Scritto da Andrea Baldazzini, Daniele Vico
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Una grande questione che di anno in anno si ripresenta con sempre maggiore urgenza è quella relativa ai rapporti e confini tra la dimensione del “sociale” e la dimensione dell’economia. La stessa crisi causata dalla pandemia da Covid-19 ha riproposto la necessità di riflettere sulla sperimentazione di forme alternative di creazione del valore, economico ma anche relazionale, culturale, istituzionale e ambientale, riproponendo anche il dibattito sull’oramai inadeguato modello e concezione di sviluppo ancora perseguito dalla maggior parte dei Paesi. Eppure, se si guarda con maggiore attenzione ai territori, sarà facile osservare esperienze che da tempo sono impegnate nella costruzione di un sistema socio-economico molto differente da quello egemone. Esperienze che tentano di trovare nuove convergenze, alleanze, equilibri tra il sociale e l’economico, lavorando anche sulla costruzione di una nuova coscienza politica e sulla possibilità concreta di legare la creazione del valore ad una risposta dei bisogni e delle aspirazioni delle persone, piuttosto che a logiche prettamente economiciste, proponendo così anche un rinnovato rapporto tra collettività e territorio. Volendo trovare una categoria che raccolga tutte queste esperienze, la più adatta è probabilmente quella di Economia Sociale e Solidale, nella quale si riconoscono persone ed organizzazioni in tutto il mondo. Confini così ampi raccolgono però realtà molto eterogenee al proprio interno, con grandi differenze da paese a paese in termini di riconoscimento, legislazione e partecipazioni a tali esperienze. Abbiamo deciso di intervistare Jean Fabre, esperto internazionale di ESS, con l’obiettivo di fare un po’ di chiarezza su cosa rappresenti a livello internazionale l’Economia Sociale e Solidale e per rompere con il tradizionale dibattito italiano su questo tema, il cui sguardo fatica a oltrepassare i confini nazionali. L’intervista è stata suddivisa in cinque “capitoli”.
Jean Fabre (Parigi, 1947), francese e svizzero, è un ex funzionario di alto livello delle Nazioni Unite ed esperto internazionale di Economia Sociale e Solidale. Laureato in fisica, è stato obiettore di coscienza e attivista di lunga data, impegnato in Francia e in Europa nelle battaglie per i diritti civili, contro il nucleare e contro la povertà e la fame nel mondo. É stato Segretario Internazionale del Movimento Internazionale di Riconciliazione (MIR) e, per un anno, anche Segretario del Partito Radicale italiano (1978-79). Funzionario e poi Vice Direttore, per un decennio (1998-2008), del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP) a Ginevra, ha contribuito alla promozione dell’Indice di Sviluppo Umano (HDI) e alla stesura e implementazione degli Obiettivi del Millennio per lo Sviluppo. Esperto di Economia Sociale e Solidale, è attualmente membro del comitato scientifico del Forum Internazionale per l’ESS (ESSFI) e consigliere della Task Force Inter-Agenzia delle Nazioni Unite sull’Economia Sociale e Solidale (UNTFSSE).
Le origini dell’Economia Sociale e Solidale
“Economia sociale”, “economia solidale”, “non-profit”, “terzo settore”… sono svariati i termini che sono stati proposti negli anni per descrivere, con sfumature e definizioni diverse, i fenomeni inquadrati anche dalla cosiddetta “Economia Sociale e Solidale”. In Italia vi è inoltre la tendenza a ridurre l’ESS a quello che comunemente viene definito “Terzo Settore”. Ma che cos’è, esattamente, l’Economia Sociale e Solidale? Quali tipologie di organizzazione ne fanno parte?
Jean Fabre: Innanzitutto, bisogna chiarire un malinteso molto comune in merito a questo tema. Quando viene usato il termine “Economia Sociale e Solidale” (d’ora in poi ESS), spesso la si vuole intendere come una forma di strutturazione complessiva della società, una sorta di modello generale in sé omogeneo e ben definito, ma così non è. In realtà quando si parla di ESS si fa riferimento più che altro a una costellazione di organizzazioni e di imprese che hanno caratteristiche molto specifiche e differenti tra loro. Le tipologie principali sono: cooperative, organizzazioni mutualistiche, associazioni, fondazioni, imprese sociali e tutta una serie di imprese senza scopo di lucro che producono beni e servizi senza perseguire in maniera primaria fini economici, dando invece priorità a finalità di carattere sociale attraverso la promozione di attività solidaristiche. Alcune di queste organizzazioni possono essere totalmente prive di finalità economiche, per esempio le associazioni o club sportivi. Al contrario, altre realtà si definiscono come imprese di mercato, e lo sono, anche se non seguono le stesse logiche tipiche delle imprese for profit classiche.
Le imprese dell’ESS si distinguono infatti principalmente per due caratteristiche: una gestione democratica e una coscienza sociale. Uso volutamente il termine ‘coscienza’ sia perché anche se sono inserite a tutti gli effetti in un circuito di mercato, esse realizzano il proprio business in maniera differente; sia perché non vedono il cliente in quanto mero mezzo per il guadagno, ma in primis come una persona (o un’impresa, o un gruppo) che ha dei bisogni verso i quali è doveroso adoperarsi per trovare una risposta. Inoltre queste imprese non cercano di distribuire dei dividendi tra gli azionisti, ma si sforzano di reinvestire il profitto ottenuto in servizi per i lavoratori e soci, oppure in progetti destinati alle comunità locali sia sul proprio territorio di riferimento sia in altri Paesi. Si può affermare dunque che l’essenza della filosofia di queste organizzazioni è: maggiore sensibilità verso il benessere dei propri dipendenti, che si traduce in una concreta attenzione alle differenze salariali, nonché la condivisione della gestione manageriale dell’impresa secondo il principio di una maggiore orizzontalità, e la consapevolezza dell’importanza del rapporto con la comunità in cui solitamente operano.
Quando e come è nato il concetto di Economia Sociale e Solidale? Quali sono le principali concezioni a livello globale?
