Recensione a: Emanuele Felice, Dubai, l’ultima utopia, il Mulino, Bologna 2020, pp. 224, 15 euro (scheda libro)
Scritto da Alberto Bortolotti
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Dubai è un caso esemplare che ci fa comprendere la misura della sfida che il mondo si trova oggi d’innanzi: governare il capitalismo con la politica democratica o lasciar proseguire la sua marcia verso la ricerca di un sempre maggiore profitto in modo incontrollato, in una prospettiva nella quale i diritti risultano essere solo d’intralcio. Con questa premessa, Emanuele Felice indaga il disegno politico di una lussuosa metropoli che racchiude in sé stessa l’utopia e la distopia del mondo interdipendente capitalizzato.
Il saggio è articolato in una serie di riflessioni nate dai viaggi attraverso i paesaggi urbani di Dubai che, nella spettacolarizzazione delle sue architetture, materializzano l’utopia di una felicità fondata sull’abbondanza senza diritti né relazioni umane. L’immaginario straniante dato dagli ormai celebri Burj Khalifa (il grattacielo più alto del mondo) e Burj al-Arab (detto “La Vela”), dal lussuoso Jumeirah Beach Hotel alla città lagunare Madinat Jumeriah, suscita nell’autore una fascinazione della città come fosse la “droga della bellezza” ma, allo stesso tempo, consacra Dubai nell’alveo delle “città generiche”, quelle realtà urbane nei cui grandi shopping mall, come scrive l’urbanista Rem Koolhaas «il soggetto è svuotato della sua privacy in cambio dell’accesso ad un nirvana di credito»[1].
La città più felice del mondo
Come scrive Emanuele Felice all’inizio del saggio, «Dubai è arrivata alla modernità in un battito d’ali, ha conosciuto solo il capitalismo» e questa caratteristica rappresenta la ratio che sta alla base dei rapporti di forza che determinano l’interesse nazionale degli Emirati Arabi Uniti. In una fitta e complessa rete di relazioni dinastiche tra emiri, l’uso delle risorse economiche a disposizione risulta essere più complesso della semplice economia “estrattiva” legata al petrolio; quella di Dubai è oggi una modalità di sviluppo consolidata e in crescita esponenziale caratterizzata da una forma di ostentazione della ricchezza tesa a generare un turismo sinergico con i servizi commerciali e finanziari: è l’esaltazione massima del neoliberismo, l’obiettivo più alto al quale un porto franco può ambire.
“La città più felice del mondo” così descritta dal grande slogan sfoggiato all’arrivo dei passeggeri in aeroporto è indubbiamente un caso di vittoria dell’ingegno umano sulla natura e sembra suggerire che attraverso il progresso tecnologico e il consumismo arrivi la felicità, ma davvero Dubai rappresenta il nostro futuro?
Si scoprirà nel corso della lettura che questo paradiso terreste non è poi così confortevole come preannuncia di essere, o meglio lo può essere solo per chi può permetterselo. Come infatti afferma l’autore, «Dubai è il luogo in cui il capitalismo ha reciso, nel modo più netto e sfacciato, con il liberalismo». Mettendo in atto una strategia di sviluppo di lungo periodo che va ben oltre le risorse naturali generate dal petrolio, Dubai rappresenta un paradigma, un modello. In nessun posto come negli Emirati Arabi Uniti si troverà un divorzio così profondo tra capitalismo e liberalismo, così tanta ricchezza e così pochi diritti.
Questo paradigma di sviluppo affonda le proprie radici nella storia del piccolo Stato che è ben illustrata nel saggio. Gli Emirati nascono come soggetto politico con il ridimensionamento del sistema coloniale britannico intorno al 1970 (all’epoca erano un protettorato composto dagli attuali 7 emirati più Qatar e Bahrain che opteranno per una propria autonomia), dopo che fin dall’Ottocento le sue coste hanno ospitato i porti franchi inglesi assumendo, di fatto, il ruolo di luogo di interscambio tra la penisola arabica e l’Iran nel Golfo Persico. Sicché Dubai è oggi «una via di mezzo tra una città-stato e una piccola nazione confederata con gli altri 6 emirati». Il significativo tasso di crescita e sviluppo accresce sempre di più il suo ruolo e la sua importanza, accostandola per certi aspetti alle “tigri asiatiche” come Taiwan e Singapore iniziando a profilare una diarchia tra Dubai e la capitale Abu Dhabi.
