Scritto da Nicola Dimitri
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Nel saggio Ecofascisti. Estrema destra e ambiente (Einaudi 2024), Francesca Santolini esamina le radici dell’ecologismo mettendo in luce come l’estrema destra, lungi dal condividere esclusivamente posizioni negazioniste, abbia utilizzato e continui a utilizzare la questione climatica per rafforzare narrative identitarie e xenofobe. In questa intervista, l’autrice riflette sulle sfide contemporanee poste dalla ricerca reazionaria di un capro espiatorio – le migrazioni, la modernità, i popoli del Sud globale – e sulle implicazioni sociopolitiche di un ambientalismo che, non essendo più esclusivo appannaggio progressista, viene oggi strumentalizzato per rafforzare le divisioni sociali e le disuguaglianze.
Francesca Santolini è una giornalista esperta di temi ambientali, collabora con «La Stampa» e la trasmissione di Rai 1 «Unomattina». Tra i suoi libri segnaliamo Profughi del clima. Chi sono, da dove vengono, dove andranno (Rubbettino Editore 2019), Un nuovo clima. Come l’Italia affronta la sfida climatica (Rubbettino Editore 2015) e Passione verde. La sfida ecologista alla politica (Marsilio 2010).
Utilizzare l’ambiente e la crisi climatica come chiavi ermeneutiche per comprendere le molteplici urgenze che, da più direzioni, attraversano la temperie odierna. È probabilmente questa l’audace scommessa del libro. Parlare di clima – come lascia intendere – significa anche (e forse soprattutto) parlare di politica, di comunità, di ingiustizia sociale, concentrazione del capitale e delle fratture socioeconomiche che, proprio attraverso la via climatica, si stanno affermando spesso in modo latente nelle nostre società. In questo senso, Ecofascisti realizza un’efficace operazione di lettura politica del presente, mettendo in evidenza gli aspetti sociali ed economici spesso trascurati nel dibattito ecologico. Ma c’è di più. Nel libro, infatti, particolare attenzione è dedicata anche alla ricostruzione della “storia” dell’ecologia, a partire dal contesto intellettuale e politico che dalla metà dell’Ottocento in poi ha contribuito alla sua nascita come movimento e ideologia. Sin dalle prime pagine il lettore è portato a prendere consapevolezza di una circostanza per certi versi sorprendente: a differenza di quanto verrebbe da pensare, le radici dell’ecologismo sono tutt’altro che legate a un contesto progressista. Al contrario. La sua origine politica è collocata a destra, storicamente vicina all’ambiente reazionario del nazionalsocialismo tedesco. Ebbene: quali sono i retroscena dell’ecologia?
Francesca Santolini: In Europa, come pure negli Stati Uniti, siamo abituati a collocare l’impegno civile e istituzionale contro il cambiamento climatico nella sfera di quelle urgenze e preoccupazioni tipiche dell’agenda politica di sinistra. Tuttavia, per quanto oggi questo sia vero (non senza contraddizioni), associare acriticamente la sensibilità politica verso la questione climatica ad ambienti a orientamento progressista costituisce un vero e proprio bias cognitivo. Un errore di pensiero che non solo non trova piena conferma nella nostra contemporaneità, ma che è perfino contraddetto dalla storia. La traiettoria politica dell’ecologia infatti non è lineare. All’opposto, ha seguito, e di fatto tuttora segue, direzioni diverse, per certi versi paradossali. Al punto che – per quanto controintuitivo possa apparire – oggi la coscienza ecologica arriva a noi per mano di ambienti fortemente reazionari. In effetti, se volessimo trovare un punto di avvio della storia politica dell’ecologia dovremmo farlo coincidere con la metà dell’Ottocento, e in particolare con il pensiero di Ernst Haeckel, zoologo e filosofo di origine prussiana, legato al filone del darwinismo sociale. Haeckel, oltre ad aver coniato il termine ecologia, per via della sua visione organicistica della società e gerarchica della vita, contribuì a influenzare, se non addirittura a giustificare, alcune delle teorie razziste e nazionaliste che poi presero piede in Germania con l’ascesa del nazionalsocialismo. Per quanto Haeckel non possa certo essere considerato un precursore diretto del nazismo, né fu materialmente legato all’ideologia nazista, come evidenzio nel libro, le sue intuizioni, per