Jean Fabre: Noi parliamo dell’ESS guardando solamente a come è venuta a configurarsi oggi, mentre ha origini piuttosto lontane e sparse a livello geografico, poiché riguarda in primo luogo un modo di intendere la creazione del valore, economico, ma non solo, anche relazionale, culturale e ambientale. Adottando per un momento uno sguardo di carattere più antropologico, e fuoriuscendo dai dibattiti prettamente accademici, si possono rintracciare diverse concezioni di ESS, che condividono però il presupposto secondo il quale parlare di ESS significhi parlare di “come-facciamo-società”, ovvero di quali criteri utilizziamo per stabilire la creazione e scambio dei beni, e quale rapporto vi è tra questi e i bisogni delle persone di quella comunità.
Guardando brevemente al contesto occidentale, il caso che solitamente viene citato a proposito delle prime esperienze di ESS è quello della Rochdale Society of Equitable Pioneers, in Inghilterra, storicamente ritenuto il primo esempio di cooperativismo in epoca moderna. È importante sottolineare che l’esperienza nacque come risposta ad una crisi che interessò in maniera diffusa il tessuto socio-economico dell’epoca e si sviluppò grazie al lavoro di un’intera, piccola, collettività. Essa nacque nel 1844 dalla volontà di un gruppo di operai tessili che persero il lavoro per via delle trasformazioni del sistema produttivo inglese avvenute durante la Rivoluzione Industriale. Così decisero di riunirsi e si chiesero: «cosa facciamo?». Potevano andare a chiedere la carità dello Stato, anche se non c’era ancora il Welfare State, ma solo qualche forma di assistenza per chi versava in totale indigenza. Invece si dissero «noi abbiamo la nostra dignità», e così crearono un progetto che arrivò a coinvolgere ventotto persone, le quali scelsero di condividere i pochissimi soldi a disposizione e quel poco che avevano, arrivando piano piano a costituire una vera e propria cooperativa dedicata al commercio di alimenti. All’inizio cominciarono in piccolo, facendo molto affidamento sulla solidarietà reciproca: vendevano burro, farina, zucchero, candele e altre cose di questo genere, ma lavoravano molto bene, ed è stato lo spirito con cui hanno condotto la loro attività che ha fatto la differenza. Successivamente aggiunsero la vendita anche di tè e tabacco, divenendo molto conosciuti per la qualità dei loro prodotti, il che li portò in poco tempo a crescere notevolmente. Conclusa la fase di avvio della cooperativa, si impegnarono poi a definire alcuni principi che dovevano fungere da cardine delle loro attività, auto-organizzandosi e sperimentando un modo di fare impresa totalmente nuovo. Quel loro ritrovarsi inizialmente in una condizione di grande bisogno, il dover affrontare le difficoltà causate dalla perdita del lavoro e vivere in un’Inghilterra che stava attraversando un momento di profonda trasformazione per via della Rivoluzione Industriale, li portò a riscoprire l’importanza dell’essere solidali gli uni con gli altri, non solo rispetto a questioni di natura privata, ma anche e soprattutto nel lavoro. Una lezione che oggi andrebbe riscoperta alla luce della situazione che stiamo vivendo e che ci troveremo a vivere nei prossimi mesi, a seguito dello scoppio della pandemia da Covid-19. A Rochdale hanno poi costruito anche le case seguendo lo stesso principio della collaborazione reciproca, inoltre era prassi che se qualcuno della comunità rimaneva senza lavoro, chi poteva lo prendeva con sé a lavorare nella propria attività.
L’esempio di Rochdale funzionò talmente bene che venne replicato in tutto il Paese facendo contare, cinquant’anni dopo, intorno al 1900, più di 1.400 cooperative in Inghilterra. Da non dimenticare poi che sono state proprio esperienze del genere che hanno contribuito enormemente alla nascita di quelle che sarebbero diventate le mutue assistenze o le primissime forme di assicurazioni mediche mutualistiche. Certo, non sono riusciti a imporsi sul sistema economico tradizionale, però hanno innescato un processo di contaminazione che nei due secoli seguenti avrebbe dato vita a realtà sempre più organizzate, diffuse e in grado di incidere notevolmente sull’aumento della qualità di vita delle collettività locali proponendo un modo diverso di “fare economia” e dunque di “fare società”.
Qualcosa di simile è accaduto anche in Francia. Come mai essa è diventata la sesta potenza economica al mondo? Le ragioni sono certamente molteplici. Un fenomeno però che mi ha sempre colpito, e che in parte può rispondere alla domanda, riguarda i processi di auto-organizzazione sul modello cooperativo dei contadini francesi nel XIX secolo. Quando cominciarono ad essere prodotte nuove macchine agricole altamente avanzate dal punto di vista meccanico per l’epoca, capaci di rivoluzionare il lavoro nei campi, nessun contadino era in grado singolarmente di acquistarne una. Così cominciò a diffondersi la pratica di unirsi in gruppi di sei o sette contadini per comprare le attrezzature più all’avanguardia. Ciò spinse poi gradualmente a condividere non solo i nuovi macchinari ma il lavoro stesso nei rispettivi terreni. Prima la condivisione dei mezzi, poi l’aiuto reciproco nella lavorazione della terra, li portò a creare piccoli punti vendita comuni dove vendevano insieme i propri prodotti, si dividevano i guadagni, e parte dei ricavi erano reinvestiti nello sviluppo di quella che finiva per diventare un’attività economica condivisa in forma cooperativa.
Principi simili sono stati alla base anche di un’altra pratica molto interessante relativa al tema delle forme di finanziamento: come si poteva rispondere al bisogno di denaro senza possedere i requisiti o le garanzie per usufruire dei servizi delle banche? Da qui venne l’idea di creare una nuova banca, e così nacque il Credit Agricole, oggi tra i più grandi gruppi bancari del settore, creatosi in maniera sperimentale come risposta al bisogno di credito dei contadini francesi che avevano compreso molto bene le potenzialità derivate tanto dall’aggregazione dei bisogni quanto dell’aggregazione delle risorse.
