Scritto da Ekaitz Cancela, Evgeny Morozov
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Pubblichiamo di seguito la traduzione dell’intervista James Meadway on the movement out of neoliberal markets apparsa su «The Syllabus» a cura di Evgeny Morozov ed Ekaitz Cancela, nel quadro di una collaborazione tra «Pandora Rivista» e «The Syllabus», un progetto di selezione e cura dei contenuti di informazione e approfondimento di maggiore qualità.
All’interno del quadro della crisi del neoliberismo, fenomeni quali la concorrenza cinese, il caos della crisi climatica e l’ascesa dei giganti tecnologici – col modo in cui hanno rigettato il manuale neoliberista per quanto riguarda la regolamentazione, i mercati e i prezzi – indicano un salto in avanti che richiede una lettura aggiornata del presente. James Meadway la fornisce attraverso un’impostazione che predilige gli elementi politici rispetto a una visione “collettivo di pensiero” – per la quale il neoliberismo sarebbe innanzitutto un insieme di valori prodotti da ideologi come Margaret Thatcher. James Meadway è economista e saggista, consigliere ed ex direttore del Progressive Economic Forum. È stato consigliere finanziario dell’ex Cancelliere ombra dello Scacchiere britannico John McDonnell e capo economista della New Economic Foundation. Scrive regolarmente, tra gli altri, per «The Guardian», «The New Statesman» e «openDemocracy».
Nel 2021 ha scritto un saggio per “openDemocracy” sul post-neoliberismo che ha contribuito ad amplificare e accelerare il dibattito sul tema. Può spiegarci le sue principali argomentazioni?
James Meadway: Il saggio risale a quasi due anni fa e la discussione sul post-neoliberismo era già nell’aria. La questione rispunta ogni volta che c’è una crisi, da quando esiste il neoliberismo: questa volta è davvero la fine? L’abbiamo sentito nel 2008, l’abbiamo risentito in coincidenza del Covid, con tutto l’entusiasmo per gli interventi pubblici su larga scala. Quel saggio era un tentativo di uscire dal circolo, che mal interpretava quello che stava succedendo nel mondo e quello che avrebbe potuto realmente costituire la fine del neoliberismo in quel frangente. La crisi del 2008, infatti, come hanno notato molte persone, ha concesso al neoliberismo un’estensione in circostanze davvero particolari. È quello che il mio collega Colin Crouch definiva “la strana non-morte del neoliberismo”. Pensavo che il Covid avrebbe prodotto una crisi più drammatica e prolungata, rappresentando più probabilmente un punto di svolta nelle modalità operative del capitalismo, e segnando la fine del neoliberismo. Ma, nella pratica, ha accelerato una serie di tendenze che erano già presenti. La prima tendenza è geopolitica. La Cina, la seconda economia globale, non ha mai – almeno a livello locale – investito nella configurazione neoliberista spinta che è evidente in Gran Bretagna e nel Nord America, ma che è presente in varie forme anche nel resto del mondo. Sebbene la Cina sia stata alquanto interventista, e si sia integrata nel mondo neoliberista attraverso i rapporti economici esterni, lo Stato cinese ha agito diversamente a livello interno. Detiene una grossa fetta del settore pubblico e conserva un notevole potere d’intervento nell’economia, soprattutto tramite la banca centrale. Ora, il potere economico cinese – che in parte deriva dalla sua eccezionale crescita ininterrotta dopo la crisi del 2008 – l’ha reso un concorrente “alla pari”, per usare il gergo del Dipartimento di Stato americano. Sembrava che la Cina esercitasse una pressione competitiva diretta sugli altri Paesi per ottenere una reazione – e una reazione simile. La seconda tendenza riguarda la crisi ambientale ed ecologica. La necessità di decarbonizzare ha dettato una serie di reazioni incentrate sullo Stato. Anziché dire che i mercati, o le azioni prodotte dal mercato, avrebbero potuto in sé e per sé dettare gli investimenti, i governi hanno scelto di intraprendere attivamente certe linee d’azione. Si sono scontrati duramente con la retorica dell’Unione Europea, ad esempio, che insisteva su una “parità di condizioni” per gli Stati membri. Ma i governi erano molto più propensi a intervenire esplicitamente in settori specifici. La terza tendenza era la parte determinante della mia argomentazione. Le principali istituzioni che si sono sviluppate dopo la crisi erano palesemente non neoliberiste. Non si avvalevano di un ordine globale neoliberista, come invece avevano fatto le grandi istituzioni finanziarie precedenti. Ci ritrovavamo con società enormi – Alphabet, Microsoft, Apple, Meta; le società cinesi di dimensioni paragonabili – caratterizzate da un comportamento difficilmente inquadrabile in una prospettiva legislativa neoliberista. Una grande banca riconoscerebbe l’esistenza di un insieme di leggi e otterrebbe i suoi profitti rispettandole. Nel caso di alcune aziende tecnologiche, ci sono stati tentativi molto espliciti di infrangere le regole – di aggirare la legge e la regolamentazione internazionale – per creare invece nuovi spazi propri. Questo ha implicazioni anti-neoliberiste. Ci sono molte definizioni del progetto neoliberista, ma riducendolo all’osso c’è il fatto che si parla di mercati e di leggi applicate ai mercati. Ora invece alcune istituzioni cercano di sbarazzarsi dei mercati, di non limitarsi a vendere i propri prodotti ai consumatori e, allo stesso tempo, di non accontentarsi di piegare le regolamentazioni, ma di crearne altre in forme completamente nuove.
