Scritto da Gianluca Piovani
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Esistono molti indicatori che misurano dimensioni prettamente economiche: la variazione del PIL, il rapporto tra PIL e debito pubblico, l’inflazione, l’andamento dei mercati azionari e obbligazionari, etc. L’informazione che viene diffusa riguardo questi indicatori è molto abbondante e su quotidiani e telegiornali vengono presentati i numeri più disparati. D’altra parte raramente questi dati vengono spiegati ed in pochi sono in grado di interpretarli: cosa cambia davvero se l’azionario segna più o meno 0,5%? E se l’inflazione diminuisse di colpo? Una crescita dell’1,5% del PIL è poco o tanto? E per quale motivo? Gli indicatori economici divengono una sorta di feticcio, il messaggio trasmesso è che l’economia è un fine in sé stessa e non un mezzo.
Una volta accumulate grandi ricchezze il protagonista della novella La roba di Verga non sa più che farsene se non distruggerle al grido di «roba mia vientene con me!». La vita del protagonista si è consumata per accumulare ricchezze di cui infine non ha mai goduto, a quale scopo tutto ciò? Allo stesso modo non è detto che fare crescere a tutti i costi il PIL più di quello degli altri stati debba essere lo scopo finale e assoluto ma invece necessita di spiegazioni e approfondimenti.
In quanti sanno quant’è la percentuale della popolazione italiana che vive in povertà relativa? Quanti conoscono il totale delle ore lavorate in media da un italiano oppure si preoccupano dell’inquinamento o della diffusione della cultura o della felicità della popolazione? Difficilmente l’economia può essere davvero intesa come un fine in sé stesso, nonostante ciò raramente è dibattuto lo scopo che l’economia dovrebbe aiutarci a raggiungere. Il presente articolo si propone di illustrare alcuni esempi per i quali limitarsi alla rilevazione numerica dei principali indicatori economici, quale il PIL, è riduttivo.
Consideriamo USA e Cina: quale dei due stati ha il PIL più alto? La risposta al quesito è complessa e dimostra come il concetto stesso di PIL può non essere esaustivo. Gli USA hanno il PIL maggiore nel caso in cui sia calcolato in termini nominali; al contrario la Cina ha un PIL maggiore nel caso in cui il PIL sia calcolato in termini reali (a parità di potere d’acquisto). Cosa significa? Il PIL nominale è calcolato al tasso di cambio di mercato: ponendo che la produzione annuale degli USA consista in una macchina che vale 100 dollari e che la Cina produca invece una macchina che vale 100 yuan; il tasso di cambio tra dollaro e yuan sia di 2 yuan per ogni dollaro. In questo caso la macchina cinese vale 50 dollari e quindi il PIL nominale cinese è metà di quello statunitense. Ipotizzando d’altra parte che le due macchine, quella cinese e quella americana, siano esattamente uguali: il PIL USA e cinese risultano identici in termini reali.
Quale dei due PIL è quello giusto? Apparentemente quello reale. Il PIL reale misura l’entità della produzione in termini più “concreti” e da un certo punto di vista misura la produzione “reale”. Questa considerazione da sola tuttavia è riduttiva perché il tasso di cambio è un’informazione rilevante e dimostra che nei commerci internazionali gli USA godono di una sorta di posizione di vantaggio in quanto la loro moneta vale di più. Gli Stati Uniti possono acquistare i beni cinesi ad un ottimo prezzo grazie al tasso di cambio favorevole. I beni cinesi sono solitamente posizionati su un gradino più basso della scala del valore rispetto a quelli americani: i cinesi producono acciaio e tessile a basso costo, gli americani hanno le conoscenze per costruire jet ad alta tecnologia e computer. Di solito i paesi emergenti partecipano alla produzione di prodotti ad alto valore ma solo per la parte più “semplice”: la progettazione e la composizione delle parti più complesse viene generalmente mantenuta nei paesi sviluppati, anche perché in quelli in via di sviluppo manca manodopera qualificata. Ciò che viene delocalizzato è ad esempio la componente hardware, che a seguito della fase di progettazione e sviluppo impiega notevoli sforzi lavorativi ma di natura abbastanza semplice e non necessita di conoscenze elevate. Apple è famosa per avere delocalizzato la produzione dell’hardware in fabbriche in cui i lavoratori sono sottopagati e lavorano in condizioni disumane; d’altra parte gli headquarter e i settori progettazione e sviluppo sono mantenuti negli USA e la differenza nella qualità dei prodotti causa una ragione di scambio differente tra le valute nazionali (insieme al fatto che il dollaro è valuta di riserva, di questo si accennerà nel seguito).
