Scritto da Simone Benazzo
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Cosa distingue l’ecologia politica e gli approcci affini con cui si contamina, come la decrescita di Serge Latouche e la società conviviale di Ivan Ilich[ix], dagli altri approcci ecologisti, più o meno radicali, in primis il dogma odiernamente egemone della sostenibilità? Cosa implica, in sostanza, la sua qualificazione come politica? Questa qualificazione deriva dall’assunzione di due posizioni (consapevolmente) ideologiche: la prima è il rifiuto di qualsiasi approccio tecnico, nel senso di una pretesa di apoliticità o di neutralità; da questa discende la seconda, che consiste, riportando l’ecologia all’interno della sfera politica, nella possibilità di azione per il corpo politico riguardo alla definizione ed ai contenuti di cosa può essere l’ecologia. Il capitalismo è un sistema politico, non tecnico, e lo rimane anche dopo il 1989. Politiche e non tecniche saranno, quindi, anche le sue modificazioni o sostituzioni, qualunque esse siano: «è necessario evitare che l’approccio politico sia presentato come il risultato che si impone con una ‘necessità assoluta’ alla luce dell’‘analisi scientifica’ e che si riproponga sotto nuove vesti il genere di dogmatismo scientista ed antipolitico che ha preteso di innalzare al rango di necessità scientificamente dimostrate pratiche e concezioni politiche il cui carattere specificatamente politico veniva per ciò stesso negato»[x].
Assumendo come data, in quanto inscritta nella genetica dei suoi presupposti antropologici, la fine del capitalismo, di cui la declinazione di consumo sfrenato di risorse limitate non è che l’ultimo ed irreversibile stadio, Gorz preconizza già gli scenari futuri, delineando le alternative possibili. Tra queste possibili opzioni, la più probabile è quella che Gorz definisce espertocrazia, un disegno politico di cui individua i prodromi già negli anni Sessanta: un regime di tecnocrati che, come un equipe di chirurghi, dovrebbe intervenire a tenere in vita il sistema capitalista, qualora il raggiungimento conclamato dei limiti fisici dello sviluppo obbligherebbe ad un tardivo, e probabilmente ormai inefficace, accordo generalizzato sul suo stato di coma, seguita da una propagazione geometrica di azioni coercitive. Ma, secondo Gorz, può essere soltanto un palliativo, una rimedio tampone utile a procrastinare lo scontro finale con l’esaurimento delle risorse naturali. Questa consapevolezza che un approccio scientista, positivista e tecnocratico non possa fungere da soluzione realistica è un fil rouge del pensiero gorziano, frequentemente definito utopistico, che, specialmente a partire dalla pionieristica pubblicazione del Club di Roma The limits to Growth del 1972, si confronta con la diffusione del mantra dell’imperativo ecologico, stimolata anche dalla comparsa dei partiti verdi sullo scenario politico europeo. L’ecologia politica si pone come un’“etica della liberazione”; un obiettivo che l’imperativo ecologico non può porsi, poiché non altera né sovverte le cause primarie del problema: «l’ecologia non ha tutta la sua carica critica ed etica se le devastazioni della Terra, la distruzione della basi naturali della vita non sono comprese come le conseguenze di un modo di produzione, se non si comprende che questo modo di produzione esige la massimizzazione dei rendimenti e ricorre a delle tecniche che violano gli equilibri biologici. Ritengo dunque che la critica delle tecniche nelle quali si incarna il dominio sugli uomini e sulla natura sia una delle dimensioni essenziali di un’etica della liberazione»[xi].
La sensibilità di Gorz verso i rischi che l’umanità corre, «se il capitalismo sarà costretto a tener conto dei costi ecologici senza che un attacco politico [l’ecologia politica, ndr], sferrato a tutti i livelli gli sottragga l’egemonia dell’operazione e gli opponga un progetto di società e di civiltà completamente diverso»[xii], è uno dei lasciti più contemporanei del suo pensiero. L’espertocrazia, per Gorz, esigendo di tener vivo lo spirito del capitalismo in uno stato di parossismo permanente, «non rompe fondamentalmente con l’industrialismo e la sua egemonia della ragione strumentale (..) riconosce la necessità di limitare lo sfruttamento delle risorse naturali e di sostituirgli una gestione razionale a lungo termine dell’aria, dell’acqua, dei suoli, delle foreste e degli oceani, il che implica politiche di limitazione dei rifiuti, di riciclaggio e di sviluppo di tecniche non distruttrici per l’ambiente naturale»[xiii]. Anche nel descrivere come può operare pragmaticamente questo deus ex machina tecnocratico, Gorz segnala esplicitamente la sua differenza con l’ecologia politica, sostenendo che «le politiche di ‘preservazione dell’ambiente’ non tendono affatto, dunque, a differenza dell’ecologia politica, a una pacificazione dei rapporti con la natura o alla ‘riconciliazione’ con essa; esse tendono ad amministrarla prendendo la necessità di preservarne almeno le capacità di autorigenerazione fondamentali. Da questa capacità si dedurranno le misure che si impongono nell’interesse dell’umanità intera e al rispetto delle quali gli Stati dovranno vincolare gli operatori economici e i consumatori individuali»[xiv]. Ad agire sarà dunque uno Stato Leviatano, curatore fallimentare e prodotto di una fase di solipsismo verde del capitalismo. Non si tratterà, tuttavia, di un ritorno allo statalismo, né nella versione keynesiana, né in quella socialista, poiché lo Stato, assunto semplicemente il ruolo di custode dispotico dell’ecosfera, lascerà campo libero alle imprese private, premurandosi, tramite pratiche di contenimento legislative, che rimangano entro determinate soglie di inquinamento e rintuzzando le reazioni di protesta e le rivolte popolari. Le modalità attuative dell’imperativo ecologico non prevedranno il protagonismo degli individui, né la loro consapevolezza, interamente passivizzati: «La presa in conto dei vincoli ecologici da parte degli Stati si tradurrà allora in divieti, regolamentazioni amministrative, tassazioni, sovvenzioni e sanzioni. Essa dunque avrà quale effetto il rafforzarsi dell’eteroregolazione del funzionamento della società. Questo funzionamento dovrà diventare più o meno “ecocompatibile” indipendentemente dall’intenzione propria degli attori sociali»[xv].
