Scritto da Ludovica Micalizzi
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La World Health Organization, ovvero l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), definisce la salute come «uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale» e non come semplice «assenza di malattie o infermità». È chiaro quindi che essere in salute non è un concetto riconducibile esclusivamente alle condizioni fisiche bensì è una nozione più ampia entro la quale rientrano anche le condizioni psichiche, sociali, economiche, culturali e sessuali del paziente.
Nel 2008 l’OMS fornisce per la prima volta la definizione di “medicina di genere” – integrando così il precedente concetto di salute –, intendendo «lo studio dell’influenza delle differenze biologiche (definite dal sesso) e socio-economiche e culturali (definite dal genere) sullo stato di salute e di malattia di ogni persona». Si assiste, pertanto, a una vera e propria rivoluzione in campo medico con l’introduzione di una fondamentale distinzione, per secoli tralasciata, tra il sesso e il genere. Per sesso si intende il complesso delle caratteristiche anatomiche, biologiche, fisiologiche e morfologiche che un individuo presenta al momento della nascita; al contrario, il genere è definibile come un costrutto sociale, come quell’insieme di caratteristiche che prescindono dal sesso biologico – e pertanto non sono innate – ma sono culturalmente e socialmente associate all’essere un individuo nato con organi maschili o femminili. A tal riguardo, prima di continuare ad indagare la questione è bene fare una precisazione al fine di una comprensione più pertinente e completa del concetto di medicina di genere. Per quest’ultima non si deve intendere, come spesso accade, una medicina rivolta al sesso esclusivamente femminile. La traduzione del termine, un calco dell’inglese gender, tende a creare confusione se si considerano le due accezioni della parola “genere” nella lingua italiana: infatti, in un senso grammaticale e particolare, il “genere” è ciò che evidenzia la differenza maschio/femmina ma può al contempo, a un livello universale e concettuale, indicare una categoria ampia di soggetti che condividono caratteristiche essenziali come, per esempio, quelle del genere umano. Dunque, l’ambiguità del vocabolo, accresciuta da espressioni che si sono consolidate nel corso della storia anche nell’ambito dei movimenti femministi quali “parità di genere”, “politica di genere” o “storia di genere”, ha fatto sì che si affermasse l’idea per cui “genere” equivalga a “relativo alle donne”[1]. Considerando tale complessità linguistica, dunque, sarebbe più appropriato parlare di “medicina genere-specifica”, dal momento che tali studi non si concentrano esclusivamente sull’analisi delle patologie e dalla sintomatologia che concernano persone di sesso femminile ma ha una notevole influenza altresì sulle cure riservate agli individui maschi o a persone che stanno vivendo un percorso di transizione sessuale e necessitano di particolari attenzioni a livello tanto clinico quanto psicologico. Secondo i dati raccolti dall’UNAR, l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali della Presidenza del Consiglio dei Ministri, il 46% della popolazione transgender ha difficoltà ad accedere alle cure sanitarie basilari, per esempio lo screening, in quanto percepisce atteggiamenti discriminatori.
Ecco, dunque, che la medicina genere-specifica (di seguito denominata semplicemente medicina di genere sia per economicità del testo sia per attenersi all’espressione maggiormente utilizzata per indicare quest’ambito di studi) si pone come disciplina complessa e trasversale il cui principale obiettivo è la ridefinizione del sistema medico-scientifico in toto in modo tale che tuttǝ possiamo essere sottopostǝ a diagnosi e cure specifiche, mirate e pertinenti.
La necessità imminente di una nuova medicina
Ma perché distinguere tra il sesso e il genere in ambito medico è così importante? E soprattutto come mai porre attenzione al genere risulta un elemento imprescindibile per far sì che la ricerca scientifica e farmacologica proceda correttamente? Per tentare di rispondere a queste domande è necessario risalire agli albori della medicina.
