di recente sono state ulteriormente rinvigorite dalla logica dell’austerity. L’autore propone una riflessione molto interessante sul reddito minimo per gli adulti, un tema che ultimamente è spesso e volentieri al centro del dibattito pubblico. È soprattutto famoso il concetto di reddito di base, detto anche reddito di cittadinanza. Il reddito di cittadinanza verrebbe erogato su base individuale, con eventuali distinzioni in base all’età o alle condizioni di salute o a eventuali disabilità, senza essere legato allo status socioeconomico e senza legami con i contributi di sicurezza sociale, che verrebbero aboliti. Verrebbe sottoposto all’imposta dei redditi delle persone fisiche e verrebbero aboliti gli sgravi personali, rendendo quindi il reddito di cittadinanza, nella sua versione “pura”, il sostituto di tutto il sistema di previdenza sociale e dei benefici legati alla condizione economica. Secondo Atkinson questa è un’idea impercorribile, poiché il reddito di cittadinanza è molto difficile da finanziare. Togliere la spese di previdenza sociale e tutti i trasferimenti sociali non vorrebbe dire infatti che si è “coperta” tutta la spesa pubblica di uno stato, che potrebbe quindi essere rimpiazzata in toto dal reddito di cittadinanza. Vi sono altre spese di governo, motivo per cui servirebbe un’aliquota forfettaria troppo alta, anche al di sopra del 50%[7]. Ipotizzando che per finanziare queste altre spese servisse un’aliquota del 20%, finanziare l’erogazione di un reddito minimo pari ad un terzo del reddito medio (da finanziare con un aliquota del 33,3%) richiederebbe un’aliquota totale del 53,3%.

Atkinson propone quindi l’introduzione di un reddito minimo a complemento dell’attuale sistema di previdenza sociale, che si distinguerebbe dal reddito di cittadinanza su due aspetti. Il primo è la già menzionata natura complementare del reddito minimo: un pensionato che riceve una pensione statale si vedrebbe accreditato il più alto dei due importi, la pensione o il reddito minimo. Il secondo invece riguarda i criteri di erogazione del reddito, che Atkinson non legherebbe alla cittadinanza, un’idea che è allo stesso tempo troppo restrittiva e troppo ampia, ma alla “partecipazione”. L’autore definisce con “partecipazione” l’apporto di un “contributo sociale”, che per gli individui in età lavorativa potrebbe essere soddisfatto da un lavoro (sia autonomo, che dipendente o a tempo parziale), dalla formazione/istruzione o dalla ricerca attiva di un lavoro, dalla “cura domestica di bambini piccoli o di anziani non autosufficienti o dal volontariato regolare presso un’associazione riconosciuta”.

L’autore preferisce la partecipazione alla cittadinanza come criterio di erogazione del reddito minimo poiché quest’ultima è allo stesso tempo troppo ampia e troppo ristretta. Prendendo ad esempio il caso britannico l’autore sostiene infatti che la cittadinanza sia un criterio troppo ampio perché non sarebbe sensato fornire il reddito minimo a persone che pur essendo cittadini britannici non vivono in Regno Unito. Tuttavia, la cittadinanza è contemporaneamente una condizione troppo restrittiva per l’erogazione del reddito minimo poiché non sarebbe giusto escludere i cittadini di altri paesi che arrivano in Regno Unito per lavorare. Questo passaggio è sicuramente il più interessante, soprattutto alla luce dei recenti sviluppi: il libro è stato pubblicato un anno prima del referendum sulla permanenza del Regno Unito in Unione Europea. Atkinson chiama direttamente in causa l’Europa, affermando che in virtù della libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’UE sarebbe sbagliato escludere i cittadini di altri paesi membri dai programmi di fornitura del reddito minimo. Si potrebbe quasi dire che questo problema si sia “risolto” con il referendum del 28 Giugno 2016, ma la critica che Atkinson muove all’idea di reddito di cittadinanza è ancora valida: l’idea di un reddito di partecipazione sottostante alle condizioni enunciate dall’autore può tranquillamente valere nonostante la Brexit. Tuttavia è proprio sull’Unione Europea che l’autore si sofferma nel delineare la sua proposta:

“Deve essere introdotto a livello nazionale un reddito di partecipazione, a complemento della protezione sociale esistente, con la prospettiva di un reddito di base per i figli a livello di tutta l’Unione Europea”.

Altro elemento di interesse è che secondo Atkinson l’intero sistema di welfare debba superare l’assistenza cosiddetta “means-tested”, ovvero la fornitura di benefits legata agli indicatori della situazione economica. La diffusione di questi strumenti di controllo nell’erogazione dei social benefits non è nuova: la verifica della situazione reddituale è oggi sempre più estesa. Atkinson rileva diverse problematiche legate a questi strumenti, ma la più interessante fra tutte, che mostra la grande sensibilità dell’autore nei confronti di tematiche anche non prettamente economiche, è che la verifica del reddito crea delle barriere e, soprattutto, è stigmatizzante. Crea delle barriere perché raccogliere informazioni e completare il modulo di domanda per un determinato beneficio, che magari passa attraverso ad una burocrazia fortemente informatizzata ed automatizzata, può essere molto più difficile per gli individui delle classi più svantaggiate. Una delle ragioni per cui una “significativa minoranza” non fa domanda è per via degli stringenti criteri con cui devono dimostrare le proprie condizioni economiche[8].

