Recensione a: Alessandro Campi (a cura di), Dopo. Come la pandemia può cambiare la politica, l’economia, la comunicazione e le relazioni internazionali, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2020, pp. 276, PDF scaricabile liberamente (scheda libro)
Scritto da Eleonora Desiata
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Se pensare il mondo del dopo-Covid è un esercizio nel quale molti in questi mesi si sono cimentati, fra virtuosismi, cinismi, catastrofismi e utopie, il dibattito ha in gran parte oscillato fra ‘andrà tutto bene, ne usciremo migliori’ e argomentazioni secondo cui in fondo, passata la paura iniziale, poco o niente si farà per risolvere le contraddizioni del mondo per come lo conosciamo.
In questo quadro, lo sforzo collettivo di Dopo, il volume a cura di Alessandro Campi edito da Rubbettino, è quello di squarciare quel velo determinista che molte previsioni stendono su un ancora indefinito scenario post-pandemia. Fra i migliori contributi usciti sul tema in questo periodo, Dopo indaga, sfuggendo a tentazioni futurologiche, i cambiamenti che i fenomeni innescati dalla pandemia, innestandosi su tendenze e processi dell’era pre-Covid, potrebbero ragionevolmente produrre sulla sfera politico-istituzionale, economica e geopolitica.
Guardando ai regimi politici, risulta evidente che la pandemia stia mettendo fortemente alla prova governi e istituzioni. Nella maggior parte dei paesi, si sono adottate in questi mesi misure eccezionali, praticamente impensabili fino all’inizio dell’anno. Da un lato, la rinnovata pressione sulle istituzioni si inserisce in più ampie e risalenti tendenze ‘post-democratiche’ e di crisi di legittimazione delle forme della rappresentanza. Dall’altro, in molti temono che questa fase possa alterare indelebilmente i fondamenti delle (liberal-)democrazie occidentali, accelerando tre dinamiche in particolare: la personalizzazione (tanto comunicativa quanto istituzionale) delle leadership, la transizione a un contesto comunicativo ibrido, e il ricorso a tecnologie di tracciamento e sorveglianza da parte delle autorità di governo. La permanenza di uno «stato d’eccezione debole», come lo definisce Lorenzo Castellani riproponendo la lettura di Charles Maier dello stato d’eccezione schmittiano, dominato dalla sospensione della legalità e da una normazione secondaria a colpi di DPCM, pone il rischio di una normalizzazione dei poteri d’emergenza, dello svuotamento della democrazia rappresentativa a favore di una più forte spinta tecnocratica (se non addirittura tecnopopulista) specie quando, fra non molto, occorrerà fronteggiare una crisi economica e sociale che si annuncia profonda.
Se nella maggior parte dei casi le misure eccezionali adottate dai governi avranno carattere temporaneo, non è da escludersi che in alcuni paesi si possa cristallizzare uno sbilanciamento del potere a favore degli esecutivi, o un contesto favorevole alla riduzione dei diritti delle opposizioni e della libertà di espressione. D’altro canto, l’accelerazione nell’utilizzo della rete da parte dei cittadini e la penetrazione sempre più marcata della tecnologia nelle nostre vite – scrive Damiano Palano – ci condurranno verso un contesto comunicativo ibrido, una «bubble democracy» che frammenterà ulteriormente il pubblico e favorirà il proliferare di nicchie autoreferenziali, con la possibile conseguenza di più forti dinamiche di polarizzazione, non soltanto politiche. Dalla crisi del 2008 erano scaturite, accanto alla crisi economica, una grave crisi politica e una crisi di ‘disorientamento’ culturale, a monte di molteplici e più stringenti richieste identitarie. Se è probabile che un intreccio simile si produca nello scenario post-Covid, è anche vero che le democrazie occidentali si troveranno ad affrontare l’eredità di dinamiche risalenti: la crisi fiscale dello Stato, una crescente crisi della governabilità, il tramonto delle vecchie culture politiche e l’assenza di nuove che possano sostituirle. Non è da escludere che a questo si aggiunga l’acuirsi di conflitti mai sopiti, quali la frattura centro-periferia e le tendenze isolazioniste e nazionaliste. In altre parole, la «recessione democratica», che secondo alcuni studiosi sarebbe in atto da almeno quindici anni, potrebbe trovare nel dopo-pandemia il proprio compimento – al netto, forse, dell’auspicabile indebolimento dei regimi autoritari in alcune aree del mondo.