Come è cambiato il suo pensiero da allora? Che impatto ha avuto la pandemia su questi processi?
James Meadway: Sembravano cambiamenti un po’ azzardati prima del Covid, ma la pandemia ha accelerato drasticamente il movimento di uscita dal neoliberismo lungo le tre traiettorie sopraindicate. Nei due anni trascorsi, il cambiamento è diventato lampante. Il governo conservatore britannico ha appena dovuto nazionalizzare un’altra compagnia ferroviaria. Ora ce ne sono cinque di proprietà pubblica, perché la gestione privatizzata di un servizio essenziale non funziona più. Credo che assisteremo a sempre più movimenti contrari al contesto neoliberista, persino da parte di governi che a livello retorico ne sposano la causa: la privatizzazione è sempre un bene, il libero mercato è sempre un bene, e via dicendo. Questo non significa che le privatizzazioni non rappresentino più un pericolo per la sinistra in senso lato. Lo sono. Basta pensare al Servizio sanitario nazionale in Gran Bretagna. La minaccia è ancora presente; non è che il neoliberismo sia scomparso lasciando emergere qualcos’altro. Ma ora la domanda strategica è un’altra, e sempre più insistente: che fare adesso che il capitalismo è molto oppressivo e per di più alleato dello Stato, a differenza del neoliberismo classico? Ora lo Stato è apertamente affiancato alle grandi aziende, e non solo per far rispettare le norme neoliberiste. La fusione tra Stato e capitale è onnipresente. Più che il problema della privatizzazione, cioè che le cose siano al di fuori dello Stato, il problema da affrontare adesso è che le cose si trovano all’interno e molto più vicine allo Stato rispetto a quanto succedeva nel capitalismo occidentale da molto tempo a questa parte. È difficile pensare che il mondo sia cambiato, soprattutto per chi si colloca a sinistra in senso ampio, e si concentrava solo sulla privatizzazione, aspettandosi che i governi guardassero sempre ai mercati.
Prima di entrare nei dettagli, può dirci qualcosa di più sulla sua visione concettuale del neoliberismo? Lei avverte di non considerarlo un “collettivo di pensiero” – a differenza di Philip Mirowski, Dieter Plehwe e Quinn Slobodian – ma lascia spazio aperto a definizioni eclettiche. Che cos’è dunque il neoliberismo secondo lei?
James Meadway: Il neoliberismo è una logica di governo del sistema. Se si arriva da sinistra – e questa è la visione del collettivo di pensiero – la storia del neoliberismo recita così: avevamo il keynesismo e la socialdemocrazia, ma sono entrati in crisi negli anni Settanta; allora sono arrivati i neoliberisti e hanno detto a tutti cosa fare. È una lieve parodia dell’argomentazione del collettivo di pensiero, ma è fortemente radicata nelle domande dei neoliberisti stessi: qual è la crisi? E qual è la risposta alla crisi? Io invece mi concentro su come sviluppare nuove forme di governance della crisi. Così facendo, ci allontaniamo dal concetto di neoliberismo in quanto lotta eroica. La formazione del mondo che oggi possiamo definire neoliberista nasce dal momento eroico tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Ci sono molti colpi di scena. È un progetto di classe, con persone come Thatcher e Reagan in prima linea. Ma ha anche a che fare con gli eventi nell’Europa dell’Est. È uno scontro, un conflitto; i nemici vengono sconfitti e si costruisce qualcosa di nuovo. Una volta fatto questo – una volta costruito un mondo che inizia ad avere istituzioni stabili e regole stabili, che sono applicabili e a cui tutti possono rifarsi – arriva la parte più utile del pensiero sul neoliberismo. Non l’eroismo di Thatcher, ma la burocrazia di Blair. È la visione manageriale del neoliberismo che ritengo più utile. È quello che succede nella pratica, piuttosto che quello che le persone affermano di voler fare.