La forza della valuta americana incoraggia gli americani a rifornirsi di beni cinesi, la debolezza della valuta cinese scoraggia i cinesi a rifornirsi di beni americani. Da un lato questo “costringe” i cinesi a lavorare a basso costo per gli USA, dall’altro gli USA diventano sempre più dipendenti dai beni cinesi e registrano una bilancia commerciale negativa verso la Cina. Al momento gli USA hanno una bilancia dei pagamenti in deficit, data questa condizione e quest’ottica di breve termine risulta per loro “conveniente” avere un dollaro forte. D’altra parte nel lungo periodo questo favorirà i cinesi, che in pratica lavorando per gli americani fanno crescere il loro PIL, importano lentamente know how e conoscenze e si preparano a sostituirli come potenza mondiale nel futuro. Solitamente si afferma che avere una valuta deprezzata è meglio, ma il mio articolo vuole appunto combattere le banalizzazioni e mostrare tutti i lati del problema. Il fatto che il deprezzamento aiuti la bilancia commerciale è un tema non banale: da un lato si spera che nel futuro alzi l’export e abbassi l’import, dall’altro rende già oggi più costoso l’import. Se le esportazioni nette non crescono a sufficienza (e non è detto lo facciano sempre) deprezzare peggiora la bilancia dei pagamenti anche nel lungo termine. La condizione per cui l’export netto deve aumentare a sufficienza è detta condizione di Marshall-Lerner. D’altra parte gli aggiustamenti sulle quantità di import ed export non sono istantanei mentre invece l’aggiustamento dei prezzi al cambio nominale si. Per questo nel breve periodo si nota addirittura il cosiddetto effetto J per cui deprezzare una valuta peggiora la bilancia dei pagamenti. Come fa un americano a comprare beni cinesi se nessun cinese compra da lui in cambio beni americani? L’acquisto avviene a debito, e infatti la Cina è il più grande detentore di riserve in dollari, vale a dire di debito pubblico americano. Il fatto che la Cina guadagni credito in dollari verso gli USA vuole dire che agli americani sono necessari i cinesi (nel senso che importano i loro prodotti) e che sono loro debitori.
Gli USA non sono avvantaggiati solamente per il loro posizionamento nella catena del valore. Il PIL misura la quantità di ricchezza prodotta anno per anno e non registra la quantità di ricchezza storicamente accumulata. Gli USA hanno un PIL elevato da più tempo della Cina e questo ha permesso loro di accumulare una quantità di risorse enorme: le infrastrutture ed i macchinari dell’esercito USA sono ad esempio sensibilmente migliori di quelli cinesi e anche producendo più degli USA alla Cina occorreranno anni per tentare di colmare questo divario, che non è solo di capitale fisico ma anche di capitale reputazionale. Come accennato sopra il dollaro è valuta di riserva mondiale, ovvero è utilizzato per conservare valore negli scambi internazionali dalla maggioranza dei paesi del mondo. Tale circostanza fa sì che la domanda di dollari sia sempre forte, contribuendo alla forza della valuta USA e permettendo agli Stati Uniti di operare in deficit senza in sostanza soffrire serie ripercussioni. Al contrario un paese in via di sviluppo non può affatto permettersi questo lusso: per questo motivo le crisi valutarie dei paesi emergenti sono frequenti e provocano danni gravi. Inoltre, anche ammettendo che il totale del PIL reale misuri la effettiva potenza di uno stato, è meglio essere povero in uno stato potente oppure benestante in uno stato più debole? Dividendo i PIL USA e cinese per il rispettivo numero di abitanti si ottengono i due PIL pro capite e l’americano risulta nettamente superiore. Questo vuole dire che i cinesi sono più poveri e che le possibilità di ogni cinese sono inferiori rispetto a quelle dei cittadini USA.