quanto strumentalizzate, finirono per attribuire una patina di scientificità all’idea della razza eletta e contribuirono a preparare il terreno ideologico posto alla base delle politiche razziste e xenofobe del regime nazista. Infatti, prima di essere incorporate nell’ideologia nazista, le idee di Haeckel vennero raccolte (e trasfigurate) dal movimento etno-nazionalista völkisch, nato in Germania sul finire del XIX secolo. Questo movimento, a matrice culturale e politica reazionaria, traendo ispirazione da una combinazione di romanticismo tedesco, darwinismo sociale e antichi miti germanici, attraverso la cura e la protezione dell’ambiente e della natura, enfatizzava l’unicità delle culture e l’importanza delle radici naturali dei popoli germanici, individuando nella figura dell’estraneo, vale a dire chiunque non fosse legato al territorio, la sagoma del nemico. Una minaccia ontologica ai valori popolari e alle tradizioni rurali del popolo tedesco. In un secondo momento, seguendo il filone völkisch (già reo di numerose strumentalizzazioni del pensiero di Haeckel), l’ecologia assume poi un peso cruciale addirittura nell’agenda politica del Terzo Reich. I nazisti, infatti, sono stati tra i più strenui fautori delle “politiche ecologiche”, trasfigurate, ovviamente, sotto forma di culto della razza.
Chi non ha una conoscenza storicamente connotata dell’ecologismo, davanti a una simile ricostruzione, rimane enormemente stupito. Quali sono i legami specifici tra ecologia e nazismo, dunque tra “culto della razza” e “protezione del territorio”?
Francesca Santolini: L’ecologia, come spiego nel libro, fu apertamente utilizzata nel Terzo Reich quale espediente politico attraverso il quale i nazisti giustificarono il culto della razza e persino l’antagonismo nei confronti degli ebrei. Quanto al culto della razza, Walther Darré, influente ministro del Terzo Reich per l’alimentazione e l’agricoltura, con proclami fortemente demagogici e tramite la leva ambientale riuscì nell’intento di promuovere l’idea della superiorità della razza ariana. È suo, ad esempio, il motto Blut und Boden (sangue e suolo). Si tratta di uno slogan politico emblematico, che sintetizza il vasto, quanto sinistro, legame tra l’armamentario ideologico nazista e l’idea di preservare le origini e le tradizioni locali: solo il popolo tedesco, in quanto tradizionalmente legato al suo territorio e connesso in chiave mistica con la terra natia, avrebbe potuto considerarsi autenticamente puro, e come tale aveva diritto a difendersi dalle influenze “corrotte” delle altre popolazioni. Veniamo all’odio nei confronti degli ebrei. Gli ebrei, colti, razionali, cosmopoliti, secondo questa visione etnologica e nazionalista dell’ecologia, erano considerati dei nemici in quanto incarnavano una comunità di individui privi di un legame autentico con il territorio, una comunità che inevitabilmente sfuggiva alla formula binaria suddetta, sangue e suolo, Blut un Boden. Occorre tuttavia una precisazione. È evidente che l’enfasi nazionalsocialista sul tema dell’ambiente si riducesse a pura demagogia. I nazisti non avevano alcuna reale, autentica, sensibilità ecologica. La loro idea di protezione dell’ambiente era tutta orientata al consolidamento di politiche razziste e xenofobe. Tuttavia, questa ricostruzione storica credo possa rivelarsi utile per mettere in evidenza quanto il discorso ecologico si presti facilmente a finalità politiche che nulla hanno a che vedere con la tutela dell’ambiente e il contrasto al cambiamento climatico. In questo senso, tenere a mente ciò che è accaduto in passato, anche attraverso la chiave dell’ambiente, permette di leggere con maggiore proprietà alcune strumentalizzazioni odierne. Anche oggi, infatti, come poi diffusamente argomento nel testo, assistiamo a una sorta di strumentalizzazione, se non proprio a un’appropriazione indebita, del discorso climatico da parte di forze politiche che non sono realmente sensibili al tema dell’ambiente ma che, attraverso di esso, trovano il modo per risvegliare tra la popolazione antagonismi che si pensava fossero sopiti. Le destre, attraverso la questione climatica, oggi riescono nell’intento di approfondire le fratture sociali e distrarre gli elettori dalle reali e drammatiche urgenze legate al clima.