In altri casi invece, esperienze di questo genere sono nate sulla scia di un credo religioso. Io vivo a Ginevra, e qui in Svizzera c’è un’impresa che si chiama Migros, probabilmente sconosciuta in Italia, ma è un’azienda simile a La Rinascente, che vende di tutto, dai prodotti alimentari ai vestiti etc. ed è una cooperativa di distribuzione. Com’è nata la Migros? Il fondatore si chiamava Gottlieb Duttweiler, era una persona dotata di una precisa visione della vita e della società dettata dalla sua forte fede cristiana. Come tale pensava che non si potesse condurre il commercio e l’economia riducendolo ad un mero rapporto di forza tra produttore, venditore e cliente, dove il produttore cerca di spremere al massimo il cliente dandogli in cambio un servizio minimo accettabile. Duttweiler riteneva invece che bisognasse mettersi al servizio della gente, perché era questo che insegnava il Vangelo. Pertanto, seguendo una tale concezione ha costruito la sua rete di distribuzione, che prese avvio mi pare verso il 1950. Settant’anni dopo, alla Migros si seguono ancora le stesse regole. Tu non ci trovi alcol o tabacco, i prodotti venduti devono rispecchiare una certa etica e si devono seguire determinati principi etici nel rapporto con i clienti. I riferimenti alla dimensione spirituale che hanno guidato il fondatore e caratterizzato la sua impresa, si trovano ancora oggi scritti nero su bianco all’interno dello statuto della Migros. Ad esempio, tra gli obiettivi espliciti della cooperativa vi è la crescita degli impiegati sia sotto il profilo professionale che morale. Poi, nei fatti non so bene come ciò venga portato avanti e se sono previsti percorsi strutturati in merito, trovo però interessante che un tale approccio al fare impresa, che ha permesso la creazione di una florida attività imprenditoriale, sia rimasto e caratterizzi l’attività imprenditoriale in un contesto di mercato nel quale principi di questo genere sembrano non soltanto anacronistici, ma del tutto fuori luogo. La Migros ha creato anche una banca. Ma vi era già in Svizzera una banca di stampo cooperativo: le banche Raiffeisen, la prima delle quali è stata creata nel 1846 in uno spirito di aiuto mutuo. Raffaisen è oggi il terzo gruppo bancario svizzero. Questo ci fa capire che, volendolo, ci sono forme e modi per produrre valore in modo diverso da quello basato sulla mera competizione tra esseri umani e sulla logica del prezzo più basso.
Hai parlato di una “pluralità di nascite” dell’Economia Sociale e Solidale, differenti nel tempo e nello spazio. Cosa troviamo se andiamo a vedere al di fuori del contesto europeo?
Jean Fabre: Esattamente! Come ho detto in precedenza, è possibile rintracciare diversi momenti e luoghi di nascita di esperienze che hanno dato origine alle diverse declinazioni e strutturazioni di ESS che si danno oggi nelle varie regioni del mondo. In America Latina, per esempio, dove ho viaggiato a lungo, si possono invece individuare varie concezioni di ESS, le quali hanno però dovuto tutte scontrarsi con le invasioni dell’ideologia tipica dell’economia liberista, e uso la parola ideologia nonostante essa assomigli più ad una teologia: si finisce per credere che meno regole ci sono, meglio la società si organizza e più è efficace. Questa invece non è affatto una legge o un dato di fatto, ma solo una tra le tanti possibili declinazioni di un modo di intendere il rapporto tra lavoro e persone, tra denaro e persone, assolutamente non tipico del continente sudamericano se si guarda alla sua storia nel lungo periodo. In diversi posti dell’America Latina, c’è infatti quella che chiamano economia popular. Molto spesso il concetto di Economia Sociale, o di Economia Solidale, qui lo si chiama Economia Popolare, o a volte Economia Popolare di Solidarietà. È ovviamente un po’ ambiguo come termine, il motivo è che raccoglie gran parte della cosiddetta economia informale, nonostante non tutta l’economia informale abbia le stesse caratteristiche dell’ESS.
Penso in particolare all’Ecuador, dove Rafael Correa, in qualità di presidente, ha istituito leggi per favorire questo tipo di economia che, come l’ESS, ha al centro lo sforzo verso la creazione di risposte concrete ai bisogni delle persone. L’Ecuador è uno dei pochi paesi dell’America Latina dove è stato sviluppato un quadro normativo a livello statale volto a favorire la crescita di questo tipo di esperienza economica. In altri posti ci sono le tradizioni indigene, ad esempio in Bolivia o in Perù dove, nelle zone andine, vi sono diverse comunità che basano la propria sussistenza su forme molto strette di collaborazione e mutualismo. Io ho vissuto in prima persona dei momenti di vita favolosi in questi luoghi, in mezzo a comunità indigene strutturate secondo principi di uguaglianza totale, nelle quali se tu hai un problema la gente fa sentire in maniera forte la sua vicinanza, e per quanto possibile ti aiuta. Un aspetto, quello della “presenza”, del sentire di non essere soli, che in Europa fatico molto a ritrovare. Tradizioni simili ci sono anche in altri paesi quali il Costa Rica, l’Uruguay e un poco in Paraguay. Poi vi è il Brasile, con il “movimento dei contadini senza terra” che ha sviluppato delle forme di economia le quali, analizzandole oggi a posteriori, si possono tranquillamente inserire nell’ESS. Osservando però tali esperienze con uno sguardo d’insieme, emerge che ciascuna è nata in maniera autonoma, senza una regia o una qualche forma di organizzazione sovranazionale, ma a partire dalle specificità dei bisogni e delle risorse del contesto locale.
Negli Stati Uniti la situazione è ulteriormente diversa. Lì a predominare è il sistema economico capitalista che conosciamo bene, anche se non bisogna dimenticare che proprio negli Stati Uniti, grazie ovviamente ad una popolazione di operai numerosa, vi è da sempre un movimento sindacale molto forte che fa sentire la sua voce. Ciò ha contribuito in maniera considerevole alla nascita sia del concetto di Terzo Settore (in pochi ricordano la natura statunitense di questo termine, NDR[1]), sia di Quarto Settore – che è un po’ la traduzione rinnovata di quello che personalmente chiamo i Clinton Boys, ovvero coloro che seguivano la squadra di Bill Clinton quando si parlava molto di responsabilità sociale e ambientale delle imprese. Costoro si sono interrogati a lungo su concetti come quelli appena accennati, alla luce soprattutto della presunta capacità del mondo imprenditoriale di riparare ai “danni collaterali” del mercato – si pensi poi al concetto di filantropia, anch’esso di matrice prettamente americana.