Il virus sembra anche, per certi versi, aver sospeso il pensiero politico, come scrive bene nel suo saggio Giulio De Ligio. Un’umanità immobilizzata dalla paura della morte e in nome della responsabilità reciproca si è trovata unita dal confinamento e dal distanziamento, che, per quanto essenziali, non costituiscono in sé una causa condivisa o un’affermazione comune di vita. Molti sostengono che l’economia lungamente sospesa tornerà per imporre alla vita più pesanti ed estese conseguenze. Non si può però dimenticare come ad essere venuta meno sia stata, in primo luogo, la preoccupazione ‘architettonica’ della politica di plasmare il giusto rapporto tra le ‘attività essenziali’ della vita comune. L’immagine che questa fase restituisce rischia di essere quella, scettica, di una vita essenziale, ma in tutto separabile dalle pratiche ed esperienze che ne garantiscono il bene. La più grande sfida sarà forse quella di non abituare le nostre società polverizzate alla permanenza dell’eccezione. Occorrerà costruire forme d’azione e di pensiero che sappiano includere la dimensione della mortalità, senza però ridurre l’intera esperienza umana all’imperativo di rinviare la morte, smettendo quindi di ripudiare le comunità politiche e spirituali in cui di quella esperienza umana si rintraccia il senso. La manifestazione impietosa e ambivalente dell’interdipendenza umana offerta dal virus, del resto, non porterà ad un’unificazione e una cooperazione ‘oggettive’ o meccaniche fra persone e fra comunità, nella misura in cui la considerazione della vita come responsabilità collettiva non può determinare contorni e contenuti della comunità in cui trovare insieme i propri motivi di vita, e in fondo dare significato alla morte.
Le aspettative sempre più elevate riversate sui leader dai processi di personalizzazione della politica – insieme alla crescente incertezza e minore identificazione tipiche della post-modernità – si scontrano poi con le ridotte possibilità di fornirvi risposte adeguate. In una società dove rischi antichi e nuovi si sommano, prevenire e risolvere di volta in volta le crisi comporta costi politici ed economici notevoli, ed espone i leader a de-legittimazioni, contro-narrazioni e responsabilità che ne superano le effettive prerogative, alimentando così una certa indisponibilità dei leader stessi a rispondere ad alcune aspettative. Le fasi iniziali di diffusione del virus hanno mostrato come il modello prevalente di leadership produca carenze nella capacità di governo (impedendo una migliore prevenzione che era invece, entro una certa misura, possibile). Resta da capire se una crisi che richiede la massima attivazione di tale capacità possa costituire un’opportunità di cambiamento di quel modello.
Le assemblee elettive, dal canto loro, hanno assunto ruoli diversi rispetto alle forme adottate per facilitare l’attuazione delle misure d’emergenza e garantire il funzionamento della democrazia. Il Parlamento italiano è stato però l’unico pressoché silente per quasi tutto il mese successivo alla dichiarazione d’emergenza, rinunciando ad esercitare da subito il controllo sul Governo autore di tale dichiarazione (una situazione sulla quale è poi intervenuto l’emendamento di Stefano Ceccanti sulla parlamentarizzazione dei DPCM). Il dibattito sulle forme organizzative da attuare per garantire l’esercizio della rappresentanza democratica è inoltre rimasto per lo più circoscritto alle cerchie intellettuali e accademiche. D’altronde, l’Italia ha visto nella gestione dell’emergenza una atipica cogestione tra Presidente del Consiglio, governi locali, e tecnici sempre più presenti sulla scena pubblica, una governance allargata (ma centralizzata sull’esecutivo e sulla figura del Presidente del Consiglio) che ha eclissato tutta la politica rimasta fuori dal perimetro decisionale, inclusa la dimensione di partito, anche all’interno della compagine di governo. Se la gestione italiana dell’emergenza merita giudizi quantomeno prudenti, quest’ultima ha senz’altro riportato al centro l’attualità del dibattito sulle riforme costituzionali.
