Scritto da Giuseppe Palazzo
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L’accordo di Parigi prevede che gli stati consegnino dei documenti, chiamati Intended Nationally Determined Contributions (INDCs), indicanti quanto ogni Paese intende ridurre le emissioni e quindi quanto intende contribuire al mantenimento della crescita della temperatura globale sotto i 2°C. Secondo studiosi della Commissione Europea e dell’Università di Atene, nel caso in cui questi INDCs siano rispettati, la temperatura crescerebbe entro il 2100 comunque di più di 2 gradi. È stato calcolato l’effetto sull’economia delle politiche necessarie sia per gli obiettivi contenuti negli INDCs sia per il rispetto della soglia dei 2 gradi. I settori più penalizzati dalla lotta al cambiamento climatico sono quelli delle fonti fossili e quelli più inquinanti, quali il metallurgico. I dati mostrano una riduzione dei posti di lavoro in questi settori in parte, ma non del tutto, compensata dall’aumento nei settori meno inquinanti, legati al terziario e, ovviamente, alle fonti di energia alternative. Inoltre le politiche ambientali aumentano anche l’efficienza energetica, ovvero fanno sì che occorra meno energia per il funzionamento del sistema economico. I paesi più svantaggiati sono gli esportatori di fonti fossili, in base al peso che queste esportazioni hanno nel loro budget. Tuttavia l’implementazione di queste politiche non influisce sui fattori determinanti la disoccupazione nel lungo periodo, perciò l’impatto sull’occupazione descritto sopra si esaurisce e riguarda solo il breve-medio periodo.[7]
La riduzione del PIL nello scenario descritto dagli INDCs è dello 0,42% mentre nello scenario in cui si rispetta la soglia dei 2 gradi è dello 0,72%. Il tasso di crescita cala dal 2,98% al 2,90-2,93%. Quindi ci sono effetti negativi, economicamente parlando, ma sono contenuti e non vi è incompatibilità tra crescita e politiche climatiche.[8] Inoltre il settore delle rinnovabili sta vivendo innovazioni e abbassamenti di costi notevoli, per cui la transizione dalle fonti fossili comporta la crescita di un settore con margini di innovazione, capace di attirare investimenti e di godere della spinta di forze di mercato[9], come successo in Texas. E man mano che si usano delle tecnologie i costi di queste, per via dell’esperienza e delle innovazioni, calano e questo calo è maggiore per le tecnologie solari ed eoliche, ma anche nucleari, rispetto a quelle legate alle fonti fossili[10]. Tutti calcoli questi che non considerano i costi del cambiamento climatico, tra eventi atmosferici estremi, malattie respiratorie, desertificazione, conflitti per risorse in diminuzione e migrazioni.
L’International Energy Agency (IEA) segnala come già nel 2015 l’aumento della capacità produttiva degli impianti energetici legati alle rinnovabili sia stato maggiore di quello degli impianti basati sulle fossili. Entro il 2021 è previsto un aumento della produzione di energia rinnovabile del 42%. Nella generazione di elettricità le rinnovabili dovrebbero passare dal 23% del 2015 al 28% nel 2021, costituendo il 60% della nuova produzione. I costi di queste tecnologie continuano a scendere grazie alle politiche attuate ma anche grazie ad innovazioni e alla diffusione delle tecnologie in paesi più ricchi di rinnovabili. Il costo dell’eolico onshore calerà del 15% entro il 2021[11] e quello del solare cala tra l’8 e il 12% all’anno in molti mercati[12]. Anche il prezzo delle batterie per la conservazione di elettricità, utili per le fonti rinnovabili intermittenti come solare ed eolico, scendono[13].
Secondo l’International Renewable Energy Agency (IRENA) un raddoppio dell’uso delle rinnovabili (senza contare altre politiche climatiche) può portare diversi benefici. Il PIL globale salirebbe dello 0,6-1,1% (dipende se il raddoppio comprende anche un aumento dell’uso delle rinnovabili nel riscaldamento e nei trasporti) grazie all’attrazione di investimenti, soprattutto privati, seppur incoraggiati da alcuni strumenti finanziari. Anche la mole degli investimenti a livello globale salirebbe dell’1,8-3,1% compensando il calo nelle fonti fossili. Salirebbe la produzione nei settori delle costruzioni, dell’ingegneria (+1,3-2,4%) e dei servizi (+0,4-0,7%), a danno delle fonti fossili (-2,8-3,7%). Se si guarda al welfare globale vi sarebbe un aumento del 2,7-3,7%, soprattutto a livello sanitario, e gli USA sono tra i paesi dove il miglioramento sarebbe più elevato. Inoltre le importazioni globali di carbone entro il 2030 si dimezzerebbero e quelle di petrolio e gas scenderebbero del 7%. Nel mentre si svilupperebbe un mercato dell’equipaggiamento per le rinnovabili basato su tecnologie trasferibili e nella cui catena di produzione possono trovare posto diversi stati.[14]
Nel 2015 sono state assunte 8,1 milioni di persone nel settore delle rinnovabili, grazie a politiche favorevoli e al calo dei costi tecnologici. Negli USA l’aumento è stato del 6% mentre nel settore delle fonti fossili c’è stato un calo del 18%. Nel solare l’occupazione cresce 12 volte più velocemente che in qualsiasi altro settore dell’economia statunitense. Un raddoppio dell’uso delle rinnovabili nella produzione energetica mondiale porterebbe più di 24 milioni di posti di lavoro entro il 2030.[15]
In aggiunta bisogna considerare i costi dovuti alle esternalità negative delle fonti fossili, difficili da calcolare, che ricadono per il 90% sulla salute. Ammontano a 2,2-5,9 bilioni di dollari all’anno, che è tanto rispetto ai 5 spesi per la fornitura di energia. Le fonti con più esternalità sono il carbone, soprattutto, e il petrolio. Un raddoppio delle rinnovabili comporterebbe un risparmio di 1-3,2 bilioni all’anno fino al 2030, una cifra almeno quattro volte maggiore dei costi di questo raddoppio.[16]
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