Ma il sistema di “means-testing” è crea anche uno stigma per chi intende fare domanda. Atkinson rileva che questa è una storica preoccupazione in Regno Unito, in cui già dal XIX secolo si registravano testimonianze di persone che ammettevano di sforzarsi per non fare domanda di integrazione del salario. L’autore afferma che un sostegno efficace al reddito si misuri da come quel sostegno sia visto dai suoi potenziali beneficiari e in questo senso la pubblicità negativa fatta dai media nonché i commenti fatti dai politici nei confronti di chi fa domanda per i benefici hanno effetti esecrabili. Se chi gode di un beneficio viene bollato come “fallito”, scoraggiando molte persone dal fare domanda per dei benefici di cui avrebbero bisogno, allora non resta che ammettere le gravi falle che affliggono il sistema di protezione sociale, e non solo del Regno Unito.

 

Atkinson: lo Stato fra equità ed efficienza

Le proposte di Atkinson possono contribuire ad una più approfondita riflessione sul ruolo dello Stato. In precedenza è stato affermato che in un certo senso il libro di Atkinson sia “intrecciato” con quello di Mazzucato e in effetti i due libri potrebbero essere visti come due facce della stessa medaglia. Se abbiamo bisogno dello Stato Innovatore perché è solo lo Stato ad essere in grado di fare investimenti di lungo periodo e stimolare una crescita trainata dall’innovazione, è anche vero che abbiamo bisogno di uno Stato che sia il primo attore ad interessarsi delle problematiche di equità legate alla suddetta crescita.

Non è sufficiente pensare che l’innovazione possa da sola garantire una crescita equa e sostenibile. In questo senso è nuovamente lo Stato ad essere il soggetto che più di tutti gli altri può preoccuparsi dell’uguaglianza e della sostenibilità della crescita. Un’autorità pubblica che si occupi di gestire le partecipazioni nelle aziende unitamente al coordinamento con le attività di ricerca e di centri come la DARPA che non distinguono fra ricerca di base e applicata potrebbe garantire non solo un trasferimento tecnologico e una commercializzazione dei beni più efficaci, ma anche una maggiore attenzione all’uguaglianza e alla distribuzione della ricchezza.

A questo punto bisogna ricordarsi di cosa diceva Mariana Mazzucato circa la costruzione di sistemi simbiotici fra Stato e aziende. Il problema principale è la scarsa capacità dello Stato di maturare ritorni, diretti o indiretti, dall’attività di aziende che hanno beneficiato della ricerca finanziata dallo Stato. Le partecipazioni possono essere infatti uno strumento per ottenere tali benefici, mentre per le aziende non partecipate si potrebbero pensare soluzioni in linea con le proposte di Mazzucato, come ad esempio la “golden share” sui diritti di proprietà intellettuale. In questo senso, se lo Stato riuscisse effettivamente nell’intento di maturare ritorni dall’innovazione, unitamente ad una tassazione più progressiva si avrebbero certamente più risorse da dedicare alla riforma del welfare. Contemporaneamente, una politica attivamente impegnata a delineare la “grande strategia” della ricerca e dell’innovazione avrebbe più strumenti per arginare eventuali “derive” e contraccolpi generati dal cambiamento tecnologico e dalle forze della globalizzazione.

Non è detto che tutto ciò sia sufficiente ma sarebbe certamente un grande aiuto per riposizionare l’Europa su un percorso di crescita innovativa ed equa. Le forze di sinistra, di ispirazione socialista, che intendono disegnare programmi alternativi a quelli che il consenso neo-liberista ha prodotto potrebbero convergere proprio su un “centro di gravità” come questo. Lo Stato come veicolo di equità ed efficienza per l’intero sistema produttivo.


[1] Cfr. Piketty, T., Piketty: le brevi lezioni di uguaglianza di Atkinson, La Repubblica 24/01/2016.

[2] Atkinson ipotizza che i lavoratori non verrebbero più esposti ai pericoli delle sostanze chimiche.

[3] Nel caso americano, ad esempio, sembrerebbe che vi sia stata una sostituzione dei lavoratori di media qualifica con le macchine nell’esecuzione di compiti di routine. Sarebbe quindi avvenuto uno svuotamento al centro della distribuzione delle competenze.

[4] L’autore sostiene che sarebbe molto utile se ogni stato raccogliesse dati sul proprio patrimonio pubblico.

[5] Il Right to Buy ha avuto il merito di ridurre il coefficiente di Gini, garantendo un trasferimento patrimoniale non irrilevante alle classi più svantaggiate, tuttavia Atkinson ricorda che chi viveva in abitazioni di edilizia pubblica o privata è stato “lasciato indietro” dal boom delle abitazioni di proprietà, con conseguenze negative per via dell’aumento degli affitti.

[6] Piketty ne discuteva soprattutto le implicazioni a livello internazionale, parlando di come, qualora il prezzo del petrolio continuasse ad aumentare, gli stati occidentali dovrebbero rassegnarsi all’idea di diventare proprietà dei fondi petroliferi.

[7] Non si parla di aliquota massima ma di un’aliquota che dovrebbero pagare tutti e che probabilmente non basterebbe, poiché bisognerebbe capire il livello delle altre spese di governo.

[8] Atkinson cita il Child Tax Credit, che nel 2013 era “lungo dieci pagine, e le note che lo accompagnavano coprivano diciotto pagine”.

Scritto da
Lorenzo Cattani

Assegnista di ricerca presso l’Università di Bologna dove ha conseguito un dottorato di ricerca in Sociologia e ricerca sociale. Ha frequentato un Master in Human Resources and Organization alla Bologna Business School (BBS) e conseguito la laurea magistrale in Scienze internazionali e diplomatiche all’Università di Bologna.

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