Se in Italia le trasformazioni legate alla pandemia hanno poi comportato un certo sdoganamento del digitale, fra un telelavoro spacciato per smart working e una didattica a distanza confusa con l’e-learning, queste non hanno necessariamente fornito gli strumenti per navigarlo, mancando di colmare un gap culturale e di competenze per tanti cittadini e interi settori. La sfida dei prossimi mesi e anni sarà quella di ragionare in termini di ‘sostenibilità digitale’, ossia di un approccio alle tecnologie mirato ad uno sviluppo che rispetti i diritti fondamentali e aderisca a criteri precisi di sostenibilità. Nel più ampio dibattito sul capitalismo della sorveglianza e sulla relazione sbilanciata fra individui e piattaforme digitali, scrive Stefano Epifani, è possibile pensare ad attività come il contact tracing in chiave sostenibile e nella tutela dei diritti (ad esempio attraverso la nozione di self sovereign identity), purché alla base vi sia un contesto culturale saldo di accountability pubblica e civismo.
Sul piano della comunicazione, questa pandemia descritta attraverso un gergo bellicista, che ne limita e travisa la comprensione, risente in misura significativa di un radicato immaginario distopico-catastrofista – fra contaminazioni foucaultiane sulla sorveglianza e apocalissi zombie popolate di morti viventi post-umani –, ma anche di influenze complottiste e cospirazioniste. Il rigetto e lo sdegno intellettuale nei confronti del complottismo non bastano a spiegare perché le teorie del complotto facciano presa su un così grande numero di persone – al punto da diventare un fenomeno di massa –, e quali meccanismi ne favoriscano la diffusione in alcuni momenti storici. Una mentalità figlia di una pre-modernità chiusa e massivamente esposta alla paura della fine, solo in minima parte intaccata dal razionalismo della modernità, che nelle fasi di accelerazione della storia emerge insieme ad un prepotente bisogno di sicurezza, e alimentata dal sospetto verso le zone d’ombra del potere, a fronte – nel caso di questa pandemia – di una conoscenza scientifica considerata insieme cura e causa di tutti i mali.
Dal momento che per l’infodemia non c’è un vaccino, né un piano accettabile in una società democratica (non si può mettere in lockdown l’informazione), la strada dovrà essere quella di invertire alcuni meccanismi politico-mediatici: rispondere al bisogno di chiusura cognitiva sostituendo le illazioni con le prove, al bisogno di rassicurazione ribaltando la logica mediatica del sensazionalismo e dei click, a quello di gratificazione immediata allentando la presa della fast politics fatta di annunci e iper-comunicazione.
Gli stessi processi di formazione e diffusione dell’opinione pubblica hanno subito in questa fase una sorta di contrazione procedurale, data dalla convergenza sulla narrazione dominante dei governi – incorniciata da un frame emotivamente e cognitivamente potente – e dall’eliminazione della possibilità di esperire la realtà direttamente, dell’esperienza sociale e politica autonoma nella polis, riducendo alla casa il perimetro della soggettivazione e frammentando la sfera pubblica in tanti piccoli spazi personali, radunati in comunità digitali estetiche. Il rischio da scongiurare è quello della spoliticizzazione dello spazio pubblico e della progressiva assuefazione degli individui ad una percezione del reale filtrata da altri.