Per riassumere questa prima risposta potremmo perciò affermare che gli aspetti principali da tenere in considerazione quando vogliamo parlare di ESS sono: da un lato la natura molteplice, dal punto di vista sia delle finalità che delle formalizzazioni giuridiche delle organizzazioni (cooperative, fondazioni, mutue assicurazioni, associazioni, etc.), dall’altro le configurazioni che le loro attività acquisiscono a seconda dei contesti locali e dei momenti storici in cui si trovano a svilupparsi. Dall’insieme di queste considerazioni penso che risulti più chiaro il perché sia pressoché impossibile concepire l’ESS come un modello strutturato e omogeneo, mentre invece risulti più simile ad un caleidoscopio dalle innumerevoli sfaccettature e articolazioni, un insieme, insomma, altamente variegato di forme organizzative e attività, nonostante le realtà che ne fanno parte presentano tratti comuni, soprattutto per quanto riguarda le finalità del loro agire.
L’Economia Sociale e Solidale come modello alternativo
Nella prima parte della nostra intervista ci hai raccontato quali sono le origini dell’Economia Sociale e Solidale. Ora vorremmo approfondire alcune questioni relative alle più note teorie che hanno cercato di descriverla. Una parte della teoria economica che si occupa dell’Economia Sociale e Solidale si basa sul principio secondo cui essa interviene efficacemente dove lo Stato e/o il Mercato falliscono. Nello specifico, dove lo Stato non riesce a intervenire per offrire servizi e welfare, le organizzazioni dell’ESS hanno la capacità di ambire a colmare tale vuoto, offrendo quei servizi. Allo stesso modo, dove il Mercato non riesce a operare (perché non profittevole o non economicamente sostenibile), le organizzazioni dell’ESS possono supplire a questo vuoto offrendo non solo nuova occupazione, ma mettendo in campo diversi modi di creazione e condivisione del valore, economico e non solo, prodotto. Questa concezione di “settore ancillare” rispetto a Stato e mercato sembra inoltre sottintendere che, dove quest’ultimi funzionano correttamente, non ci sia necessità di parlare di ESS. Ma è davvero così? L’ESS può svolgere solo un ruolo complementare e gregario, oppure ha un potenziale maggiore?
Jean Fabre: Penso che troppo spesso anteponiamo l’analisi ai fatti, quando si dovrebbe procedere al contrario, dovremmo prima osservare. È certamente vero che una parte assai grande dell’ESS è nata come risposta a delle carenze sia del Mercato che dello Stato. Alcuni dei casi che ho citato nella prima parte dell’intervista lo dimostrano. Però, molte volte, l’ESS per come la definiamo oggi non è nata in questo modo. La Migros ad esempio era, secondo il fondatore, l’espressione giusta e normale di fare impresa e di essere imprenditore, la risposta cioè a una necessità, frutto di una precisa visione del mondo. Altri casi invece mostrano che nei paesi occidentali i primi passi dell’ESS sono stati mossi quando il welfare state era ancora lontano da venire. Nell’Inghilterra del XIX secolo citata prima, ad esempio, mancava un sistema centralizzato e strutturato per la protezione sociale.
Quindi in parte sì, l’ESS può dirsi nata in quanto reazione a una situazione che presentava la mancanza di risposte da parte del soggetto pubblico o di altri soggetti privati a bisogni importanti, ma non è stata concepita in qualità di semplice realtà compensativa, secondaria e subordinata. È nata perché un gruppo di persone, come i Pionieri di Rochdale, hanno detto «a me non va bene vivere di assistenza. Ho una mia dignità, ho una mia concezione del vivere bene» e hanno cominciato a collaborare insieme scoprendo il valore e l’utilità della solidarietà, anche e soprattutto nel lavoro. Se l’ESS fosse nata solamente per compensare le mancanze di altri soggetti sociali, sarebbe un semplice cerotto sulla piaga e avrebbe unicamente la funzione di evitare eccessivi scompensi, favorendo il mantenimento del modello di economia dominante che ha come unico interesse l’accumulo e la continua riproduzione del capitale, non il benessere e la felicità delle persone. L’ESS muove invece da un altro punto di vista.
Mentre vi parlo sto pensando a una mia amica, Aminata Traoré. Aminata era a capo dell’UNIFEM, il fondo per le donne dell’ONU, poi è diventata ministra della cultura in Mali. È una persona da sempre realmente impegnata per il miglioramento della sua comunità, e se ti capita di visitare la città di Bamako, vedrai cosa ha realizzato e contribuito a far crescere. In certi quartieri non c’erano neanche i marciapiedi, né la strada asfaltata o il sistema fognario. L’amministrazione cittadina spesso non aveva (e non ha) tanti mezzi, la metà del bilancio è usata per la raccolta dei rifiuti. Allora lei cosa ha fatto? Ha radunato la gente di un quartiere e ha iniziato a riflettere con loro: «cosa facciamo? Che cosa abbiamo noi? Delle competenze e un po’ di tempo». Così si sono rimboccati le maniche e cominciano a costruire le strade, le fogne e i marciapiedi. In Camerun, con la mia amica Pauline Effa, sempre con la logica della collaborazione e solidarietà reciproca tra cittadini e amministrazione, hanno costruito chilometri di strade, poiché sanno che solo unendo le forze potranno ottenere un risultato, una strada ad esempio, che serve a tutti. In questi contesti lo Stato lo creano loro, attraverso processi realmente partecipativi, e senza dover ricorrere a forme estreme di dissenso o rivendicazione.
Se limitiamo il nostro sguardo alle realtà che nascono in Europa, rischiamo di avere un’immagine dell’ESS troppo povera rispetto alla ricchezza di esperienze che essa raccoglie in tutto il mondo. Per questo voglio sottolineare che forse sarebbe meglio far seguire il momento dell’analisi a quello dell’osservazione e dell’ascolto, non viceversa, cercando di catalogare le esperienze a partire da categorie costruite a posteriori e non sulla base di uno sguardo ristretto alla nostra realtà europea. Un punto di vista più ampio mostra infatti molto bene come, tra le principali domande che motivano l’azione dei diversi progetti a cui ho accennato, resti sempre quella relativa a come poter offrire un’alternativa rispetto alle logiche del sistema economico dominante, e come poter legare questo cambiamento alle esigenze reali delle persone che vivono in territori dove vi sono sia bisogni che risorse differenti. Ecco allora che l’ESS si configura in primo luogo come un modo differente di guardare al mondo, al modo di stare insieme delle collettività, alle possibilità che ciascuno ha di contribuire a cambiare il contesto in cui vive. Rispetto a ciò, la cosa per me più affascinante è che l’ESS riesce a tradurre i principi teorici di cui si nutre in prassi concrete, in esempi reali, i quali risultano sempre più incisivi e convincenti di qualunque discorso accademico.
