È tutta colpa (della disorganizzazione) dei cittadini
- 02 Marzo 2015

È tutta colpa (della disorganizzazione) dei cittadini

Scritto da Diego Ceccobelli

3 minuti di lettura

Reading Time: 3 minutes

Proprio oggi leggevo l’ennesimo commento di un noto giornale nazionale atto a biasimare (che novità!) la classe politica di non recepire in alcun modo quelle che sono le istanze di cittadini sempre più apatici e disinteressati alla vita politica del Paese, manifestando sempre più la sua incapacità di risolvere i problemi dell’Italia. Personalmente ritengo che questo Paese debba iniziare a guardarsi veramente allo specchio, così da provare a risolvere i suoi propri problemi direttamente alla radice. E la radice ha un nome molto semplice: si chiama disorganizzazione dei cittadini.

La maggioranza dei cittadini italiani fa politica. Partecipa continuamente alla vita pubblica (quantomeno) del proprio territorio. Si informa, si attiva, partecipa. È sempre disposta ad attivarsi quando situazioni di emergenza richiedano un intervento straordinario. Discute e si confronta quotidianamente su temi politici. Non c’è giornata che non passi a pensare e agire per rendere il proprio paese un posto un po’ migliore di come lo abbia trovato. Ebbene, perché allora l’Italia continua a essere uno dei Paesi più corrotti dell’Unione Europea? Come mai siamo sempre più un Paese dal quale fuggire e sempre meno in grado di garantire un futuro alle giovani generazioni? Perché non siamo in grado di eleggere, sia a livello locale che nazionale, una classe dirigente in grado di risolvere i (soliti) problemi che ci affliggono?

La risposta è molto semplice: è tutta colpa della disorganizzazione dei cittadini. Attenzione, la tesi che voglio sostenere non vuole in alcun modo difendere o schierarsi dalla parte di una classe dirigente che tutto ha fatto e sta facendo tranne che meritarsi la stima e la fiducia dei cittadini. L’incapacità delle classi dirigenti italiane non è la causa, è solamente la conseguenza. Il punto è: avete mai visto qualcuno risolvere un problema, in qualunque ambito, guardando esclusivamente agli effetti e mai alle cause?

La causa regina ha nuovamente un nome molto semplice: si chiama fuga dai partiti. Dagli anni Ottanta in poi la popolazione italiana ha iniziato a cadere in quella che potremmo denominare “la trappola dei comitati e delle associazioni”. Ha preferito sensibilizzare dall’esterno invece di provare a risolvere i problemi dall’interno. L’elogio della società civile e la demonizzazione dei partiti non ha fatto altro che spingere buona parte dei migliori talenti che affollano il nostro Paese ad optare per una vita politica fatta di comitati e associazioni, (quasi) per nulla di confronto e scontro all’interno di un partito politico. Per la gioia dei sempre più obsoleti dirigenti dei partiti, che in questo modo hanno visto auto-eliminarsi (per abbandono volontario) il naturale avvicendarsi di quella concorrenza interna di qualità grazie alla quale un partito è in grado di crescere, svilupparsi, evolvere e recepire quelle istanze provenienti da un mondo sempre più instabile e in continuo cambiamento.

Una nazione che spinge buona parte dei suoi migliori talenti verso comitati e associazioni, senza fare di tutto affinché siano proprio “i migliori” ad affollare i partiti, non può che essere chiamata in un solo modo: disorganizzata. Di giustificazioni, ovviamente, se ne possono trovare a bizzeffe. Che la fiducia nei partiti continui a oscillare tra il 2% e il 5% non può che disincentivare l’ingresso di quella nuova linfa vitale della quale i partiti si devono nutrire per svolgere appieno il loro compito di formazione di una classe dirigente di qualità e mediazione delle istanze sociali. Ma proprio per questo la sfiducia nei partiti è forse il più grande dono che il nostro Paese sta regalando ai professionisti del mantenimento dello status quo.

Fate questa prova: le persone che più stimate sono iscritte oppure no a un partito politico? Se la risposta è no, non meravigliatevi se nel comune dove vivete la corruzione continua a mantenersi su livelli insostenibili o se le scuole dove avete studiato e dove stanno studiando o studieranno i vostri figli sono piene di crepe sulle pareti, spesso con un sistema di riscaldamento insufficiente e con dotazioni tecnologiche novecentesche. La colpa è principalmente di quel vostro amico e di quel parente che stimate tanto. Sì, proprio loro. Loro che fanno parte di quel comitato o di quell’associazione. Loro che se venissero eletti nella vostra amministrazione comunale cambierebbero il vostro territorio nell’arco di una legislatura. Ecco, ditegli che divenire classe dirigente e agire sullo status quo è molto semplice: in primis è necessario confrontarsi e scontrarsi duramente all’interno di un partito. Funziona così in (quasi) tutto il mondo. Strano a dirsi, ma anche in Italia. L’alternativa, finora, non mi sembra abbia portato a chissà quale cambiamento…

Scritto da
Diego Ceccobelli

Ricercatore all’Università degli Studi di Milano dove insegna Comunicazione crossmediale. In precedenza, ha insegnato nelle Università di Bologna, Trento e Bergamo. Ha conseguito un dottorato in Scienza della politica alla Scuola Normale Superiore di Firenze dove è stato anche assegnista di ricerca. È autore di: “Facebook al potere. Lo stile della leadership al tempo dei social media” (Maggioli 2017) e di numerosi articoli scientifici in materia di leadership, comunicazione politica e social media.

Pandora Rivista esiste grazie a te. Sostienila!

Se pensi che questo e altri articoli di Pandora Rivista affrontino argomenti interessanti e propongano approfondimenti di qualità, forse potresti pensare di sostenere il nostro progetto, che esiste grazie ai suoi lettori e ai giovani redattori che lo animano. Il modo più semplice è abbonarsi alla rivista cartacea e ai contenuti online Pandora+, è anche possibile regalare l’abbonamento. Grazie!

Abbonati ora

Seguici