Il confronto USA-Cina è molto complesso e merita un’analisi delle possibili prospettive future. Al momento la Cina cresce molto più velocemente degli USA. Come notato in precedenza il PIL pro capite americano è molto più alto di quello cinese, il che fa supporre che negli Stati Uniti avanzino molte più risorse da destinare non ai consumi individuali bensì agli investimenti: invece è il contrario. I cinesi sono più poveri ma nonostante questo fanno sacrifici per destinare più risorse agli investimenti superando nella capacità di risparmiare anche i ricchi americani. Gli investimenti negli USA ammontano all’incirca al 20%1 del PIL mentre quelli in Cina al 40%2. Come spiegato sopra i commerci internazionali evidenziano una bilancia commerciale molto negativa degli USA nei confronti della Cina, il che suggerisce come da un certo punto di vista gli USA si stiano adagiando su una situazione di supremazia facendo ora lavorare al loro posto i cinesi che al contrario stanno stringendo i denti per tentare un sorpasso futuro. Non esiste un unico numero o cifra di crescita di PIL in grado di rappresentare la complessità di questa situazione.
La comparazione USA-Cina di cui sopra invita a riflettere su alcune tematiche economiche. La sfida attuale della Cina non è tanto aumentare il proprio PIL in termini quantitativi quanto invece in termini di qualità della produzione. Produrre ancora più tessile a basso costo non porterà la Cina da nessuna parte, la vera sfida per la Cina è quella di affermarsi nei commerci internazionali con prodotti ad alto valore aggiunto. In questo senso gli investimenti saranno fondamentali per la crescita qualitativa dell’economia cinese e questo porta ad interrogarsi sull’importanza relativa degli investimenti rispetto ai consumi. È un valore avere un’economia dagli alti investimenti e dai bassi consumi? Il PIL oltre che numericamente può anche essere pesato qualitativamente? Ad oggi le industrie del settore farmaceutico non investono solo sulla ricerca contro il cancro o l’Alzhaimer, che anzi è poco redditizia, ma spendono risorse finanziarie ed intellettuali enormi nella ricerca di farmaci dal ritorno più alto come ad esempio creme per la pelle o cosmetici in genere. È recente la notizia che Pfizer ha deciso di dismettere le sue attività di ricerca su Alzhaimer e Parkinson, pur mantenendo le attività di sviluppo di farmaci già commerciabili per ridurre sintomi nervosi3. La ricerca di base, quella riguardante tecnologie davvero nuove e non solo applicazioni commerciabili, è costosa nel breve e medio termine e non offre ritorni economici, per questo difficilmente viene intrapresa dai privati ed è invece spesso sostenuta principalmente dallo Stato, così come spiega Mariana Mazzucato nel suo lavoro Lo Stato innovatore. Similmente la quota di PIL che va ad alimentare il giro d’affari dei SUV e delle auto di lusso è molto significativa rispetto a quella del peso della ricerca scientifica e dell’università: è davvero meglio spendere le energie della società per produrre beni di lusso invece che ricerca e salute? È desiderabile un intervento dello Stato che alteri l’andamento del libero mercato in vista di altri fini? Le ultime affermazioni non vogliono intendere che bisognerebbe vietare le creme per la pelle o i SUV ma che potrebbe essere un tema interessante quello di riconsiderare le priorità in termini economici di una nazione.