Quindi tu vedi l’Economia Sociale e Solidale come una sorta di settore autonomo, o addirittura di modello socio-economico alternativo?
Jean Fabre: Io penso che l’ESS sia il modo più efficace e naturale per ripensare il vivere assieme, perché è il modello maggiormente capace di combinare la dimensione del sociale con la creazione di valore economico, il tutto in rapporto alla sfida della sostenibilità e in funzione dei bisogni reali. Per questo nasce l’ESS, non per tappare i buchi, ma per proporre un’alternativa. Penso che sia una cosa su cui dobbiamo riflettere. Il nostro modo di stare insieme è la nostra cultura. Noi non possiamo proclamare determinati valori, calpestarli nei fatti e tentare poi di imporli ad altri; oppure credere che in ogni caso continueranno a esistere. Mantenere fede ai valori che con tanta facilità si proclamano è molto difficile, richiede uno sforzo e un impegno costante. Anche coloro che si credono immuni dalla corruzione e dotati di una profonda sensibilità verso l’altro, a volte cadono in contraddizione.
Ti faccio un esempio: ho un’amica giornalista africana, bravissima. Lei vuole vendere la casa, una bellissima casa vicino a Parigi, con il giardino, per comprarsi un appartamento nel centro storico. Un giorno mi dice «non so se potremo avere l’appartamento, perché la banca non mi ha ancora dato il via per il prestito», e io le chiedo: «perché devi fare un prestito? Vendi una casa grande con giardino e ti compri un appartamento molto più piccolo». Lei mi risponde: «Eh si, costa molto di più, ma è normale: è la legge del mercato!». Io ribatto «puoi ripetere quello che mi hai detto?», «è la legge di mercato…». Ho dovuto farglielo ripetere sette volte, prima che lei, da persona colta e impegnata qual è, si rendesse conto dell’assurdità del meccanismo che aveva assimilato e che stava ripetendo come verità immutabile. La convinzione dell’immutabilità delle leggi del mercato, la tendenza verso un sempre maggiore impegno nell’accumulo di denaro, il sentimento di solitudine e di timore davanti ad una mancanza di cura che si pensa possa essere risolta ancora una volta tramite il denaro e l’acquisto di servizi ad hoc, sono solo alcuni degli elementi che stanno all’origine dell’incertezza e paura tipiche della popolazione occidentale odierna. Incertezza, paura e solitudine sono inoltre terreno fertile per la rinascita di nuove forme di autoritarismo e xenofobia.
Al contrario, l’ESS vuole proporsi come un’economia della cura reciproca, dove la persona si trova certamente all’interno di un paradigma di mercato che però vede evolvere le proprie leggi in funzione delle necessità, desideri e benessere delle persone. Per dirla in maniera estremamente sintetica: la differenza tra l’economia di mercato tradizionale e l’ESS è che la prima fonda se stessa sulla logica esclusiva della riproduzione ed accumulazione del capitale, mentre la seconda prospera mettendo al centro la persona, in tutta la sua complessità, sia in quanto singolo che come parte di una collettività.
Io ho speso una vita intera a battermi per aiutare la gente nei paesi più poveri. Nel 1970 l’Assemblea Generale dell’ONU decise che per migliorare le condizioni di vita di una parte considerevole della popolazione mondiale, sarebbe stato necessario un intervento da parte di tutti i paesi più ricchi, i quali avrebbero dovuto destinare, e parliamo del 1975, lo 0,7% della ricchezza nazionale in aiuto pubblico allo sviluppo, per poi raggiungere l’1% nel 1980. Credi che i paesi ricchi l’abbiano fatto, pur avendo votato loro questa risoluzione? Solo in cinque hanno mantenuto l’impegno, tra cui Danimarca, Olanda e Svezia. Parlare di ESS significa perciò ragionare anche sulla capacità e volontà delle nazioni, soprattutto di quelle appartenenti al G20 o al G7, di collaborare per affrontare quelle sfide così grandi che, senza uno sforzo collettivo internazionale, non potranno mai essere vinte.
Guardando al presente, si pensi solo alla lotta contro il cambiamento climatico o alla pandemia da COVID-19, i cui effetti toccano e toccheranno praticamente tutti i paesi in tutti i continenti. La risposta più efficace sarebbe evidentemente quella di una maggiore coesione e solidarietà reciproca. Eppure, soprattutto a livello europeo, non è così. Perché? Le ragioni sono certamente tante, ma mi interessa far riflettere nuovamente sul peso delle questioni economiche che riguardano i rapporti commerciali tra i paesi, così come la possibilità per milioni di persone di non perdere il proprio posto di lavoro.
L’ESS ambisce a proporre un altro paradigma, un altro modo di rapportarsi all’ambiente, di concepire il lavoro e il benessere, che come viene ormai ripetuto da anni, non può essere misurato unicamente in termini di PIL prodotto. L’ESS ti riporta alla necessità della cura reciproca. Dunque non è solo il cerotto su una piaga. È un certo modo di “fare società” e “non fare giungla”. È una proposta politica di per sé, ma politica non nel senso partitico. Corrisponde alla volontà di vivere diversamente, con una rinnovata consapevolezza che muove dal prendere atto della nostra interdipendenza, e dunque della nostra necessità di prenderci cura gli uni degli altri. Guarda lo statuto della Migros o della cooperativa dei Pionieri di Rochdale citate in precedenza, tutti utilizzano riferimenti simili, tutti mettono al centro la persona e la collaborazione tra persone, principi opposti a quelli della mera concorrenza e interesse personale che hanno imperato nell’ultimo secolo. Noi viviamo da schizofrenici, proponiamo l’impegno verso valori alti e lungimiranti, ma viviamo secondo il contrario, mentre l’ESS potrebbe fungere persino da stimolo per riportarci all’essenziale, per farci riflettere sulla dimensione etica del vivere in società – nonostante oggi parlare di etica sembri alquanto anacronistico o impossibile per la grande complessità delle nostre società.