Fin dai tempi di Galeno (II secolo d.C.) l’individuo di sesso maschile è stato assunto a unico e perfetto esempio, a modello universale da studiare. Al contrario, il corpo della donna non è mai stato oggetto di attenzioni mediche ed è stato associato per difetto al corpo maschile; basti pensare che per Galeno gli organi genitali femminili sono una forma mutilata e imperfetta di quelli maschili e rispetto a questi si presentano introversi e dunque malamente sviluppati. Pertanto, i sintomi e le patologie riscontrate nell’uomo si riteneva dovessero necessariamente essere presenti allo stesso modo anche nella donna – con l’aggravante, tuttavia, che il corpo femminile è costitutivamente sbagliato e mal funzionante, una devianza rispetto al modello universale maschile e pertanto non degno di attenzioni.
Del resto, è certamente vero che l’organismo femminile è per sua natura più complesso e meno semplicistico rispetto al corpo degli uomini. La donna, infatti, nel corso della sua vita subisce diversi cambiamenti ormonali, connessi, per esempio, all’arrivo e al termine del ciclo mestruale così come alla gravidanza e al periodo post-partum. Si può dedurre che condurre esperimenti farmacologici su individui di sesso femminile comporta principalmente degli svantaggi di cui due sono particolarmente rilevanti: da una parte, dover analizzare un numero maggiore di soggetti, ovvero più donne nelle varie condizioni ormonali, il che richiede più tempo e una spesa economica maggiore. Dall’altra, dover sottoporre più volte un certo numero di donne con disturbi diversi e in età diverse ai medesimi esperimenti al fine di rilevare gli standard di ricezione e reazione al farmaco. Anche in questo caso il dispendio economico e la durata delle sperimentazioni risultano nettamente maggiori rispetto al condurre esperimenti su soggetti di sesso maschile.
Per tali ragioni spesso sono stati prescritti alle donne farmaci sperimentati solo su soggetti maschili e di conseguenza nocivi e/o inefficaci. È il caso della talidomide, un farmaco antiemetico che agli inizi degli anni Cinquanta veniva prescritto alle donne in stato di gravidanza per combattere le nausee. In Italia il nome commerciale del farmaco era Grippex e inizialmente venne adoperato come farmaco sperimentale per la cura di crisi respiratorie, ma senza alcun successo. Nel corso degli anni successivi esperimenti condotti su animali di sesso maschile dimostrarono la capacità della talidomide di eliminare la nausea, oltre a dimostrare la sua funzione sedativa. Già a partire dalla fine degli anni Cinquanta alcune indagini fecero notare possibili effetti collaterali sul sistema nervoso dei nascituri di donne che avevano assunto il farmaco; emerse così una stretta correlazione tra l’assunzione della talidomide e le malformazioni congenite tra cui, per citare le più gravi, mal funzionamento degli arti superiori e inferiori, focomelia, anomalie della struttura e/o funzionamento degli organi interni[2].
Il caso della talidomide palesa il carattere fallimentare di un modus operandi puramente androcentrico, e a tal riguardo si è recentemente iniziato a parlare anche di “farmacologia di genere”, intendendo con ciò una ridefinizione e rimodulazione della ricerca farmacologica. Infatti, ricerche endemiche hanno ampiamente dimostrato che le donne – in virtù di specifiche reazioni ormonali, di differenti influenze socioculturali e di un diverso comportamento psicologico – presentano una risposta all’assunzione dei farmaci alterata rispetto a quella emersa dagli esperimenti condotti su campioni di individui maschi. Ciò, come nel caso degli studi clinici, chiama la farmacologia a ripensare a se stessa in un’ottica maggiormente inclusiva. Bisognerà attendere il 1991 perché una donna di nome Bernadine Healy, cardiologa, denunci in un editoriale pubblicato sul New England Journal of Medicine e intitolato La sindrome di Yentl (dal nome dell’eroina protagonista del romanzo del Premio Nobel Isaac B. Singer che dovette rasarsi i capelli per sembrare un maschio e poter continuare a frequentare la scuola ebraica) le pessime condizioni assistenziali riservate alle donne che si recano presso la struttura in cui lavora. Healy si rende conto che le donne sono meno ospedalizzate degli uomini, vengono frequentemente congedate senza preoccupazione alcuna per il loro effettivo stato di salute e, se presentano i sintomi di patologie cardiologiche e cardiovascolari, questi spesso vengono minimizzati e mal interpretati. Nell’articolo si sostiene senza compromessi l’urgente necessità di iniziare a far sì che anche il corpo femminile divenga oggetto di sperimentazioni e studi clinici per scongiurare il pericolo di non riuscire a riconoscere nelle donne i sintomi di malattie gravi e di conseguenza non sapere come agire per salvarle.