Come viene messo in evidenza nel libro, dalle macerie dei totalitarismi del Novecento la strumentalizzazione attorno alla questione climatica si riaffaccia nel presente. Quasi scivolando sul piano inclinato della storia, ritorna attuale un refrain inquietante: la prospettiva di un’ecologia che anzitutto divide, separa, crea antagonismi. Ebbene, in che modo possono essere colte le assonanze tra l’approccio ecologista affermatosi nell’esperienza nazista e fascista e la nostra contemporaneità?
Francesca Santolini: L’iniziale prospettiva reazionaria dell’ecologia, con cui nel periodo nazista si riuscirono ad avversare i valori ereditati dall’Illuminismo, ritorna attuale nei giorni nostri. Dobbiamo fare i conti con il fatto che l’ecologia non è più una bandiera esclusivamente progressista e la protezione del clima non fa più rima solo con solidarietà e uguaglianza sociale. All’opposto, con il recente rafforzamento dei sovranismi e dei nazionalismi, dentro e fuori dall’Unione Europea, ritorna forte l’eco di quell’approccio reazionario all’ecologia che evidentemente non può dirsi superato. Oggi il discorso ecologico si colora nuovamente di messaggi politici pericolosi che, sotto mentite spoglie, valorizzano la necessità di proteggersi dallo “straniero” per “il bene dell’ambiente”. L’attuale ecologismo di estrema destra ha molti tratti in comune con l’ideologia identitaria fascista del Novecento. Territorio e ambiente, sangue e suolo, le formule sembrano le medesime e l’ecologismo contemporaneo contiene ancora il germe di quelle ossessioni identitarie del nazifascismo che non paiono del tutto obliterate. Certamente, alcune cose sono cambiate. Rispetto al clima le destre oggi non hanno lo stesso approccio che avevano agli inizi degli anni Duemila, ad esempio. Se fino a qualche anno fa le forze politiche di destra tendevano a promuovere uno strenuo negazionismo, oggi la loro postura è mitigata. Ma non senza conseguenze. Le destre, non potendo più negare gli effetti avversi del climate change, hanno accettato di fare i conti con la crisi climatica riconoscendone l’esistenza ma, al tempo stesso, capovolgendo le priorità. Nell’odierna grammatica sovranista e nazionalista il discorso climatico, a differenza del passato, non viene negato, esiste. Tuttavia, si tratta di un discorso che piega l’ecologia all’identitarismo e alla paura del nemico (come, appunto, accadeva nell’esperienza nazionalsocialista). Nella logica “ecofascista”, come spiego nel libro, i migranti ad esempio sarebbero colpevoli di contribuire con i loro continui arrivi ad aumentare le emissioni di gas e sarebbero anche colpevoli di portare, dai loro Paesi di origine, abitudini distruttive e inquinanti per l’ambiente. In Germania, il partito di estrema destra Alternative für Deutschland ha concentrato buona parte della sua propaganda politica sulla relazione che intercorre tra immigrazione e degrado ambientale. Si tratta evidentemente di una forma di manipolazione del discorso ambientalista, in cui non si tenta più di negare i fatti, ma si nega la loro corretta interpretazione, altresì minimizzando le conseguenze del cambiamento climatico.
