Scritto da Luca Picotti
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Sono passati due anni dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina. Già subito a partire dal 24 febbraio 2022, o ancora più precisamente dal giorno prima, a seguito del riconoscimento da parte del Cremlino delle repubbliche indipendentiste di Donetsk e Luhansk, Stati Uniti, Unione Europea e alleati hanno lanciato una imponente risposta sanzionatoria per indebolire l’economia russa e la sua macchina da guerra. Non si è trattato di provvedimenti nuovi, le basi normative erano già state disegnate nel 2014 in reazione all’annessione della Crimea, ma di una poderosa riattivazione di tali strumenti, in un’ottica di rafforzamento, estensione e integrazione delle misure già adottate a suo tempo. Nel complesso, a partire dal 24 febbraio 2022, l’asticella della guerra economica contro Mosca è stata portata a livelli inediti, tali da integrare un caso unico nella storia delle sanzioni: da un lato, per la portata delle misure, che rendono la Federazione Russa uno dei Paesi più sanzionati al mondo assieme a Iran e Corea del Nord; dall’altro, soprattutto, per le dimensioni del Paese bersagliato, decisamente superiori – in termini economici, politici, geografici – rispetto ai tradizionali Paesi colpiti.
Cosa è successo, dunque, in questi due anni? Cosa non poteva succedere? Cosa succederà? Per rispondere a queste domande, bisogna conoscere i meccanismi che informano le sanzioni, gli ingranaggi degli scambi globali, le grammatiche di fondo della guerra economica. Da qui, la necessità di emanciparsi dai due opposti estremi: da una parte, coloro che immaginavano un collasso in poco tempo dell’economia russa, senza avvedersi della forza delle materie prime in un’economia di guerra e dell’irrilevanza di qualche default tecnico; dall’altra, coloro che ritengono che le sanzioni non sortiscano effetti e, anzi, finiscano solo per danneggiare chi le adotta – prospettiva che trascura le logiche di medio-lungo periodo e le componenti occidentali storicamente utilizzate dalla Federazione Russa per alimentare la propria industria. Procederemo per punti.
Sanzioni o cosa?
Innanzitutto, bisogna sottolineare che l’arma sanzionatoria rappresenta uno dei pochi strumenti alternativi al conflitto militare. Dunque, se politicamente si ritiene di dovere dare una risposta ad una aggressione, nel concreto la scelta passa o per il coinvolgimento diretto nel conflitto o per quello indiretto. Quest’ultimo si è concretizzato, nel caso russo-ucraino, nel combinato disposto di fornitura di armi e sanzioni, ossia l’investimento più alto che si possa intraprendere senza entrare nella guerra vera e propria. Difatti, a seguito dell’invasione russa, le scelte erano, sinteticamente, queste: neutralità; sola denuncia politica dell’invasione; mero sostegno umanitario per gli sfollati; supporto militare e logistico; sanzioni. La decisione è ovviamente politica. In ogni caso, è chiaro che dal momento in cui si decide per un approccio assertivo, come la fornitura di armi (il fattore più utile), le sanzioni diventano quasi inevitabili: difatti, sarebbe piuttosto controproducente sostenere militarmente l’Ucraina e, al contempo, continuare a fornire tecnologie, componenti e macchinari alla Federazione Russa. Da qui, la legittima domanda: cosa si poteva fare se non sanzionare? Il dubbio è che la risposta sia un aut aut: senza la via mediana delle sanzioni, o non si interveniva in alcun modo, o si entrava in guerra.
La grammatica delle sanzioni adottate
In un precedente articolo su questa Rivista, si è analizzato a fondo logiche, meccanismi e obiettivi delle sanzioni europee. Lo stesso discorso può valere, al netto delle sfumature, anche per le sanzioni statunitensi. In particolare, qual è la ratio? A che obiettivi rispondono? Era sufficiente studiarle per comprendere che non erano informate da grammatiche di breve periodo: in altre parole, non avrebbero mai potuto portare al collasso la Russia nel giro di un anno o due, né fermare la guerra o modificare il comportamento di Putin. È proprio la mancanza di termini condivisi circa gli obiettivi delle sanzioni che ha condotto a fraintendimenti e, in generale, ad una incapacità di dialogo tra gli estremi opposti. Ne si ripercorrerà in sintesi la grammatica.