È vero però che, se queste sono le ambizioni dell’ESS, c’è bisogno che essa cresca e acquisti un peso maggiore all’interno dei vari contesti nazionali. Ricordo che, quando sono arrivato all’ONU, c’erano molti giovani mossi da una volontà sincera di migliorare le condizioni di vita delle persone, e essere parte di un grande soggetto come quello era motivo di ulteriore fiducia e spinta. Oggi invece osservo che molti giovani arrivano da noi mossi piuttosto dalla volontà di fare carriera, dalla ricerca di autoaffermazione, con un approccio molto più simile a quello di un manager.
Sono convinto invece che, se vogliamo generare un reale impatto sulle comunità, dovremmo cambiare radicalmente il nostro modo di pensare il vivere insieme, perché nell’arco di tre generazioni abbiamo visto la popolazione mondiale passare da 2,4 a oltre 7,5 miliardi di persone, e questo è un fatto che cambia tutto. Se non siamo ancora riusciti a capirlo è un problema serio, se pensiamo di poter guardare a continenti come l’Africa o l’India allo stesso modo in cui li abbiamo guardati negli ultimi settant’anni, vuol dire che non ci siamo realmente resi conto di quanto il mondo sia cambiato e di quanto sia necessario tentare vie nuove. Tutto ciò ritengo ci porti a valutare in maniera ancora più seria la proposta di un’economia della cura reciproca, dunque dell’ESS.
Il carattere imprenditoriale dell’Economia Sociale e Solidale
Dopo aver discusso le origini dell’ESS e il suo posizionamento socio-economico, proviamo a esplorare la dimensione economico-finanziaria. In Italia, il dibattito sull’economia sociale è polarizzato tra chi sostiene che il terzo settore debba andare verso una maggiore imprenditorializzazione, una maggiore integrazione di mercato anche attraverso l’utilizzo di strumenti di tipo finanziario (per esempio la finanza sociale), al fine di aspirare ad una maggiore scalabilità e accedere a nuovi mercati, e chi invece pensa che sia necessario essere cauti e mettere dei paletti ad una eccessiva integrazione tra logiche di mercato e finalità sociali delle organizzazioni, integrazione che rischierebbe di indebolire l’importanza dei valori fondanti dell’economia sociale e mettere in secondo piano realtà importanti del settore, quali per esempio il volontariato. Questo dibattito è riscontrabile anche a livello internazionale? Quali sono i pro e i contro di queste due posizioni, dal suo punto di vista?
Jean Fabre: Da quello che riesco a vedere dall’osservatorio nel quale mi trovo, è un dibattito che è molto più acceso in Italia di quanto lo sia altrove. Penso che ciò dipenda dal fatto che l’Italia ha avviato un confronto su questo già da tempo e che c’è una sensibilità maggiore da parte dello Stato, che di recente ha promosso anche la Riforma del Terzo Settore. La sfida principale rimane a mio avviso il riuscire a trovare, in primo luogo, il giusto equilibrio di interdipendenza tra dimensione pubblica, economica e sociale con i relativi attori.
Una seconda sfida altrettanto importante, relativa sempre al tema dell’autonomia dei vari attori sociali componenti il mondo del non profit, riguarda la questione dei finanziamenti che, come ricordavate, hanno visto nell’ultimo periodo l’entrata in campo anche della cosiddetta finanza sociale. Però prima di tutto bisognerebbe interrogarsi su cos’è la finanza. Quasi mai ci si domanda quale sia la sua natura, perché siamo ancora legati ad una dimensione fortemente materiale del valore economico e ancora di più del denaro, il quale invece è, in primis. null’altro che tempo e capacità. Dunque, è innanzitutto necessario riflettere sul rapporto che vi è tra dimensione virtuale e dimensione materiale del valore economico, decisivo per valutare in maniera più approfondita l’eventuale proprio favore o meno rispetto a nuove forme di finanziamento che prevedono strumenti di carattere specificatamente finanziario.
Per fare questo, e seguendo il principio di cui parlavo nella precedente risposta, ovvero il proporre un’analisi a partire da un esercizio di osservazione e non viceversa, vorrei raccontarvi di un caso italiano che trovo alquanto calzante ed esplicativo delle potenzialità che possono emergere da nuove forme di finanziamento basate su tipologie di credito totalmente virtuali. Sto pensando al progetto del Sardex il circuito di credito complementare realizzato in Sardegna. È nato da un gruppo di cinque persone che non avevano fatto studi di economia e non sapevano nulla di finanza, ma conoscevano molto bene i bisogni del proprio territorio e le forme di relazione tra gli abitanti sulle quali potevano scommettere. Perciò hanno deciso di provare a inventare un nuovo sistema di credito locale basato sulla fiducia reciproca – e non è un caso che ad essere al centro vi sia proprio la fiducia la quale, come si sente spesso ripetere, rappresenta anche uno dei pilastri della finanza mondiale. Il Sardex funziona in questo modo: mettiamo il caso che c’è una persona che vorrebbe avviare una propria impresa di autotrasporti perché conosce già il mestiere ed ha esperienza nel settore. Per farlo richiede un prestito, attraverso l’apposita piattaforma digitale, di una certa quantità di Sardex, poi avvia la propria attività e comincia con i primi trasporti. Mentre viaggia per lavoro, quando si ferma per pranzare o cenare, invece di fermarsi in un qualunque ristorante si ferma in un ristorante della rete Sardex e paga con i Sardex. Il ristoratore riceve questi crediti. A cosa corrisponde questa moneta? Se l’altro è un trasportatore, allora significa che corrisponde a capacità di trasportare. Ma cosa se ne fa il ristoratore di questi Sardex? Siccome si possono spendere solo nella rete, si comprerà pasta, burro, o il vino di cui ha bisogno per servire i suoi clienti da un altro produttore di quel circuito. Quel produttore lì riceve i Sardex, e magari li userà per pagare il trasportatore di prima per mandare il burro, la pasta, e il vino dal ristoratore. Il trasportatore riceverà i Sardex che aveva speso in precedenza e così il circuito si completa.
