Dove la mano invisibile non può arrivare
- 02 Novembre 2014

Dove la mano invisibile non può arrivare

Scritto da Davide Viviano

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Fu la crisi del ’29 a porre una fondamentale domanda agli economisti: “perché i modelli non prevedono la disoccupazione involontaria?”. Il mercato del lavoro nella teoria classica sembra infatti funzionare come qualsiasi altro mercato, caratterizzato da un equilibrio quale punto di incontro tra domanda delle aziende e offerta dei lavoratori e massimizzazione tramite il principio di Pareto. Non esistono disoccupati, intesi nel senso moderno del termine, ma solo lavoratori e persone fuori dalla forza lavoro per maggiore utilità personale. La storia rivelò però ai teorici che il modello non era aderente alla realtà di fatto e fu Keynes il primo a trovare nello stipendio minimo nominale una possibile giustificazione. La sintesi di Hicks divulgata da Samuelson tra teoria neoclassica e keynesiana portò a considerare nel mercato del lavoro stipendi reali rigidi, con l’effetto di price ceiling e causando un eccesso di offerta da parte dei lavoratori rispetto alla domanda. Di conseguenza, secondo questo approccio, lo stipendio minimo, artificialmente ottenuto tramite i sindacati e una legislazione a favore del lavoratore, rappresenta la causa principale della disoccupazione. Render così il mercato del lavoro flessibile diventa un obiettivo principale per un policy maker. Leggiamo in una dichiarazione del governatore della FED, Meyer, nel 1999: “Europen policymakers will now have to focus more on strucutral changes needed to deal with Europe’s labor market rigidities in order to ensure continued healthy economic expansion in the longer term”. Nel dibattito odierno è diventata sempre più pressante la richiesta da parte di istituzioni internazionali di aumentare la flessibilità per ottenere rendimenti maggiori sul lungo termine. Una ricerca dell’ OECD (Jobs study, 1994) evidenzia una correlazione significativa tra la crescita del Pil e la rigidità del mercato del lavoro. Bisogna però ricordare che correlazione non significa causalità ed è necessario valutare anche l’effetto su altri indicatori di benessere, spesso difficili da misurare, per capire i costi sociali reali di riforme di questo tipo. Numerose sono poi le eccezioni a questa regola, e la Danimarca, con alte protezioni e alta occupazione, forse grazie ad un ottimo collocamento di risorse, ne è l’esempio migliore. Ma quale potrebbe essere l’effetto reale di una riforma strutturale del mercato del lavoro in favore di una maggiore flessibilità? Sul breve periodo i rischi di avere effetti negativi sulla domanda aggregata sono molto alti. In un esperimento condotto da Eggertsson nel 2013 qualsiasi tipo di riforma strutturale, specie se ritenuta temporanea dall’opinione pubblica, e dunque poco incisiva sulle aspettative, ha un effetto negativo sui consumi a favore dei risparmi. La “Delay policy”, come viene definita in questo paper (“Can structural reforms help Europe?”, 2013), consiste nel rimandare sul lungo termine l’aumento della produttività attraverso un nuovo equilibrio sull’offerta aggregata, nel nostro caso attraverso una diminuzione delle protezioni a favore degli impiegati con un relativo aumento dell’occupazione e produzione. La simulazione mostra che la reazione immediata è una diminuzione della spesa autonoma e dei prezzi, con successiva deflazione. Durante la crescita, la banca centrale dovrebbe accelerare il processo usando una politica monetaria espansiva, ma in un periodo di “Zero lower bound” (tasso di interesse uguale a zero) e di deflazione, l’effetto negativo sul breve termine è accentuato da quello che gli economisti definiscono come trappola di liquidità. L’aumento degli investimenti privati viene così rimandato nel tempo e i costi immediati sono molti alti. L’alternativa proposta è un incentivo solo temporaneo a monopoli e protezioni sociali, come fece Roosvelt rafforzando i sindacati, così da ottenere uno stabilizzatore dell’economia sul breve termine . Contemporaneamente devono però esser portate avanti riforme strutturali onde evitare ripercussioni cicliche di queste politiche. Mentre è evidente che sul breve termine i rischi associati a questo tipo di riforma sono molto alti per l’economia nazionale, quali possono essere invece gli effetti reali sul lungo termine? Un mercato più flessibile ha sicuramente alcuni pregi: la durata media della disoccupazione diminuisce drasticamente, il flusso dei lavoratori in entrata ed uscita è maggiore e il mercato è più reattivo a shocks economici, sia positivi che negativi(ma attenzione perché è anche meno stabile). È Blanchard ad evidenziare l’esistenza di un trade-off significativo tra durata della disoccupazione e protezioni dei lavoratori. Questa è ritenuta essere da molti studiosi la principale differenza tra il “dinamico” mercato statunitense e lo “stagnante” mercato europeo. Una riforma strutturale potrebbe inoltre essere anche una risposta vincente e cruciale al problema della dualità del mercato del lavoro, permettendo ad alcuni segmenti della popolazione come i giovani di entrare stabilmente nella forza lavoro occupata.