Il passo successivo a mettere in discussione la composizione qualitativa del PIL è quello di mettere in discussione il PIL in se stesso come obiettivo e valore finale. Consideriamo ad esempio la recente riforma dell’articolo 18: il dibattito politico si è diviso tra chi ne sosteneva la convenienza in termini economici e chi al contrario affermava che il beneficio economico non si sarebbe verificato o che fosse trascurabile. L’articolo 18 esisteva per garantire un regime di lavoro più stabile e protetto; rendere il lavoro più sicuro permette di fare affidamento sul proprio reddito per esempio consentendo più facilmente di stabilirsi ed avere una famiglia o comunque per programmare la propria vita con più agio. Nel dibattito riguardo l’articolo 18 non si è sentita nessuna voce che abbia sostenuto che questo costituiva una perdita netta in termini di PIL ma che tale costo economico valesse comunque la pena di essere sostenuto al fine di avere una vita più stabile e felice. Scopo di questa riflessione non è entrare nel merito del dibattito e di sostenere che abolire l’articolo 18 sia stata una buona o una cattiva scelta: ciò che è interessante notare è invece come nel dibattito pubblico sia mancata una voce come quella di cui sopra. Simili argomentazioni potrebbero riproporsi per il fenomeno del precariato, ed in particolare con riferimento ai contratti di stage e a tempo determinato.
Non si può mangiare o bere il denaro. Il denaro permette a chi ne dispone di perseguire altri scopi e di conseguenza l’economia dovrebbe essere un mezzo e non un fine. Questa idea è sostenuta in un saggio di John Maynard Keynes, uno dei maggiori economisti del XX secolo, Possibilità economiche per i nostri nipoti4. In questo saggio Keynes immagina che per i suoi nipoti il problema economico non avrà più senso perché esisterà una tale abbondanza di beni che tutti potranno averne a volontà. Il giorno in cui ciò succedesse diverrebbe evidente che il lavoro è solamente un mezzo di sostentamento ma che il fine della vita è invece diverso ed è una scelta individuale che ognuno di noi dovrebbe poter prendere liberamente. Il concetto che la soddisfazione sia da cercare unicamente nel lavoro è discutibile: lavorare può essere soddisfacente fino ad una certa soglia, ma davvero l’allocazione ottimale del nostro tempo è lavorare almeno 40 ore la settimana? Se non fossimo obbligati a lavorare 8 ore al giorno, davvero staremmo lo stesso in ufficio 8 ore? Considerato il progresso tecnologico e l’avanzamento della scienza e della tecnica, il fatto che la nostra generazione lavori come quella dei nostri nonni o dei nostri padri porta ad interrogarsi sulle priorità della nostra società. Il lavoro di Keynes si conclude sostenendo:
«Ma, soprattutto, guardiamoci dal sopravvalutare l’importanza del problema economico o di sacrificare alle sue attuali necessità altre questioni di maggiore e più duratura importanza. Dovrebbe essere un problema da specialisti, come la cura dei denti. Se gli economisti riuscissero a farsi considerare gente umile, di competenza specifica, sui piano del dentisti, sarebbe meraviglioso».
È vero che nella società moderna la felicità è direttamente correlata al proprio reddito? Chiaramente non esiste una risposta assoluta a questo quesito ma vorrei riportare alcune considerazioni5. Nel formulare le loro analisi gli autori si basano sulla World Values Survey per dati sui paesi del mondo in genere, e sulla General Social Survey per i dati riguardanti gli USA: queste indagini statistiche si basano su interviste a campioni di popolazione significativi in cui, tra le altre domande, viene richiesto all’intervistato quanto questo si ritenga felice. Nei vari paesi del mondo la felicità sembra essere positivamente correlata al reddito solamente fino ad un certo livello, a dire il vero abbastanza basso e al di sotto di quello del gruppo dei paesi sviluppati. In altre parole, mentre per livelli di reddito basso effettivamente la felicità della popolazione di un paese aumenta all’aumentare del reddito, al contrario per i paesi ricchi la porzione di cittadini che si dichiara felice non aumenta insieme al reddito ma rimane costante. Negli USA inoltre la percentuale di popolazione americana che si dichiara felice tra il 1975 ed il 1996 non è variata mentre invece il reddito pro capite è aumentato considerevolmente. Quello che varia invece è la distribuzione della felicità tra la porzione di cittadini con reddito più elevato e quelli con reddito meno elevato, ovvero in altre parole le persone ricche sono felici perché sono più ricche della media e non perché questa ricchezza gli dia alcun benessere “reale”. Al contrario chi si vede in comparazione più povero si dichiara infelice. Per questo motivo forse si lavora di più nei paesi in cui la disuguaglianza è maggiore (vale a dire con coefficiente di Gini più alto), un tema già affrontato in un precedente articolo di Pandora.