Lei è critico nei confronti di chi descrive il neoliberismo come un cambiamento di paradigma all’interno del capitalismo. Perché?
James Meadway: Ci ha tratto in inganno l’idea di Thomas Kuhn secondo cui esiste un insieme di modi di gestire il mondo, le cose vanno avanti finché non c’è una crisi e a quel punto si trova un nuovo insieme di modi, di valori e di norme. Può funzionare nelle scienze naturali, ma è una visione che sottovaluta i cambiamenti della società. Allo sviluppo del neoliberismo ci siamo arrivati secondo percorsi molto diversi. Affinché emergesse un ordine internazionale neoliberista ogni storia nazionale ha dovuto affrontare le proprie battute d’arresto e i propri passi in avanti. Queste storie sono spesso particolari. Alcune sono drammatiche – Thatcher che sconfigge i minatori nel 1985 – mentre altre sono un processo di erosione costante, come nel caso di Blair. Il neoliberismo non è solo un elenco prescrittivo di nuovi metodi per pensare il mondo, ma ciò che emerge da quel processo, dall’insieme di eventi verificatisi negli anni Settanta.
Mettendo insieme quello che dice – riconoscendo la contingenza del neoliberismo e le nuove sfide che emergono nel momento in cui ne stiamo potenzialmente uscendo – dovremmo continuare a parlare di periodizzazione, pur non parlando di cambiamento di paradigma?
James Meadway: La periodizzazione è utile a riassumere ciò che è accaduto, a infilare tutto in una scatola e raccontare una certa storia. Quella classica – soprattutto in Gran Bretagna – vuole che il neoliberismo nasca d’improvviso nel 1979 con l’elezione di Margaret Thatcher. Potrebbe funzionare, ma solo come storia della Gran Bretagna. Nemmeno sotto Thatcher la trasformazione immediata è evidente. Nel 1979 si presentava in un’ottica di continuità. In Gran Bretagna la radicalizzazione è accelerata con la caduta del Muro di Berlino. Ma nemmeno gli eventi nell’Europa dell’Est rappresentano un processo definitivo. La caduta dei precedenti regimi statali-capitalisti ha dato il via a una lotta; una serie di opzioni sono state ignorate. Lo si vede chiaramente in Polonia, dove voci diverse prendono forma nel processo di cambiamento. Solo in un secondo momento si arriva al neoliberismo. Se si vuole una vera periodizzazione, l’apice del neoliberismo è stato il momento in cui la Cina ha aderito all’Organizzazione Mondiale del Commercio nel 2001. Già all’indomani del congresso di Seattle del 1999, e delle relative proteste, il processo sembrava traballare, ma quando si arriva all’adesione della Cina a Doha, due anni dopo, il processo di integrazione commerciale inizia a crollare.
In questo momento di apice ci sono degli elementi della logica neoliberista che si distinguono dalle logiche precedenti e che potrebbero seguirle?
James Meadway: La logica di fondo rimane bene o male la stessa. C’è stata una rottura nelle basi di funzionamento del capitalismo? La logica dell’accumulazione è ancora presente e può assumere forme molto varie. In genere, nel capitalismo occidentale, la forma è il profitto, che rimane costante. Si inizia però a vedere un cambiamento nella logica con cui si governa il processo di accumulazione. Un aspetto del cambiamento è la rinuncia ad affermare che un mercato esisterà e definirà un prezzo, e che il prezzo determinerà il modo in cui si agisce nel mercato. Non solo gli Stati intervengono in modo più marcato nei mercati, modificando il funzionamento dei prezzi – l’abbiamo visto ampiamente negli anni della pandemia e della guerra –, ma le istituzioni si stanno approcciando alla creazione del mercato e alla determinazione dei prezzi in un modo che viola le regole standard: se c’è un prezzo, è quello che comunica le informazioni e definisce il modo in cui tutti agiscono. Le regolamentazioni e le leggi internazionali costruite nel periodo neoliberista ora sono contestate. Non era così nei primi anni Duemila. Allora esisteva chiaramente un potere schiacciante che poteva strutturare il mondo. Si potevano citare Michael Hardt e Antonio Negri e individuare l’Impero, una singola autorità globale. È sempre stato un po’ eccessivo, ma esisteva chiaramente un potere dominante, e ora non c’è più. Così si aprono spazi di attività che, ancora una volta, servono la logica profonda e sottostante del capitalismo, cioè la logica dell’accumulazione, ma non sono più così legate alle forme precedenti di governance, legate al prezzo di mercato e alle leggi che dovevano farlo rispettare.