Per comprendere però i costi sociali di tale flessibilità è necessario, a mio avviso, sganciarsi dalla semplicistica rappresentazione neoclassica all’interno della quale l’efficienza ottimale del libero mercato diventa una legge inconfutabile dell’economia. In un mondo reale gli uomini tendono infatti a scostarsi dalla loro rappresentazione di homini oeconomici.

Un approccio alternativo per comprendere le caratteristiche del mercato del lavoro lo offre Stiglitz, sostenendo che il problema di asimmetria informativa renda sostanzialmente il mercato inefficiente. Gli agenti non sono perfettamente razionali, ma i loro comportamenti dipendono da diversi fattori psicologici che giustificano protezioni sociali e stipendi sopra la media, nonché naturalmente giustificano la disoccupazione. Tramite questo approccio decisamente più complesso, che personalmente ritengo più completo, lo stipendio viene fissato non secondo un equilibrio di mercato, non abbiamo una domanda decrescente e un’offerta crescente rispetto al costo, ma attraverso una strategia di gioco tra lavoratori e imprese, al cosiddetto “Nash equilibrium”. All’interno di questa tesi si tiene così in considerazione la forza contrattuale di un lavoratore, la sua produttività, che dipende dallo stipendio e da altri fattori psicologici, e le istituzioni di una determinata società. In una ricerca compiuta nel 2005 da Shimer si evince come le rigidità del mercato siano correlate significativamente agli stipendi e dunque come il cosiddetto “barganing power” del lavoratore sia un fattore determinante, prima dei profitti dell’azienda stessa. La sua diminuzione potrebbe rischiare di aumentare eccessivamente la forbice tra profitti e stipendi, come soprattutto nei Paesi in via di sviluppo tende ad accadere, con un possibile effetto negativo, a mio parere, non solo sulla produttività, ma anche sulla distribuzione delle ricchezze. Nuovamente notiamo come l’efficienza di Pareto e il modello di Walras non trova spazio in queste nuove teorie, che spostano l’attenzione da offerta e domanda, alla contrattazione del singolo con il datore di lavoro in un complesso sistema di variabili.

Già Ford nel 1913 si ero reso conto che stipendi più alti non significano infatti inefficienza e sprechi, ma anzi al contrario possono aumentare la dedizione al lavoro di ciascun individuo. Con un clamoroso gesto decise di raddoppiare lo stipendio agli operai, diventando un idolo nell’America dei Ruggenti anni ’20 e aumentando i guadagni netti dell’azienda. Oggi si pensa che una delle ragioni sia stata la drastica diminuzione del turnover dei dipendenti, resi più “affezionati” al loro lavoro. Salari più alti per un rendimento maggiore: nuovamente la realtà confuta l’efficienza di Pareto!

La distribuzione ineguale delle ricchezze può essere poi un altro risultato negativo dovuto alla riduzione delle protezioni, con ripercussioni sul benessere della popolazione. Crescere di più non significa che tutti siano più ricchi, ma anzi, secondo K. Galbraith, PIL e distribuzione del reddito hanno una relazione quadratica, ovvero sono descritti da una parabola decrescente : dopo un certo punto maggiori sono le ricchezze e maggiori sono le diseguaglianze. Poche protezioni sociali non possono che inasprire tale situazione. Per comprendere dunque le ragioni della cosiddetta disoccupazione involontaria penso sia necessario non fermarsi al modello di Hicks, ma andare oltre, guardando la realtà nella sua enorme complessità, ponderando così qualsiasi tipo di riforma secondo obiettivi non solo economici ma anche sociali sul lungo termine, ma senza dimenticare le ripercussioni sul breve periodo. Se il Pil riprende a crescere, diseguaglianze e maggiore precarietà dei lavoratori ne rappresentano i possibili costi. Se assumiamo che gli agenti siano razionali e implementiamo riforme ad hoc per raggiungere l’efficienza del mercato, rischiamo di pagare questi sforzi con una diminuzione della produttività dei singoli e disincentivi agli investimenti e ai consumi. Pensare dunque di raggiungere l’efficienza ottimale in un mercato dove i protagonisti non sono beni o servizi ma persone, e pensare di annullare la tanta odiata e inspiegabile disoccupazione involontaria semplicemente applicando assiomi ritenuti “scientifici”può solo che portare al fallimento: come dice Stiglitz “la ragione perché la mano invisibile in questo mercato spesso sembra invisibile, è semplicemente perché non esiste. I mercati in generale non possono essere efficienti”. Partendo da questo presupposto possiamo trovare soluzioni alternative ai problemi del mercato del lavoro.

Referenze:

Inequality and instability, a study of the world economy just before of the great crisis”, James k. Galbraith

The Global crisis, social protection and jobs”, Joseph Stiglitz

Can structural reform help Europe?”, Gauti Eggertsson, Andrea Ferrero, Andrea Raffo

Employment protection reform”, Blanchard, Tirole

From wage rigidities to labour market rigidities: a turning point in explaining equilibrium unemployment?”, Marco Guerrazzi, Nicola Meccheri

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Davide Viviano

Classe 1994, nato a Roma. Diplomato al liceo classico e oggi studente Luiss del corso di Economics and Business del DEF. Si è sempre impegnato nell'attività politica in associazioni studentesche e nei GD. Attualmente coordinatore di circolo e membro attivo di Studenti democratici Luiss.

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