Dal punto di vista economico, molti analisti sostengono che sarà possibile uscire dalla crisi soltanto attraverso un nuovo modello di economia sociale di mercato e una nuova centralità dello Stato, sia nel welfare che nella politica industriale. In una fase in cui la pandemia ha accelerato i processi che in poco tempo avevano rivoluzionato l’economia mondiale (globalizzazione, automatizzazione e informatizzazione, privatizzazioni e deregulation), nessun Paese può più prescindere oggi dal definire il proprio interesse nazionale. Neppure l’Italia, dove – come scrive Salvatore Santangelo riprendendo Giuseppe Sacco – la classe politica, prigioniera della propria ipocrita retorica del ‘partito degli onesti’, all’indomani di Tangentopoli «non ha trovato altra soluzione che svendere in massa le aziende di Stato», indebolendo le uniche strutture che sarebbero state in grado di stare sul mercato mondiale delle imprese globali e innovatrici.
In una fase di crescente rallentamento dell’integrazione economica internazionale (un vero e proprio processo di de-globalizzazione, secondo alcuni) e in cui ci si chiede se emergerà sulla scena globale un nuovo Paese leader. Date le forti contrazioni del PIL stimate per le economie del mondo, da quelle più avanzate a quelle in via di sviluppo, al netto della liquidità immediata per impedire crolli di sistema, sarà necessaria una politica di bilancio che aumenti la domanda effettiva favorendo investimenti, occupazione e reddito. Il rischio è perciò quello di una crescente frattura fra Stati il cui debito pubblico non sarà sostenibile, paralizzati nelle proprie manovre dal timore della reazione dei mercati, e Stati che, avendo mantenuto saldi di finanza pubblica equilibrati, chiederanno ai primi l’attuazione di politiche di riassetto strutturale, con il risultato di un allontanamento di entrambi dal processo di costruzione europea. Se l’Unione Europea, nello scenario attuale, non si trova più ad essere perno di una coesione ed integrazione internazionali (e forse neppure regionali), gli Stati Uniti pongono crescente enfasi sul bilateralismo, su un ‘neo-isolazionismo’, e vedono una riduzione del ruolo del dollaro come valuta di riserva. Ad aspirare alla leadership c’è senz’altro la Cina, che negli scorsi anni ha attuato una strategia di posizionamento all’interno delle organizzazioni internazionali per poter scrivere in prima persona le regole dell’economia mondiale, ma oggi vede i suoi sforzi rallentati in ragione della pandemia.
È difficile prevedere oggi se assisteremo al rilancio del progetto di integrazione europea o alla sua implosione, e più in generale come evolveranno le relazioni tra Stati a livello internazionale.
Allo scoppio della pandemia, scrive Michele Marchi, il processo di integrazione europea stava sperimentando un complesso sforzo di adattamento al XXI secolo, fra difficoltà strutturali, inefficienze congiunturali, l’acuirsi della frattura fra Europa del Nord ed Europa del Sud, l’esplosione della crisi migratoria, il crescente distacco fra opinioni pubbliche nazionali e processo di integrazione, e il progressivo inabissarsi delle relazioni euro-atlantiche. L’emergenza Covid ha mostrato come l’UE non sia preparata ad affrontare crisi sistemiche, quanto deboli ed esposte siano le leadership nazionali, e quanto riluttanti continuino ad essere alcune leadership europee. L’impatto di una crisi che promette di allargare ulteriormente i divari e le disuguaglianze, su un’Europa che resta terreno di scontro fra sovranisti ed europeisti, mentre le armi di entrambi gli schieramenti appaiono spuntate di fronte all’emergenza pandemica, getta un’ombra sul futuro di un Vecchio Continente che potrebbe ancora, però, abbracciare la strada di un europeismo critico e coraggioso.
Il volume prova infine ad interrogarsi su quelli che potranno essere gli scenari internazionali del ‘dopo’: una politica estera come guerra globale degli aiuti di Stato oppure un nuovo ordine mondiale strutturato per aree di influenza, la fine del multilateralismo o nuove forme di governance globale e condivisa, la pandemia come acceleratore della contrapposizione USA-Cina e della de-globalizzazione bipolare oppure di una nuova globalizzazione.
A valle di una ricca panoramica di contributi, il messaggio di fondo del volume risuona forte ed efficace: non esistono ricette univoche né esiti predeterminati, soltanto il prodursi e riprodursi di incastri complessi. Dalla crisi potremo uscire regrediti o progrediti, a fare la differenza saranno le scelte.