Il primo caso affrontato, il confronto tra USA e Cina, mostra che il PIL in sé è un concetto riduttivo e che la realtà è più complessa di un semplice numero. Le argomentazioni utilizzate per questo primo esempio si inseriscono all’interno della cornice del pensiero economico secondo modalità e schemi tradizionali e sono facilmente condivisibile da chiunque. Da questo primo esempio ci si è poi mossi progressivamente al di fuori del contesto tradizionale per rilevare che esistono modelli e schemi anche molto diversi e non basati sul solo concetto di economicità. Lo scopo di tutto ciò è mostrare non solo che un’analisi economica tradizionale può essere complessa, ma che non è nemmeno l’unica possibile e che esistono logiche basate su valori completamente diversi ed alternativi ma non per questo “sbagliati”.
Sostenere che le logiche tradizionali sono completamente errate e che invece sono corrette solamente quelle alternative o magari solo una di queste non è tuttavia lo scopo dell’articolo e sarebbe ugualmente riduttivo e limitante ad aderire perfettamente a schemi tradizionali. Spezzo volentieri una lancia a favore del concetto di PIL: il PIL è una quantità numerica rilevante e rappresenta il flusso di ricchezza di una nazione. L’economia non è lo scopo ma il mezzo, d’altra parte anche il mezzo ha una sua dignità ed esserne sprovvisti è una situazione deprecabile. Discutere come redistribuire la ricchezza o se diminuire le ore di lavoro o aumentare la qualità della vita presuppone avere un flusso di reddito sufficiente a spesare questi costi e tale flusso è il PIL, che quindi è un presupposto fondamentale. Da un medesimo presupposto si possono tuttavia avere molteplici sviluppi.
Gli sviluppi che si stanno avendo in questi anni sono forse sbilanciati dal lato del pensiero economico tradizionale. L’economia viene valutata come il bene ultimo a cui tendere e difficilmente vengono svolte altre valutazioni nel dibattito politico diverse dall’effetto sul PIL. Questo ha comportato la caduta delle cosiddette ideologie, sia la destra che la sinistra sono uscite dal dibattito a livello politico: parlare di lotta di classe è ritenuto obsoleto anche se la disuguaglianza aumenta. Così come è obsoleto parlare di patria e valori tradizionali. I valori tipici del dibattito politico di qualche decennio fa sono stati sostituiti da quello dell’economicità, rappresentato dalle aziende e soprattutto dalle multinazionali. È giusto abolire l’articolo 18 perché aiuta le aziende, è giusto mettere in discussione le 35 ore in Francia perché aiuta le aziende, è giusto abbassare le tasse alle aziende negli USA (perché aiuta le aziende…). Il contesto generale di crisi e l’alta disoccupazione si possono forse curare con queste misure, ma potrebbe essere il caso di prendere in considerazione anche una diversa redistribuzione della ricchezza creata che, secondo gli ultimi dati del recente Rapporto Oxfam, è redistribuita in maniera fortemente diseguale. Valori diversi vengono esclusi dal dibattito politico e non trovando altro sfogo vanno ad alimentare partiti populisti senza programmi politici precisi se non quello di essere “contro”. In conclusione è auspicabile che il dibattito politico torni a considerare le persone come il principale centro di interesse, perché solo così potrà recuperare quella dignità e quella credibilità che sole incoraggiano la partecipazione e il voto delle persone stesse.
2 https://www.quandl.com/data/ODA/CHN_NID_NGDP-China-Total-Investment-of-GDP
3 https://www.nbcconnecticut.com/news/local/Pfizer-Ending-Alzheimers-and-Parkinsons-Research-Cutting-300-Jobs-468339773.html
4Testo di facile e breve lettura, si può trovare online open source a http://www.econ.yale.edu/smith/econ116a/keynes1.pdf
5 Olivier Blanchard, Alessia Amighini, Francesco Giavazzi, Macroeconomia: Una Prospettiva Europea.