Il “modello Dubai” come strategia di sviluppo degli Emirati Arabi Uniti
Come già accennato, lo sviluppo di Dubai non è dovuto ai petrodollari come spesso si legge, anzi in realtà solo il 4% delle risorse petrolifere degli UAE si trova a Dubai mentre un buon 95% è localizzato ad Abu Dhabi e comunque le entrate del petrolio coprono appena il 5% del reddito dell’Emirato. In altre parole, Dubai si è trasformata in una città all’avanguardia poggiando solo in piccola misura sull’economia estrattiva.
L’intuizione di sviluppo della città è invece storicamente legata al proficuo rapporto con i commercianti guidato dallo sceicco Rashid al-Maktoum (divenuto Emiro di Dubai nel 1958) che decise con intelligenza di cooptare i mercanti riformisti nella gestione degli affari mantenendo saldamente le redini del potere, concedendo benessere in cambio della rinuncia alle loro libertà politiche.
Già infatti dagli anni Cinquanta, con il crollo dell’economia delle perle e senza ancora il petrolio, Dubai reinventò una strategia di crescita fondata sul commercio di transito dei prodotti grazie a tariffe molto basse, con una politica infrastrutturale importante per l’epoca che portò al dragaggio dell’insenatura del porto naturale, il Dubai Creek, allargandolo e aumentandone la profondità per consentire l’attracco di grandi imbarcazioni da trasporto. Nasce negli anni Sessanta una strategia commerciale che divenne un asset fondamentale per l’economia di riesportazione, sicché già a quel tempo iniziano a profilarsi l’approccio politico ed economico di Dubai: arricchimento degli avversari politici in cambio di legittimazione nei confronti dello status quo e sviluppo senza diritti dato essenzialmente da commercio (e infrastrutturazione dei servizi marittimi e aeroportuali), turismo (sia d’affari sia di massa) e soprattutto sfruttamento delle condizioni di paradiso fiscale, che portano ad attrarre capitali e imprese.
Ed è proprio nella prospettiva di implementare questi settori che il “modello Dubai” diventa una strategia di sviluppo degli UAE inserita nella geopolitica di riscatto delle economie asiatiche che vede la città porsi come crocevia tra il sistema finanziario e commerciale di Hong Kong-Singapore quello di Londra-Francoforte. Infatti negli anni Ottanta, l’allora giovane Ministro della Difesa Mohammed al-Maktoum, figlio di Rashid e attuale Primo Ministro degli Emirati, fonda la Emirates Airlines sotto la guida di Maurice Flanagan (già manager di British Airways) con un investimento iniziale di 9 milioni di dollari. Oggi Emirates Airlines è la quarta compagnia al mondo per numero di passeggeri internazionali, la seconda per tonnellaggio, e figura ai primi posti per margini di operatività e ricavi. È il motore del turismo di un gruppo diversificato negli hotel, nell’organizzazione di eventi e nei servizi aeroportuali e ha avuto un ruolo centrale nel consolidamento dell’immaginario di Dubai come nodo urbano della rete globale.
Come afferma Felice, «sulle ali di Emirates Airlines la città sviluppa un importante settore turistico» dato anche dall’intuizione di creare attrazioni dal nulla, trasformando gli alberghi stessi in motivi di richiamo in un rapporto circolare con le attrazioni che vengono arricchite con manifestazioni e spettacoli dal vivo. Oggi Dubai conta 16 milioni di visitatori l’anno ed è la quarta città più visitata al mondo dopo Bangkok, Londra e Parigi.