A questo proposito, lei afferma che stiamo assistendo alla fine dei segnali di prezzo, in particolare all’interno delle piattaforme tecnologiche. Sembrerebbe così dalla prospettiva dell’utente, che riceve i servizi senza che il denaro passi di mano, ma si ignorano i mercati multilaterali. Una piattaforma non intrattiene relazioni economiche con gli utenti, ma con gli inserzionisti e con le aziende clienti, che pagano per servizi come il cloud computing o l’intelligenza artificiale. Perché non concentrarsi su questi aspetti? Il mercato degli inserzionisti sembra quasi un’utopia hayekiana, in cui tutto è prezzato al millisecondo dal sistema di progettazione del mercato più sofisticato di sempre.
James Meadway: Non credo che sia particolarmente hayekiano far sì che gli algoritmi internalizzino un processo di mercato. In un mercato puro, di tipo hayekiano, bisogna dichiarare il proprio prezzo e da lì parte la concorrenza. Se si internalizza il meccanismo di produzione del prezzo sotto forma di algoritmo, succede qualcosa di diverso. In un mercato si dichiara, si fa concorrenza; l’informazione è esterna, non interna all’impresa. Ma questa è la componente per così dire ideologica sia del neoliberismo sia dell’economia neoclassica. Sono due cose diverse, ma entrambe concordano sul fatto che il prezzo è l’ultima forma di informazione esistente in una società capitalista. Idealmente, il prezzo comunica qualcosa in modo stabile e garantito, in particolare alle persone che non lo scrivono. Con le Big Tech avviene qualcosa di diverso in termini di prezzi. Dall’altra parte c’è il processo con cui si fanno i soldi. Shoshana Zuboff esagera un po’, ma nell’estrazione di valore dagli utenti c’è qualcosa che si traduce in profitto. Senza la mobilitazione di valore da parte degli utenti, sarebbe impossibile per Facebook e simili avere certi flussi di entrate dai clienti effettivi. È una relazione che tende a passare inosservata, soprattutto dai marxisti, secondo cui il valore deriva dal lavoro e dalla natura. Ma il processo di estrazione e conversione di valore non rientra in alcun modo nel modello neoliberista standard di funzionamento di un’azienda rivolta ai consumatori. In questo modello, si può fare pubblicità e un sacco di cose, ma bisogna dichiarare un prezzo. In un mercato, dichiarare il prezzo è una funzione essenziale.
Non si tratta forse di ammettere che le aziende di oggi, che non erano possibili negli anni Settanta, non possono essere spiegate con le teorie di allora?
James Meadway: È proprio questo il punto. In questo caso, perché dovremmo parlare di neoliberismo? È esattamente il confine tra ciò che il neoliberismo può aiutare a descrivere e ciò che non può. Se abbiamo persone che si identificano come neoliberiste, ma le loro teorie non reggono, allora forse non stiamo più parlando di neoliberismo. L’ideologia è in ritardo rispetto alla pratica capitalista.
Tuttavia, gli economisti che partecipano agli incontri della Mont Pèlerin Society non hanno problemi a tenere in considerazione i mercati multilaterali.
James Meadway: Certo che no. Ma il fatto che questi economisti sostengano la necessità di adattare il proprio credo alle novità di un mondo in evoluzione non significa che noi dobbiamo necessariamente pensare che questi nuovi adattamenti siano ancora neoliberismo. È questo il problema dell’approccio collettivo di pensiero al neoliberismo e dell’identificare il neoliberismo con ciò che fanno le persone che si definiscono neoliberiste. Dovremmo chiederci invece come il neoliberismo possa aiutarci a capire i cambiamenti che viviamo del capitalismo. Così arriviamo alla politica.
Una difficoltà nel suo inquadramento del post-neoliberismo è che rischia di edulcorare il neoliberismo dipingendolo come una condizione piacevole, legata alla legge, in cui i capitalisti vogliono giocare secondo le regole. Un conto sono le idee, anche convincenti, di Bruno Leoni o Wilhelm Röpke o Friedrich von Hayek sul rapporto tra legge ed economia; solo che non sono sicuro che si siano mai riflesse nelle pratiche della United Fruit Company o della ITT o della ExxonMobil. Non dovremmo fare come lei del resto propone, cioè distinguere tra ideologi e capitalisti?