1) Adottate o, meglio, rafforzate a partire dal 24 febbraio 2022, le sanzioni sono state implementate con un approccio graduale, in cui venivano man mano ricompresi beni, settori e persone listate, con importanti deroghe sul fronte delle materie prime russe e posticipazioni per permettere di chiudere i contratti in corso. Di conseguenza, fino all’autunno inoltrato del 2022 è difficile parlare di piena effettività (si pensi poi che nel caso europeo il petrolio sino agli inizi del 2023 non è stato oggetto di sanzioni e il gas non è mai stato toccato).
2) Sul fronte finanziario, vi è stata una certa assertività, stante l’egemonia occidentale nei mercati dei capitali e nei circuiti come Swift (oltre che nel controllo delle riserve estere); dall’altra parte, in guerra la finanza conta meno delle materie prime, e comunque la Federazione Russa non è mai stato un attore rilevante in tali mercati, sicché partiva già da una posizione relativamente marginale.
3) Sotto il cruciale profilo dei controlli sull’export, sono stati via via coinvolti sempre più beni e settori. È proprio su questo piano che si gioca la partita essenziale del medio-lungo periodo: vale a dire, l’isolamento economico di Mosca, privata delle tecnologie necessarie per alimentare la propria industria; si pensi al divieto di fornire beni e tecnologie che possano giovare all’industria marittima e aeronautica russa (così da fare mancare al Paese pezzi di ricambio o proprio i mezzi di trasporto stessi, considerato anche che molti erano dati a nolo da compagnie europee o americane); oppure al divieto di fornire tecnologie per la raffinazione ed estrazione di idrocarburi, finalizzato a colpire il segmento cruciale dell’economia russa. Queste misure sono il fulcro delle sanzioni e ne rappresentano la logica di fondo. Allo stesso tempo, sono quelle più esposte ai meccanismi difensivi del Cremlino: triangolazioni e forniture alternative (leggasi Pechino).
In sostanza, una lettura delle sanzioni avrebbe dovuto ponderare diverse riflessioni a freddo, riportando la tematica nella sua giusta dimensione: gradualità; deroghe; tempi di esecuzione dei contratti; di conseguenza, effettività piena a partire circa dal 2023; grammatica di medio-periodo che punta sul decoupling e l’isolamento tecnologico della Russia; fisiologia delle pratiche elusive.
Le misure difensive del Cremlino: triangolazioni, forniture alternative, divieto di alienazione degli asset
La letteratura sulle sanzioni tende a evidenziare più le ombre che le luci di questo strumento, anche se, come sempre, tutto dipende dai parametri in relazione ai quali ne si valuta l’efficacia o meno. In ogni caso, è interessante riprendere alcuni spunti critici. In The trade weapon, Ken Heydon, rifacendosi agli studi di Gary Hufbauer et. al. (2009) e al “conflict expectatons model” sviluppato da Daniel Drezner (1999), ha evidenziato tre condizioni sussistendo le quali le sanzioni saranno destinate, con grande probabilità, a fallire: quando il Paese colpito ha la possibilità di aggirarle o trovare sostegno in altri mercati, specie se le sanzioni sono unilaterali; quando presenta un regime autoritario che permette un tasso di sacrificio alto; quando ha l’aspettativa di un conflitto e dunque è meno incline ad effettuare concessioni per risanare la frattura con i Paesi sanzionanti. Alla luce di questi fattori, Heydon passa in rassegna la diversa sorte dell’utilizzo dello strumento sanzionatorio nel caso dei programmi nucleari della Corea del Sud (1969-1976) e Corea del Nord (1987-oggi): nel primo caso, la vicinanza della Corea alle democrazie e la bassa aspettativa di un conflitto ha permesso alle sanzioni di raggiungere l’obiettivo (ossia dissuadere dall’iniziativa nucleare); nel secondo caso, le sanzioni si sono scontrate con una dittatura con un’alta aspettativa di conflitto e un buon tasso di sofferenza, fallendo. L’utilizzo di tale modello rispetto al caso russo suggerisce come non fosse nemmeno concepibile immaginare un cambio di comportamento di Putin indotto dall’uso delle sanzioni: in questo caso, difatti, abbiamo un’autocrazia con alto tasso di sacrificio; un’alta aspettativa di conflitto e recisione dei legami con l’occidente; ma, soprattutto, un’economia in grado di eludere le sanzioni, trovare altri mercati, nonché di sfruttare l’ampio numero di Paesi terzi che non hanno imposto le sanzioni (dalla Turchia al Kirghizistan).