Si potrebbe dire che la scelta delle destre di passare dal negazionismo esplicito a una forma più raffinata di negazionismo che, pur ammettendo l’esistenza della crisi ambientale, ne distorce il significato, suscita preoccupazioni ancora maggiori. Ne risente infatti la qualità del dibattito democratico, poiché gli elettori diventano bersaglio di messaggi chiaramente manipolati, e si compromette anche l’integrità del discorso scientifico, contribuendo alla diffusione di fake news. Quali sono le ripercussioni socio-ambientali dovute a questo cambio di postura rispetto al discorso ecologico da parte delle destre?
Francesca Santolini: Se nel periodo del negazionismo climatico esplicito l’agenda delle destre populiste si caratterizzava per un atteggiamento apertamente antiscientifico, oggi le cose sono cambiate, e per molti aspetti in peggio. Con il riconoscimento parziale e strumentale della crisi climatica, all’antiscientismo populista di destra si aggiungono la demagogia e la manipolazione. In questo modo, i grandi temi legati alla protezione dell’ambiente, che richiederebbero una gestione cooperativa e transnazionale, vengono ridotti dalle destre a battaglie solitarie, identitarie e protezionistiche, limitate ai confini dello Stato-nazione. Un esempio è l’eco-bordering, vale a dire la pratica di giustificare la chiusura delle frontiere con l’alibi di proteggere l’ambiente e il benessere delle comunità locali. Questa visione, senza basi concrete e in modo assolutamente arbitrario, dipinge lo straniero come una minaccia per l’ambiente, una sorta di vandalo ambientale da temere, da respingere. È perciò evidente che le destre oggi, come già accadeva in passato nel secolo scorso, utilizzano il tema climatico per diffondere idee che nulla hanno a che fare con una vera tutela ambientale. Come osserva Antoine Dubiau, il discorso ecologista viene talvolta piegato in chiave autoritaria, si “fascistizza”, e bene che vada lambisce solo le istanze di un’ecologia superficiale, quella che il filosofo norvegese Arne Næss chiama shallow ecology: un approccio che promuove la protezione dell’ambiente solo se e nella misura in cui ne derivano vantaggi per l’essere umano. L’appropriazione da parte delle destre del discorso ecologista comporta almeno due conseguenze rilevanti. Da un lato, sotto le mentite spoglie della “custodia responsabile del territorio”, si alimenta un nativismo reazionario, pericoloso in quanto refrattario ad accogliere e implementare le reali politiche pro-ambiente. Dall’altro, si sposta l’attenzione pubblica dalle vere urgenze climatiche verso questioni che, come detto, non sono legate al clima, con il più ampio proposito di lasciare impregiudicato e inalterato l’attuale sistema economico e l’attuale geografia politica. Geografia politica che ancora vede i Paesi del Nord del mondo sfruttare quelli del Sud proprio attraverso l’ambiente. Si pensi ai fenomeni di land grabbing, che, infatti, continuano a proliferare. Il paradosso è che, pur vivendo in un’epoca caratterizzata da una facilità di accesso alle informazioni pressocché inedita rispetto al passato, in cui si potrebbero perciò avviare discorsi scientifici e autenticamente centrati sulla salvaguardia del clima, assistiamo, sempre più di frequente, a un vero e proprio “inquinamento” del discorso ecologista. La destra populista, attraverso una capillare narrazione strumentale e ideologica della questione climatica, riesce a creare un clima di diffidenza verso l’ambientalismo, spesso dipinto come una scelta radicale ed elitaria. C’è quindi un problema di narrazione: la transizione ecologica viene presentata senza affrontare la dimensione sociale della crisi climatica, senza evidenziare che combattere il cambiamento climatico vuol dire anche lottare contro la concentrazione di capitale, contro la povertà. Per essere autentica e inclusiva, la transizione ecologica richiede un nuovo patto sociale. Proporre un cambiamento senza delineare un progetto che includa e supporti tutti, indistintamente, significa rafforzare la percezione che la lotta al cambiamento climatico avvantaggi pochi e svantaggi molti.