Cos’è dunque il Sardex? In primis, è un modello di mutuo credito. In secondo luogo, è un’unità di conto e misura dei rapporti di debito e credito all’interno di un circuito composto dagli iscritti: aziende, professionisti, associazioni e privati cittadini. Vorrei sottolineare che nell’intero circuito non gira alcun tipo di denaro in forma materiale, tutto è virtuale e l’obiettivo del progetto non è solo di carattere economico, ma anche etico, in quanto intende favorire l’aumento del potere d’acquisto di singoli e famiglie, oltre a incentivare al consumo responsabile.
Ecco allora che riemerge il rapporto tra dimensione etica, dimensione economica e dimensione dei bisogni delle persone, il tutto all’interno di un progetto sperimentale di finanza sociale. Se può sembrare qualcosa di naif, in grado di funzionare solo per piccoli volumi o a livello molto ristretto, ma dovete sapere che il Sardex, partendo da zero nel 2010, oggi ha superato i 100 milioni di euro di fatturato e conta 50 dipendenti; è evidentemente un ottimo esempio delle potenzialità che possono emergere per quanto riguarda il tema della finanza e delle forme innovative di finanziamento all’interno di un paradigma di ESS.
Bisogna dunque superare il dibattito a cui accennavi nell’ultima domanda, perché c’è un problema di formulazione alla base: il punto non è se includere o escludere la finanza dal Terzo Settore o dall’ESS, ma è capire quali forme di finanza possono essere messe in campo per favorire progettualità economiche che si basano sulla fiducia, il mutualismo e guardino in primo luogo alla cura della persona. Nella finanza si sono sviluppati dei meccanismi che sono ormai fuori controllo, totalmente slegati dall’economia reale. Per esempio, la stragrande maggioranza del denaro che circola nel mondo oggi non esiste, nel senso che non c’è una corrispondenza di produzione di beni e servizi. Si tratta di quantità di denaro cresciute per lo più attraverso meccanismi speculativi. Che senso ha quando una nave parte da un porto, piena di cereali, attraversa il mare e cambia, nel tempo della traversata, trenta volte proprietario in borsa? E il valore del cargo all’arrivo non è quello della partenza. Un altro esempio è quello del Bitcoin: come è possibile che il Bitcoin parta da pochi dollari per raggiungere più di 10.000 dollari di valuta, poi scendere a 6.000 e risalire, fluttuando cosi tanto nel giro di poche ore o mesi? Si tratta di un meccanismo speculativo, fatto per creare denaro che non esiste. Invece, sistemi come quello del Sardex rendono più difficile l’emergere di logiche speculative e aiutano a mantenere un rapporto stretto tra dimensione materiale del valore legato ai luoghi, alle merci e alla forza lavoro, con la controparte virtuale del valore legata al denaro e alla sua circolazione.
Un altro bell’esempio che mi viene in mente, sempre italiano, è Libera Terra. Un movimento nato come reazione da parte di molti cittadini al dominio e ai traffici della mafia, nonché a pratiche di carattere feudale che soffocano tutt’ora lo spirito imprenditoriale di alcuni territori del sud Italia. Questo movimento è stato capace di raccogliere 1.000.000 di firme e promuovere una legge per la gestione dei beni confiscati alle mafie. In che modo opera Libera Terra? Partendo dalla produzione di prodotti di grande qualità in grado di ritagliarsi una propria nicchia di mercato, ai quali è associata poi un’attenta gestione imprenditoriale caratterizzata dal rifiuto di qualunque forma di discriminazione e sfruttamento. Ciò porta ad una conversione dell’economia criminale in un’economia della legalità che ha come ulteriore effetto positivo quello del rilancio di attività e luoghi, dove ritorna l’orgoglio e il senso di dignità delle persone, che vedono che il proprio territorio può essere valorizzato per la sua bellezza, la qualità dei prodotti etc., e il tutto muovendosi all’interno del mercato tradizionale, senza dover ricorrere ai circuiti illegali mafiosi.
Non c’è però il rischio che, nell’integrarsi maggiormente nel mercato e nella finanza, le organizzazioni dell’ESS perdano la loro mission sociale, cadendo in quello che Chaves e Monzón[2] chiamano “isomorfismo organizzativo”, ovvero la tendenza a imitare le organizzazioni dominanti del settore (ovvero le aziende capitaliste classiche)?
Jean Fabre: Il rischio di andare fuori strada c’è, ovviamente. Questo rischio però è insito in ogni cosa della vita. Prendi il caso del Credit Agricole (CA), che è uno degli elementi del successo agricolo della Francia. È una cooperativa, se hai un conto al CA hai una quota come socio. Il CA presenta un impegno sociale forte e concreto, però come altre banche ad un certo momento non a resistito alla tentazione di speculare sul debito greco. Allora la domanda non è se integrarsi o non integrarsi nel mercato. Il punto è sapere in che direzione si sta andando e quali mezzi si stanno utilizzando. Bisogna sempre porsi l’interrogativo in merito al valore etico delle proprie azioni, sia come singoli che come imprese e cooperative, perché il rischio di cadere in contraddizione, di snaturarsi, è costantemente dietro l’angolo. Un sano esercizio di autocritica è perciò molto utile, sia per rimanere il più possibile fedeli alla propria identità originaria, sia per evitare di finire in logiche malate che alla lunga possono logorare la propria attività economica e distruggere lo spirito originario che aveva portato alla nascita del progetto.
Ritengo che si debba riscoprire anche il concetto di responsabilità del singolo all’interno di un’azienda. L’azienda in fondo è il risultato di una serie di decisioni che vengono prese da persone, le quali, soprattutto in un contesto come quello dell’ESS, non dovrebbero mai dimenticare la dimensione dell’etica e della responsabilità del proprio lavoro, indipendentemente dal ruolo organizzativo che ricoprono. Penso insomma che siano gli individui a fare la differenza. In fondo sono sempre io che mi devo chiedere, ogni giorno, se le cose che faccio vengono fatte bene o male, se così facendo vado verso il giusto o verso ciò che reputo sbagliato. E non voglio fare del moralismo dicendo questo.