James Meadway: Il processo di accumulazione si svolge sempre sotto l’egida della legge. La legge ha dato l’unità di base fondamentale affinché esistesse il capitalismo, ovvero il contratto di lavoro tra un capitalista e un lavoratore. È stata una regolamentazione rispetto alle versioni più ingiuste del contratto che esistevano in precedenza. In Europa il capitalismo ha avviato una modernizzazione delle forme di lavoro legali dalla fine del Cinquecento. Quindi, l’elemento della legge è sempre esistito ed è stato usato in modi brutali e orribili. Le forme di sfruttamento e di espropriazione più terribili avvenute negli ultimi duecento anni sono state perlopiù un correlato alla legge. La particolarità del movimento di uscita dal neoliberismo – e sono cauto nel dire che si tratta di post-neoliberismo, un aspetto su cui tornerò – è che va oltre una forma di legge che definisce ciò che un’azienda può fare e ciò a cui quell’azienda, in un modo o nell’altro, deve conformarsi. Se sei Bear Stearns o Lehman Brothers e crei un’obbligazione di debito collateralizzato nel 2007, ti stai preoccupando davvero molto dello status giuridico e della posizione legale di ciò che stai creando. Per quanto cerchi di spostare i limiti di quello che puoi fare rispetto allo status legale e la posizione giuridica – impiegando lobbisti a questo scopo – vuoi che lo status e la posizione esistano. È quello che permette al tuo prodotto finanziario di avere un valore accettato dagli altri. Ma con le Big Tech, in particolare, scopriamo che questa relazione non esiste allo stesso modo. Crei la cosa e la vai a vendere, cercando una legge che ne giustifichi la vendita. E poi – forse in un secondo momento, quando sarai abbastanza grande – ottieni la regolamentazione. Ancora una volta, non è un processo raro nel capitalismo. Succede spesso che un grande capitalista richieda esplicitamente una regolamentazione, perché così esclude la concorrenza. Ma ciò è diverso dal riconoscere la presenza della legge e accettarne il funzionamento, perché fornisce piuttosto un meccanismo per lo sfruttamento e la generazione di profitti. Potenzialmente, potremmo dire che il neoliberismo è migliore di quello che ci aspetterà dopo questi cambiamenti. Non ho problemi nel dire che in passato il capitalismo avrebbe potuto essere migliore di quello attuale. È molto plausibile. Per questo credo che certe discussioni sul post-neoliberismo siano problematiche, specialmente per come è inquadrato in ambienti meno accademici o più di attivisti. Se il neoliberismo sta per finire, si pensa che la prossima versione del mondo sarà per forza di cose migliore. Perché? Potrebbe benissimo essere molto peggio. Non è così difficile immaginare versioni del capitalismo ben peggiori del neoliberismo.
Non ci avviciniamo forse così al territorio del tecno-feudalesimo? La conclusione logica della posizione tecno-feudale è che ciò che seguirà al capitalismo sarà peggiore.
James Meadway: Non credo che l’argomentazione del tecno-feudalesimo sia utile, né come inquadramento, né – prendendolo più seriamente – come tentativo di capire i possibili processi di creazione o estrazione del valore. In Occidente, il momento di trionfo del capitalismo si è collocato in una parentesi storica tra gli anni Cinquanta e Settanta, quando è cresciuto più veloce che mai. Se invece andiamo in Oriente, non è affatto così. Il trionfo maggiore corrisponde in realtà agli ultimi trenta o quarant’anni circa. La periodizzazione è diversa a seconda di dove si guarda e di cosa si pensa. Mettendo insieme tutto ciò, otteniamo un processo di crescita molto lungo, che continua fino al 2008 e forse anche oltre, ma che ora pare molto incerto. Se la posizione tecno-feudale colpisce nel segno su qualcosa, non è per quanto riguarda il ritorno al feudalesimo, ma perché si tratta di un movimento verso una forma di capitalismo in cui i presupposti per la crescita sono parecchio incerti. In futuro potrebbe essere molto più difficile ottenere una crescita di quanto non lo sia stato negli ultimi duecento anni. Il keynesismo e il neoliberismo del sistema globalizzato cominciano quindi a sembrare molto più vicini l’uno all’altro di quanto pensassimo noi occidentali. Soprattutto in confronto alla fase degli ultimi dieci anni circa, in cui il Covid è un importante punto di svolta nel percorso. Prima il capitalismo era chiaramente al meglio. L’espansione del potenziale produttivo era evidente, produceva profitti per i capitalisti e migliorava concretamente il tenore di vita degli altri. Quello in cui ci muoviamo ora è molto più simile a un gioco a somma zero. Non significa che sia feudalesimo. È qualcosa di più simile, diciamo, al capitalismo del 1810 o del 1820. Prima di affermarsi come sistema stabile in grado di produrre una crescita espansiva, il capitalismo aveva una forma molto più brutale e sfruttatrice, in cui io, capitalista, ottenevo profitti rendendo te, lavoratore, più povero. Questa è la logica a cui penso arriveremo ora. È un capitalismo che David Ricardo riconoscerebbe. Ma non è certo il capitalismo di John Maynard Keynes.
Lei ha scritto anche dei recenti tentativi di de-dollarizzare l’economia globale. In che modo sono legati all’allontanamento dal neoliberismo?