È proprio il concetto del “terzo” che inficia, in parte, la forza delle sanzioni occidentali. Dal momento che queste sono unilaterali, e dunque impegnano solo alcuni Paesi, rimangono aperti ampi spazi di manovra per garantirsi, da un lato, forniture alternative ove possibile; dall’altro, ottenere gli stessi beni occidentali sottoposti a restrizione tramite l’intervento di intermediari, in una logica di triangolazione ove, ad esempio, un’impresa turca ordina da un’impresa europea un ampio quantitativo di macchinari per l’industria marittima (sotto sanzione), per poi rivenderlo all’impresa russa. Questi due fattori sono quelli che hanno compromesso maggiormente l’efficacia delle sanzioni occidentali.
Inoltre, un altro aspetto interessante concerne il tema delle società occidentali che hanno lasciato o meno la Federazione Russa. Difatti, aveva suscitato diverse reazioni uno studio dell’Università di San Gallo secondo il quale meno del 10% delle imprese occidentali aveva, a fine 2022, lasciato la Russia. La Yale School of Management ha stilato un vero e proprio elenco, regolarmente aggiornato, delle aziende che hanno mantenuto rapporti economici con Mosca, distinguendo tra le varie strategie: in ordine dalla più radicale, uscita dalla Russia, sospensione dell’attività, riduzione drastica della operatività, continuazione in solo alcuni rami e mantenimento regolare. In merito, è importante considerare un dato troppo spesso sottovalutato: sovente la decisione di lasciare o meno la Russia non dipende solo dall’azienda. Qui entra in gioco il geo-diritto: se un’impresa occidentale acquisisce una partecipazione di controllo in una società russa o decide di costituire una propria sussidiaria in territorio russo, tali realtà saranno regolate dal diritto russo. Sicché, qualora l’impresa occidentale controllante volesse, a seguito delle sanzioni e comunque in ottica di decoupling dall’economia russa, liberarsi di tali asset alienandoli (in sostanza, lasciare la Russia), necessiterà di una autorizzazione del Cremlino – perché così dice il diritto russo e le filiali occidentali ivi presenti sono da questo regolate. Il che ha permesso a Putin di rallentare l’uscita delle imprese occidentali, temporeggiando e rifiutando l’autorizzazione (in attesa di trovare acquirenti adeguati). Insomma, trattasi di un’altra arma difensiva che ha ridimensionato nel breve periodo gli impatti del decoupling occidentale.
Dunque, le sanzioni, specie quelle sostanziali relative ai controlli sulle esportazioni di beni, vanno lette anche alla luce delle possibilità difensive del Cremlino: mercati alternativi, triangolazioni, rallentamento della fuoriuscita dal proprio territorio delle società occidentali. Da qui, una capacità di comprometterne in parte l’efficacia o, meglio, di guadagnare tempo.