Alcuni numeri
È risaputo che le donne godono del privilegio di vivere una vita più lunga rispetto agli uomini. In Italia, per esempio, la durata media della vita di uomo è stimata intorno agli 80,3 anni mentre per le donne arriva a 84,9. Ma questo non costituisce un effettivo vantaggio se rapportato alla qualità della vita che conducono le donne. Infatti, se si osservano attentamente i dati forniti dal Ministero della Salute[3] salta immediatamente all’occhio che l’aspettativa di vita sana è identica nei due generi: dunque, i cinque anni di scarto in più nella durata di vita delle persone che si identificano come donne indicano che queste li trascorrono in condizioni di disabilità e malattia. È quello che comunemente si definisce “paradosso donna”, ossia l’idea che le donne godano di una longevità maggiore rispetto agli uomini senza tuttavia evidenziare il dato preoccupante riguardante le malattie e le patologie che le colpiscono in percentuale nettamente maggiore rispetto a soggetti di sesso maschile. Per riprendere il caso analizzato da Healy, le donne tendono ad ammalarsi di più di malattie cardiovascolari rispetto a quanto si è sempre creduto. Tuttavia, la sintomatologia non viene debitamente riconosciuta e conseguentemente non si attuano nei tempi dovuti i protocolli clinici necessari, con il rischio di causare l’aggravarsi della malattia fino a non poter più procedere per vie cliniche. Analizzando i dati raccolti dal Ministero sul territorio nazionale, emerge che la mortalità per malattie cardiovascolari è del 48,4% nelle donne e del 37,7% negli uomini e che l’infarto del miocardio (ictus) colpisce in una percentuale maggiore (+55%) le donne rispetto agli uomini. Tuttavia, lo scompenso cardiaco si presenta con una sintomatologia differente nei due sessi. Si parla in questo caso di “sintomatologia atipica”: le donne colpite da un infarto al miocardio non presentano dolore al torace ma al collo o al dorso, in alcuni casi vi è addirittura assenza di dolore ma semplicemente una sensazione generalizzata di ansia e dispnea (fatica nel respirare). Per questi motivi, ovvero per la mancanza di riconoscimento dei sintomi, le donne non vengono ricoverate e la percentuale di soggetti femminili che muore di infarto è in aumento rispetto a quella degli uomini. Parallelamente, tra le malattie dell’osso, l’osteoporosi è ancora oggi considerata una malattia prettamente femminile causata dalla diminuzione di estrogeni a seguito della menopausa. Tuttavia, studi epidemiologici condotti in Europa hanno dimostrato che una consistente percentuale di uomini (6%) tra i cinquanta e i novant’anni si ammala di osteoporosi; ma, essendo storicamente considerata una malattia femminile, agli uomini viene riservato un trattamento meno specifico. Si è altresì attestato che la percentuale di mortalità in seguito alla frattura dell’anca è maggiore nei soggetti di sesso maschile rispetto a quelli di sesso femminile ma, nuovamente, ciò non ha avuto come conseguenza la rivisitazione delle cure terapeutiche e farmacologiche. Nel corso degli anni studi ed esperimenti farmacologici sono stati infatti condotti su casi clinici di osteoporosi nelle donne, e dunque le cure prescrivibili in tal caso non sono sempre adatte a individui maschi. Ecco che si comprende perfettamente come la medicina di genere non sia, come si diceva, la medicina delle donne ma un modo di rifondare gli studi clinici e farmacologici in una prospettiva più ampia e inclusiva tanto sul versante maschile quanto su quello femminile.
Qual è la situazione in Italia?