James Meadway: Il neoliberismo ha raggiunto l’apice all’inizio degli anni Duemila grazie all’integrazione dell’economia mondiale, che ha prodotto una crescita incredibile in varie parti del mondo per un lungo periodo. L’Occidente è stato inondato di beni di consumo a basso costo, mentre nel resto del mondo c’è stata una massiccia espansione della tradizionale classe operaia industriale. Tutto questo avviene sotto l’egida del commercio mondiale. Questa forma di governance aveva un aspetto giuridico formale – l’Organizzazione Mondiale del Commercio, in particolare – ma anche un’integrazione più informale tramite il sistema monetario e finanziario, incentrato sul dollaro. È su questo che si basa la costruzione neoliberista. Se il neoliberismo vuole promuovere la governance, deve affidarsi a qualcosa di simile al dollaro per far funzionare il tutto, così che le classi capitalistiche locali sentano che vale la pena integrarsi nel commercio mondiale. Se ciò crolla, le forme di governance neoliberiste non hanno più molto senso. Si comincerebbe a sentire la pressione delle tre diverse tendenze che cito nel saggio di openDemocracy: la concorrenza dei Paesi che non agiscono in maniera neoliberista, il caos generato dal degrado ambientale e il cambiamento di fondo nelle modalità di estrazione del valore. Mettendo insieme le tre cose, saremo più propensi a rompere con le vecchie norme neoliberiste. A quel punto, la de-dollarizzazione andrà di pari passo con l’idea che stiamo uscendo dal mondo neoliberista. Alcune persone si sono lasciate trasportare dalla de-dollarizzazione. Il dollaro rappresenta ancora più dell’80% della valuta utilizzata nel commercio mondiale. Ma è significativo che un importante alleato degli Stati Uniti in Medio Oriente abbia affermato di poter iniziare a commerciare in renminbi per vendere petrolio. È un cambiamento rispetto a dieci, o anche solo a cinque, anni fa.
Cosa si aspetta dai blocchi monetari regionali che stanno emergendo e da nuove proposte come il BRICcoin?
James Meadway: Quando è stato coniato, in un report di Goldman Sachs del 2001, il termine BRIC era un comodo segnaposto per indicare una serie di grandi Paesi a reddito medio o medio-alto. Si tratta di un gruppo di Paesi piuttosto eterogeneo, con diverse posizioni nelle partite correnti, diversi asset input-output e diverse strutture interne. Quindi, non sono sicuro che emergerà un nuovo sistema monetario, anche se possiamo aspettarci una maggiore integrazione e cooperazione tra questi Paesi. Invece il potenziale del renminbi è più importante. In Sudamerica vediamo già una tendenza a creare valute comuni per il commercio. L’ultima versione è quella tra Brasile e Argentina. L’integrazione del commercio sudamericano attraverso aree monetarie è stata proposta già varie volte in passato, ma ora che la regione ha un partner commerciale importante in Asia orientale, e non in Nord America, ha più senso. Ora c’è spazio per relazionarsi con quel partner commerciale e sviluppare relazioni con le persone che ci lavorano, anziché pensare che il Sud America debba per forza passare per Washington. È necessario unire i vari punti della situazione per spiegare come mai si è rotta l’attuale egemonia nell’economia mondiale. Ci troviamo in un periodo di transizione. Non è che un minuto prima ci sono gli Stati Uniti e quello dopo c’è la Cina. C’è stata un’erosione costante, ma concreta, del potere americano nel mondo, anche qui in Europa. L’Europa può avere un ruolo in un certo modo indipendente. Ma staremo a vedere come andranno a finire questi spostamenti e movimenti. Pensavo che ci sarebbe voluto un po’ di tempo per uscire completamente da un sistema finanziario in dollari. Ma i recenti tentativi dell’amministrazione Biden di usare aggressivamente quel sistema contro la Russia e altri Paesi considerati nemici hanno accelerato l’uscita dal sistema. Ora alcuni Paesi sono ancora più decisi ad uscirne, perché si sono accorti che non è più lo spazio neutrale del neoliberismo, dove si può giocare secondo le regole dettate da Washington. Il potere politico e la sovranità potrebbero ritorcersi contro di loro, a differenza del passato. Adam Tooze offre prospettive intelligenti al riguardo, concentrandosi sullo sviluppo delle linee di swap. Le linee di swap potrebbero rimpicciolire il sistema del dollaro, ma contribuire a renderlo più integrato. Ci sono ricerche affidabili che spiegano come le linee di swap in dollari siano state utilizzate per disciplinare politicamente le banche centrali in varie parti del mondo. Ma ovviamente l’efficacia è limitata se le principali economie hanno a disposizione altre valute e opzioni di trading.