L’arma delle sanzioni secondarie
C’è un unico modo per fare fronte alle triangolazioni e, dunque, al dilemma del “terzo”: obbligare questo a obbedire alle proprie sanzioni. Dunque, arrogarsi un potere extra-territoriale, che va oltre la propria giurisdizione. Tale prerogativa appartiene, al momento, solo ad un Paese, ossia gli Stati Uniti. A fine dicembre, Biden ha deciso di imporre le cosiddette sanzioni secondarie agli istituti di credito terzi che agevolano le transazioni con controparti russe. La chiave del potere extraterritoriale americano è di facile intuizione: il dollaro, la valuta delle catene del valore e, dunque, l’estensione della giurisdizione di Washington sul mondo. Fino a dicembre, le banche cinesi, turche, indiane e via dicendo potevano perfezionare i regolamenti finanziari delle commesse delle triangolazioni, sostenendo così le importazioni russe. Con le sanzioni secondarie, queste banche rischiano di perdere l’accesso al dollaro. Difatti, ogni istituto di credito che opera in dollari necessita di un conto di corrispondenza in una banca americana. Da qui, l’asset concreto in suolo americano che l’OFAC, l’Office of foreign asset control, può aggredire. In sostanza, gli istituti di credito rischiano di vedersi bloccati i conti di corrispondenza nel caso in cui processino operazioni che, seppure legittime secondo il loro diritto domestico, non lo sono per quello statunitense. Logiche contorte delle sanzioni secondarie, che permettono però a Washington di impensierire non poco gli istituti che hanno finora favorito le importazioni russe. Difatti, di recente, alcune delle principali banche turche e cinesi hanno comunicato ai propri clienti l’immediata interruzione dei rapporti con Mosca. Un segnale importante, che – nonostante il Cremlino stia già architettando operazioni di triangolazione finanziaria – avrà senz’altro degli effetti.
Conclusioni: falsi miti, fatti e prospettive
Quale bilancio trarre? A parere di chi scrive, la direzione intrapresa dai Paesi occidentali è la seguente: le sanzioni erano l’unica risposta concreta, assieme all’invio di armi, che non comportasse un coinvolgimento diretto; non era possibile immaginare un decoupling netto e immediato dall’economia russa, soprattutto sul fronte energetico (salvo non volere fare saltare l’intero mercato mondiale), circostanza che ha imposto un approccio graduale e progressivo, percorso da deroghe mirate e termini per chiudere i contratti in corso di esecuzione; si è pertanto optato per un’azione in grado di indebolire l’ossatura economica russa nel medio-lungo periodo, con l’esclusione dai mercati occidentali, in modo da comprometterne le capacità belliche future, nonché in generale la ricchezza (da qui, le restrizioni sull’esportazione di macchinari per l’industria aeronautica e marittima, strumenti per la raffinazione degli idrocarburi, componentistica per il settore automobilistico ecc.); la grammatica, dunque, si è tradotta nella recisione tra le economie occidentali e quella russa, nel tentativo di relegare quest’ultima in una posizione marginale, come si fece con Iran e Corea del Nord, rallentandone così la possibilità di produrre nuovi armamenti e di alimentare in generale la propria macchina industriale; questo ha impegnato il Cremlino in un altro fronte rispetto a quello bellico, ossia le misure difensive a tutela della moneta e per garantirsi l’importazione di alcuni beni, trattando forniture alternative o architettando triangolazioni, da una posizione spesso di debolezza sfruttata dagli attori intermedi (ragione per cui Putin non ha mai nascosto l’irritazione verso le sanzioni).
Tali effetti non sono facili da monitorare. Anche perché, come si diceva, le sanzioni seguono una velocità propria: per incertezze, deroghe, triangolazioni, forniture alternative. Sicché, un tasso fisiologico di inefficacia c’è sempre. Molti segnalano le prospettive di crescita del PIL russo per dimostrare tale inefficacia. Se in parte tali dati fotografano la sconfitta di un certo ottimismo sulle sanzioni, dall’altra vanno però soppesati: trattasi di un’economia di guerra gonfiata dai prezzi dell’energia del 2022, ove vi è una mobilitazione di risorse che risponde a paradigmi emergenziali, non ordinari. Ciononostante, è chiaro che le proiezioni più tetre per Mosca siano state smentite. Anche perché non è sufficiente un’economia debole e un’alta inflazione per provocare un’implosione interna, specie se si considera lo storicamente alto tasso di sacrificio del popolo russo, che peraltro partiva già da una posizione di relativa povertà.