Tuttavia, soprattutto il turismo d’affari, non è altro che la “punta di un iceberg” costituitosi intorno alla creazione di zone economiche speciali dotate di una totale detassazione diretta sia sul reddito che sui profitti: un’intuizione politica che si è tradotta nella delocalizzazione delle multinazionali sia in termini di stabilimenti produttivi che di sedi societarie, facendo quindi nascere nuove economie di scala, di rete e di apprendimento. Questo processo, concentrato soprattutto nella Jebel Ali Free Zone e nel distretto finanziario, si basa sulla Common Law inglese e ha dato vita, attraverso l’attrazione di personale dirigenziale straniero e qualificato, ad un boom immobiliare legato alla costruzione di grattacieli per uffici e abitazioni di prim’ordine correlate ai servizi per i manager occidentali e le loro famiglie.
Il destino di Dubai e la faccia distopica della medaglia
Grazie alle politiche ultraliberiste, senza tasse e con pochi controlli, Dubai è oggi la «capitale mondiale per il riciclo dei capitali illegali» di vari gruppi (élite saudite, cosche di Bombay, ‘ndrangheta, narcotrafficanti colombiani, Triadi di Hong Kong), nonché centro internazionale per il transfer pricing di diamanti e altri beni rari africani. Sicché può essere affermato che lo sviluppo di Dubai in questi decenni si sia fondato in parte anche su metodi e strategie opache, su una competizione che, come detto, ha fatto probabilmente ricorso anche a capitali di dubbia origine. Allo stesso tempo manca la tutela dei diritti civili, che non sono garantiti né ai cittadini né ai residenti, sebbene i primi (circa il 10% degli abitanti) godano di una vasta gamma di servizi per diritto di nascita, una “rendita di posizione” atta a legittimare il potere della casa regnante. Ci troviamo quindi di fronte ad «un capitalismo sfrenato e autoritario, una società orientata esclusivamente sul consumismo» che sotto il velo dorato che ricopre i luccicanti grattacieli di Dubai cela una città priva di libertà, nella quale manca la possibilità di dire quello che si pensa, di competere in maniera pacifica, di criticare ciò che non va e persino di amare chi si vuole. Dietro l’utopia della “città più felice del mondo” si nasconde l’altra faccia della medaglia, una distopia nella quale «i diritti umani sono un’invenzione occidentale, e nulla contano per la felicità», in cui tutto è rappresentato dal benessere materiale del quale l’Emirato incarna la massima espressione.
Dubai rappresenta oggi un caso paradigmatico della tendenza al divorzio tra capitalismo e democrazia, la raffigurazione plastica di una società urbana nella quale materialismo e consumismo impreziosiscono le forme lasciando tuttavia arida l’anima, che rimane legata a ideali fortemente tradizionalisti. Negli Emirati, la consolidata tesi per cui capitalismo e democrazia si rafforzano a vicenda in una prospettiva tesa all’innovazione sociale, cade.
Il viaggio attraverso i luoghi di Dubai suggerisce dunque considerazioni di stampo pessimistico legate alla possibilità effettiva di un divorzio tra alcuni dei valori fondanti della modernità occidentale e l’economia di mercato. Sembra dunque che sviluppo economico e democrazia possano procedere potenzialmente in direzioni differenti. Si tratta di questioni e domande che devono essere affrontare da parte di chi, invece, ritiene che sviluppo e democrazia debbano procedere parallelamente.
Il dibattito è aperto ma l’autore sottolinea che l’approccio consumistico si fonda su un equivoco importante, ovvero il concetto di scambiare il “sentirsi felice” con l’“essere felice”, l’appagamento temporaneo contro la soddisfazione per la propria vita.
Il viaggio di Emanuele Felice si conclude quindi con l’invito ad un ripensamento del consumismo, solo governando il capitalismo si può vincere la sfida che il destino ci propone perché, come conclude l’autore «il sogno progressista può volare ancora, a patto che ritrovi le sue stelle».
[1] R. Koolhaas, Harvard Design School Guide to Shopping, Cambridge, Massachusetts 2000.