L’eteroregolazione, l’incapacità del soggetto di influire e determinare la propria vita, che, come abbiamo visto in apertura, è il perno della riflessione gorziana in un sistema tecnocratico rimane inalterata. Già nel 1974, in uno dei suoi articoli più pregnanti, dal titolo auto-esplicativo “La loro ecologia e la nostra”, l’autore si era spinto fino a delineare la possibilità che l’espertocrazia degeneri in uno scenario autocratico, una sospensione de facto della democrazia: «Il potere centrale rafforzerà il proprio controllo sulla società: dei tecnocrati studieranno mosse ‘ottimali’ di disinquinamento e di produzione, stabiliranno regolamentazioni, amplieranno gli ambienti di “vita programmata” e il campo di attività degli apparati repressivi. La collera popolare, mediante miti compensatori, verrà deviata contro capri espiatori comodi (le minoranze etniche o razziali, i giovani…) e lo Stato fonderà il suo potere solo sulla forza dei propri apparati: burocrazia, polizia, esercito, milizie riempiranno il vuoto lasciato dal discredito della politica di partito e dalla scomparsa dei partiti politici»[xvi]. La formula trovata da Gorz per definire questo sistema, “pétainismo verde”[xvii], riassume in maniera icastica le caratteristiche liberticide e autocratiche che mostrerebbe tale sistema, reazione tecnocratica alla crisi fisica del capitalismo. Benché con un vocabolario non identico, una delle poche voci del panorama intellettuale nonché politico italiano ad aver dimostrato una lucidità paragonabile nel condannare «le ambiguità del concetto di ‘sviluppo sostenibile’ (‘nuova formula mistificatrice’?), e, infine, l’impossibilità di qualsiasi forma di ‘Stato etico ecologico’, di ‘eco-dirigismo’, o addirittura di ‘eco-autoritarismo’»[xviii] è stata quella di Alexander Langer. In svariati testi e articoli, Langer, pur partendo da basi biografiche molto differenti e incarnando un ruolo più marcatamente politico rispetto a Gorz, ne riecheggia le riflessioni, sembrando rivendicare proprio quella dimensione politica dell’ecologia cara a Gorz, in opposizione allo scenario tecnocratico sopra esposto: «si deve dire chiaramente che simili ipotetici ‘estremi rimedi’ si situano al di fuori della politica – almeno di una politica democratica. Ogni volta che si è sperimentato lo Stato etico in alternativa a situazioni o stati anti-etici (e quindi senz’altro deplorevoli) il bilancio etico della privazione di libertà si è rivelato disastroso. E l’attesa della catastrofe catartica non richiede certo alcun sforzo di tipo politico: per politica si intende l’esatto contrario dell’accettazione di una selezione basata su disastri e prove di forza»[xix].
Anche Langer, come Gorz, ritiene che il processo di quella che lui chiama “conversione ecologica” non possa essere patrimonio di pochi illuminati decisori, ma debba necessariamente transitare per una collettivizzazione della sensibilità ecologica, riproponendo gli individui come soggetti ed evitando qualunque forzatura della loro volontà. Nella parole dell’europarlamentare trentino: «inevitabilmente ci si dovrà sottoporre alla fatica dell’intreccio assai complicato tra aspetti e misure sociali, culturali, economici, legislativi, amministrativi, scientifici ed ambientali. Non esiste il colpo grosso; l’atto liberatorio tutto d’un pezzo che possa aprire la via verso la conversione ecologica: i passi dovranno essere molti, il lavoro di persuasione da compiere enorme e paziente»[xx].
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