Cosa rimane dunque? La prospettiva di una recisione profonda, nei prossimi anni, tra le economie occidentali e quella russa. La struttura di quest’ultima era già stata segnata dal progetto di Putin. Lo “zar”, che aveva scritto una tesi di dottorato sulla pianificazione strategica delle risorse naturali, una volta al potere ha deciso di basare la grandezza della nuova Russia sul combinato disposto di risorse naturali e forza militare, rigettando la via della modernizzazione dei Paesi occidentali e, anzi, affidandosi ai prodotti di questi ultimi per fare funzionare la propria macchina industriale. La logica delle sanzioni è proprio volta a recidere, nel medio-lungo periodo, questo rapporto, approfondendo il gap russo nella modernizzazione, con conseguenze in ambito industriale e soprattutto militare. In merito, molto dipenderà dalla capacità delle nuove sanzioni secondarie di debellare le triangolazioni. Dopodiché, per difendersi da quest’ultima controffensiva di Washington, Mosca sarà probabilmente costretta a entrare ancora di più nell’orbita del sistema finanziario e industriale cinese: acquistare prodotti di Pechino come alternativa a quelli occidentali, utilizzare lo yuan negli scambi e giocare su operazioni finanziarie trattate da filiali russe aperte in Cina secondo il diritto cinese.
Ognuno può valutare l’opportunità o meno delle sanzioni a seconda della propria sensibilità politica. Rimane ferma la logica che le informa: un progressivo indebolimento dell’economia russa nel medio-lungo periodo per quanto concerne le tecnologie utilizzate in ambito militare e industriale; in sostanza, rendere la Federazione Russa un soggetto non più in grado, in futuro, di sostenere certi investimenti bellici, o comunque di sostenerli con maggiore difficoltà e nella cornice di una situazione economica e finanziaria precaria (come Iran e Corea del Nord). I temi più spigolosi? La grandezza della Russia rispetto a questi due Paesi, la capacità di forniture alternative di Pechino e l’abbraccio nel suo sistema finanziario, le triangolazioni. Le sanzioni secondarie sono intervenute per fare fronte a quest’ultimo aspetto, ma rimane aperta la crepa del secondo. Difficile analizzare la tematica in uno schema bianco o nero, senza valutare le diverse sfumature del grigio. Non è quasi mai un gioco di vinti e vincitori. Sono scelte politiche, scambi commerciali che si modificano, logoramenti, offensive e controffensive, posizionamenti futuri nelle catene del valore. La scommessa occidentale è una Federazione Russa sempre più arretrata e incapace di sostenere in futuro ingenti investimenti militari. I fattori che più la compromettono sono il ruolo dei mercati alternativi e in particolare della Cina. In mezzo, il grigio sistema delle triangolazioni e gli ingranaggi più profondi della globalizzazione.
Cosa è successo? È cominciato un percorso di profondo decoupling tra occidente e Russia, inedito per portata. Cosa non poteva succedere? Il collasso di Mosca, perché questo percorso è appena cominciato ed è attraversato da fisiologiche aree grigie (energia, triangolazioni) in uno spazio frammentato (solo alcuni Paesi hanno adottato le sanzioni) e politicamente disomogeneo (possibile sostegno, ad ora, di Pechino). Cosa succederà? Essendo difficile immaginare un cambio di rotta, le sorti della Federazione Russa dipenderanno dai mercati alternativi per sostituire beni e investimenti occidentali, o produrli da sé, e in particolare dall’integrazione nel sistema economico e finanziario cinese (con annessi i diversi rischi di carattere politico).
Sono le grandi trasformazioni nell’ingranaggio degli scambi globali, nella fisionomia di un’economia domestica, nella permanenza o meno di certe capacità militari e industriali, a spiegare dove conducono le sanzioni, più di qualsivoglia default tecnico o dato temporaneo del prodotto interno lordo. Ma è, quasi sempre, un discorso di medio-lungo periodo. Il tempo diventa dunque un fattore centrale.