Come interpreta la rinuncia esplicita da parte dell’amministrazione Biden al vecchio Washington Consensus? È un tentativo di preservare l’egemonia americana con altri mezzi o riguarda più dei fattori interni?
James Meadway: Entrambe le cose. L’ideologia e la retorica del capitalismo devono affrontare la realtà. È stata una grande sorpresa sentire il consigliere per la sicurezza nazionale di Biden parlare di un nuovo Washington Consensus, elencando le misure interventiste che si aspettava di vedere e adottare. Ma la situazione si era già messa in moto sotto Trump, che aveva iniziato a cambiare il sistema del commercio mondiale in risposta alla Cina. Biden ha continuato e approfondito l’operazione, per poi lavorare a ritroso sull’economia interna. Per colpire in maniera aggressiva la produzione di semiconduttori in Cina, bisogna costruirli in America e quindi investire più soldi nel settore. Lo stesso vale per gli investimenti green. Il tentativo è di presentarli non solo come una strategia per consolidare o addirittura espandere il potere capitalistico degli Stati Uniti nel resto del mondo – che è stato chiaramente minacciato negli ultimi vent’anni circa – ma anche di costruire consenso politico intorno al progetto in patria. E farlo in modo più sistematico e approfondito rispetto all’amministrazione Trump. Ecco perché la retorica dell’amministrazione Biden si concentra sulla creazione di buoni posti di lavoro americani. Trump ha accennato a questo aspetto, ma non ha realizzato nulla di concreto. Credo che Biden sia invece piuttosto serio al riguardo.
Torniamo al Regno Unito. Lei ha commentato il ritorno del Paese all’austerità, sostenendo che il neoliberismo e l’austerità non debbano necessariamente andare a braccetto. Come si riflette, quindi, sulla crisi del neoliberismo?
James Meadway: Il grande motore di uscita dal neoliberismo è il meccanismo di concorrenza capitalistica e il modo in cui viene applicato, che è un riflesso del meccanismo di accumulazione sottostante e del modo in cui si manifesta e opera in tutto il mondo. È questa la parte decisiva per pensare a ciò che accadrà nei vari Paesi. Non dipende solo da ciò che fanno le imprese capitaliste nei singoli Paesi, ma anche da ciò che fanno gli Stati capitalisti e da come si relazionano con le imprese capitaliste locali. Nel caso della Gran Bretagna, a mio parere, c’è stata una profonda disfunzione e un grosso fallimento istituzionale. Abbiamo un insieme di istituzioni profondamente vincolate alla retorica neoliberista e al pensiero neoliberista. Il Tesoro è l’esempio peggiore. Le istituzioni sono profondamente legate a questo modo di pensare e di funzionare; non riescono a confrontarsi efficacemente con un mondo che cambia. Così, abbiamo governi – come quello britannico – che continuano a tornare sugli stessi punti, ripetutamente. Insistono sul fatto che, in un certo momento nel futuro, taglieranno le tasse a tutti, in particolare alle grandi imprese; che smetteranno di intervenire nell’economia; che le alte spese sono una misura temporanea; che un giorno torneremo alla normalità. E la normalità, ovunque, è rappresentata dalle regole neoliberiste. Non fanno che ripeterlo e non fanno che fallire. Si ritrovano costretti a nazionalizzare le compagnie ferroviarie. A nazionalizzare un produttore di acciaio. A intervenire come governo in molte forme diverse, nonostante il fatto che, retoricamente e istituzionalmente, stiano cercando di fare altro. In Gran Bretagna è avvenuto un profondo fallimento, e al momento nessun partito politico ha una leadership che lo capisca in modo adeguato. Tra i Labour qualcuno potenzialmente lo vede un po’ più chiaramente, ma solo a sprazzi.
Come si inserisce Brexit in tutto questo?
James Meadway: I sostenitori più lungimiranti di Brexit in realtà capivano in certa misura come funziona il mondo. Se guardiamo, per esempio, le opinioni di Dominic Cummings su come andrebbe strutturato il capitalismo in Gran Bretagna, si tratta di risposte a un mondo di profonda concorrenza – ma una concorrenza in cui lo Stato può potenzialmente sostenere i capitalisti locali. Ci sarebbero grandi investimenti nella ricerca, molte spese in infrastrutture e potenzialmente altre forme di intervento più profonde. Sarebbe stato uno Stato piccolo e aggressivo in un mondo in cui le vecchie regole non funzionano correttamente. Questo era il progetto.
Come interpreta la svolta dell’Unione Europea verso una politica industriale?