L’Articolo 32 della Costituzione della Repubblica Italiana sancisce che la salute è un diritto inalienabile e stabilisce altresì che il benessere dell’individuo è interesse della collettività. In tale contesto giuridico è evidente che il governo italiano si impegna, politicamente e socialmente, a farsi portatore dei progressi della medicina e della ricerca scientifica, clinica e farmacologica; pertanto, le differenze biologiche e fisiologiche che esistono tra generi non possono che essere oggetto di attenzioni. In effetti l’Italia si presente come un paese all’avanguardia per ciò che concerne la ricerca nell’ambito della medicina genere-specifica; nel 2016 l’Italia ha stabilito, a livello normativo, che il genere deve essere considerato come fattore discriminante nella ricerca medico-scientifica, ponendosi così perfettamente in linea con quanto affermato dall’OMS nel programma per la salute 2014-2019. Il 13 giugno 2019, in ottemperanza all’articolo 3, comma 1, della legge n. 3/2018, viene poi approvato dallo Stato e dalle Regioni riuniti in conferenza il Piano per l’applicazione e la diffusione della Medicina di Genere in Italia, alla cui stesura e attuazione hanno anche collaborato il Ministero della Salute e l’Istituto Superiore di Sanità (ISS). Un grande traguardo per il nostro Paese se si considera che il suddetto Piano nazionale si pone quale obiettivo primario «la diffusione della Medicina di Genere mediante la divulgazione, formazione e indicazione di pratiche sanitarie che nella ricerca, nella prevenzione, nella diagnosi e nella cura tengano conto delle differenze derivanti dal genere, al fine di garantire la qualità e l’appropriatezza delle prestazione erogate dal Servizio Sanitario Nazionale (SSN) in modo omogeneo sul territorio nazionale», seguendo uno degli obiettivi prefissati dall’Agenda dell’OMS per il 2030. Uno scopo certamente non da poco che, tuttavia, mette bene in luce il bisogno, ormai impossibile da trascurare, di una nuova ricerca medica e di nuove metodologie cliniche sull’intero territorio nazionale senza alcuna differenza di sesso, ceto sociale e, soprattutto, genere. Un fine, questo, che fa eco all’Articolo 32 della Costituzione e che, dunque, si pone in linea con i principi socialdemocratici su cui si fonda la Repubblica Italiana. Inoltre, il Piano prevede altresì l’istituzione della figura del “referente regionale”, cioè un esperto il cui compito è di coordinare e monitorare le attività legate all’attuazione del Piano. Un modo per creare interconnessione e rafforzare i collegamenti tra le Regioni, in modo che vi sia contezza di tutte le realtà sanitarie del territorio, delle esigenze di ciascuna e dei progressi compiuti singolarmente e collettivamente.
Sarebbe tuttavia naïf ritenere che l’attuazione del Piano Nazionale si stia rivelando un compito semplice e che stia avvenendo nei tempi e nelle modalità necessarie affinché si attui un effettivo e radicale cambiamento nei rapporti tra medicina e genere. Ciò non toglie che si tratti di una prima importante azione nell’ambito della lotta per l’affermazione della medicina di genere. Il contributo maggiore che possono fornire azioni e riflessioni intorno a tale questione è certamente quello di ricordarci che la salute è un diritto e la sua rivendicazione rientra all’interno della lotta politica che quotidianamente si combatte per la realizzazione di un nuovo mondo in cui le discriminazioni e le disuguaglianze di genere non hanno più ragion d’essere e soprattutto in cui coloro che si identificano come donne vengono riconosciute, tout court, come soggetti giuridici occupanti uno spazio pubblico identico a quello destinato agli uomini. L’attualizzazione della medicina di genere è un compito che riguarda tuttǝ e cercare di contribuire alla sua diffusione secondo le proprie possibilità e modalità è prima di tutto una missione sociale.
[1] Silvia De Francia, La medicina delle differenze. Storie di donne uomini e discriminazioni, a cura di Cinzia Ballesio, Neos Edizioni, Torino 2020, pp. 28-29.
[2] A tal riguardo risultano essenziali le testimonianze delle vittime di talidomide le quali hanno istituito una associazione al fine di ottenere ascolto e giustizia: https://www.vittimetalidomideitalia.it/la-nostra-storia/
[3] Quaderni del Ministero della Salute, n. 26, aprile 2016, Il genere come determinante della salute. Lo sviluppo della medicina di genere per garantire equità e appropriatezza della cura, pp. 29-32.