James Meadway: È la logica della concorrenza a guidare il cambiamento. Ha un impatto molto maggiore rispetto a quello che l’Unione Europea e le sue istituzioni comunitarie pensano di dover fare. Lo si vede nella decisione improvvisa di stracciare il principio fondante della politica economica dell’Unione: la parità di condizioni all’interno del mercato unico europeo, che impediva ai singoli Paesi di intervenire per sostenere le proprie industrie locali. Con Biden e l’Inflation Reduction Act e con l’idea che la Cina si intrometta nei mercati che l’Unione vorrebbe per sé, la parità di condizioni sta iniziando a scomparire. È una comprensione più efficace di ciò che bisogna fare per competere, almeno rispetto al caso disfunzionale della Gran Bretagna.
Lei ha anche scritto di come un’istituzione come BlackRock stia interpretando i tempi che cambiano. BlackRock prevede un “brutale compromesso” tra inflazione vertiginosa e recessioni schiaccianti, ma negli ultimi anni ha subito parecchie ripercussioni negative. Cosa significa questa resistenza per il neoliberismo?
James Meadway: Non ho affrontato le argomentazioni sulla fine del neoliberismo dal basso, perché il neoliberismo, in larga misura, è un progetto delle élite. Questo tipo di governance ha un radicamento molto debole nelle società su cui si basa. Lo si vede in Europa e in ogni altro Paese del vecchio “Nord globale” capitalista in cui c’è il neoliberismo. Le eccezioni sono i Paesi in cui il neoliberismo ha avuto un successo più evidente e in cui la crescita è stata più rapida. Dal 2008, però, ci sono stati vari tentativi dal basso di proporre alternative migliori al neoliberismo, soprattutto in Sud America, che però non sono decisivi per l’uscita dal neoliberismo. C’è stata una crisi all’interno del capitalismo e un cambiamento nel modo in cui è governato dall’alto, in risposta a cambiamenti strutturali del capitalismo in sé, ma anche ai cambiamenti nel modo in cui si relaziona con l’ambiente in cui si trova. Questo ci riporta alle previsioni di BlackRock. Il mondo passato poteva contare su un clima stabile. Negli ultimi duecento anni, le variazioni in termini di temperatura, precipitazioni ed eventi meteorologici estremi erano prevedibili. Se il clima inizia a saltare, tutto diventa più caotico. È un problema per capire se avremo una crescita stabile. Inoltre, rivela l’insufficienza dei meccanismi di aggiustamento automatico proposti dal neoliberismo per gestire il capitalismo. Saranno necessari continui interventi contro l’instabilità solo per preservare il funzionamento del capitalismo e l’accumulazione.
Sostiene anche che il Green New Deal non è sufficiente. Perché?
James Meadway: Il Green New Deal è un buon tentativo di etichettare una gestione diversa del capitalismo nell’immediato, visto che dovremo decarbonizzarci in tempi brevi. Ma ci serve qualcosa di più che investire pesantemente per decarbonizzare l’attuale funzionamento delle nostre economie. In molte versioni del Green New Deal le cose restano come sono. Prendiamo quella del Partito Laburista del 2019. Avremo ancora un’auto, ma sarà elettrica. Non si parla di cambiare il nostro modo di consumare, vivere e trascorrere il tempo, ma solo di far sì che abbia una minore impronta carbonica rispetto al passato, senza entrare nel merito dell’enorme richiesta di risorse e senza considerare i futuri problemi di adattamento a fenomeni meteorologici estremi sempre più frequenti. Questi sono i problemi più ovvi da considerare. Dobbiamo innanzitutto costruire una risposta all’uso delle risorse. Ci sono versioni più ampie del Green New Deal che cercano di farlo. La rapida decarbonizzazione richiederà enormi quantità di litio per le batterie, e quel litio deve pur venire da qualche parte. Se qualcuno deve estrarlo, non vogliamo che lo faccia in condizioni terribili di sfruttamento, in cui il Paese che possiede le risorse di litio subisca, e in modo massiccio, soltanto ricadute negative. Dobbiamo pensare all’economia circolare, al riciclo e al riutilizzo. Dobbiamo pensare alla perdita di biodiversità e a come gestire l’agricoltura, soprattutto in termini di protezione dei sistemi biologici essenziali. E dobbiamo pensare a come decarbonizzare in tempi brevi, adattandoci al caos del cambiamento climatico. Ecco cosa significa andare oltre il Green New Deal. Tutto ciò impone di non limitarsi a dare soldi alle imprese capitalistiche affinché costruiscano più cose verdi, ma di farle operare meno come imprese capitalistiche. Dobbiamo far passare il messaggio che forse ci saranno di priorità diverse, forse dovranno ristrutturare i fondamenti della produzione e quindi anche del consumo. Questo servirà per affrontare il mondo che duecento anni di capitalismo industriale ci hanno consegnato.