Gottlieb Duttweiler, quando ha fondato la Migros, ha scritto una Carta in quindici punti, come un testamento, mettendo nero su bianco cosa si sarebbe dovuto evitare dopo la sua morte. Conoscendo l’essere umano, Duttweiler sapeva benissimo che avrebbe dovuto mettere dei punti fissi per aiutare la sua impresa ad orientarsi negli anni a venire e a non perdere la bussola. All’interno di un mondo come quello dell’ESS, penso infatti che il dispositivo più efficace per il controllo delle attività, affinché non vadano troppo fuori strada, rimanga quello dell’attenzione reciproca e dell’autocorrezione tra chi lavora nella stessa organizzazione. Non possiamo riporre la nostra fiducia esclusivamente in un qualche dispositivo esterno o normativo che vigili sulle azioni delle singole imprese e dei singoli lavoratori.
Ciò non toglie che, con l’evoluzione delle attività delle organizzazioni, sia doveroso anche un aggiornamento dal punto di vista giuridico e normativo, ma ancora una volta ritengo che gli aspetti sui quali si debba investire maggiormente siano l’educazione di chi lavora in quelle imprese e le dirige. D’altronde basta un rapido sguardo al sistema economico mainstream per vedere come il grande apparato di norme che dovrebbe vincolarlo e tutelarlo, non riesce ad evitare crisi devastanti come quella del 2008 frutto dell’attività speculativa, o fenomeni come quello della delocalizzazione e dello sfruttamento della manodopera. La scelta di Gottlieb Duttweiler di investire anche sulla formazione spirituale dei propri dipendenti, come vi raccontavo prima, non deriva solo da convinzioni religiose personali, ma dalla consapevolezza che avere dipendenti formati sia professionalmente che eticamente avrebbe voluto dire avere un’impresa orientata verso una precisa idea di mercato, di economia, e oggi diremmo: di management.
L’ESS nasce anche come insieme di pratiche ideate dalle comunità in risposta a specifici bisogni a livello locale. Di fatto, si configura come strumento di sviluppo locale, il cui attore centrale sono le imprese sociali (nella più ampia accezione del termine), ovvero organizzazioni profondamente radicate nel territorio. Il radicamento è una caratteristica che permette loro di essere più capaci di individuare e gestire le esigenze dei luoghi in cui operano, ma le porta a essere tendenzialmente organizzazioni di taglia medio-piccola. Molti, dunque, considerano l’ESS come strumento funzionale solo a livello locale, tramite le piccole e medie imprese (PMI). Invece tu prima hai già accennato all’esistenza di organizzazioni dell’ESS di grandi dimensioni. É possibile quindi portare l’ESS nelle strutture e negli gli obiettivi di grandi imprese a livello nazionale o, addirittura, internazionale?
Jean Fabre: Io capisco che alcuni abbiano questa visione dell’ESS legata allo sviluppo locale e alle PMI, ed è giusta. Come raccontavo in precedenza, l’ESS ha le sue radici in esperienze nate dal basso, in realtà locali molto diverse tra loro, ed è bene che cresca anche in questa direzione. Con il passare del tempo però, e contrariamente a ciò che uno si immagina, certe istituzioni, strutture e organismi dell’ESS sono diventate realtà grandissime che si muovono a livello internazionale. Penso ad esempio a certe realtà nel campo delle mutue assicurazioni. Esiste una rete che si chiama Association Mondiale de la Mutualité. Gestisce un quarto del mercato mondiale delle assicurazioni. Un quarto! Il totale di assicurati è 955 milioni di persone. Non è un’impresa sola, ma un organismo composto da migliaia di imprese che operano in questo settore. Il fatturato totale delle 300 principali cooperative e mutue nel mondo supera i 2000 miliardi di dollari. A testa, in media, sono all’incirca 7 miliardi. Individualmente, alcune sono grossissime, come il Credit Agricole o, sempre in Francia, la Banque Populaire Caisse d’Epargne. Sono due grandi gruppi mondiali. In Germania c’è la BVR, Bundesverband der Deutschen Volksbanken und Raiffeisenbanken, una banca con filiali in tutto il mondo.
Il mio amico Thierry Jeantet, che è stato presidente del Forum Internazionale dell’ESS, era direttore di una struttura che si chiama EURESA, formata da 15 mutue assicurazioni che operano, se non sbaglio, in 11 paesi, hanno quasi 50.000 impiegati, e un fatturato tra i 35 e 40 miliardi di euro, e riserve che superano i 150 miliardi di euro. La Mondragon, nei paesi baschi, raccoglie quasi 300 imprese, più della metà sono cooperative e operano in settori diversissimi: finanza, industria, distribuzione e servizi educativi. Hanno più di 70.000 lavoratori, le loro scuole accolgono più di 10.000 studenti, sono il 7° gruppo industriale in Spagna.
Certo, per organizzazioni di queste dimensioni la difficoltà è rimanere coerenti con tutti i principi di cui abbiamo parlato, cosa niente affatto facile. Però a mio avviso è possibile trovare un compromesso convincente. La Migros permette, reinvestendo una parte dei profitti, di offrire corsi nelle proprie scuole dove puoi imparare l’informatica, la cucina, il cinese o l’italiano e tanto altro a un prezzo accessibile, possibilità che con uno stipendio medio o basso qui in Svizzera non potresti permetterti. L’ESS, anche quando ad incarnarla sono grandi organizzazioni, può fare del bene. Il problema di come non andare fuori strada è problema che si ripropone a qualunque livello, è inevitabile, ma non deve paralizzare o portare a rifugiarsi nel principio: “il piccolo è bello”. parlare di ESS non significa parlare solo di progetti ultra-locali o piccole imprese, parlare di ESS implica invece tenere in considerazione che al suo interno esistono tante realtà simili a quelle appena accennate che hanno dei fatturati da multinazionale, decine di migliaia di lavoratori e soci, sedi in molti paesi, ma tra le loro finalità rimane sempre il riferimento al mutualismo, ai bisogni delle persone e a determinati valori etici.
Il contributo dell’Economia Sociale e Solidale per la sostenibilità
Come hai ben raccontato nella prima parte di questa intervista, le origini dell’ESS risalgono a più di due secoli fa, e a seconda dai paesi le varie esperienze di questo settore presentano caratteristiche molto differenti. Allo stesso tempo però, oggi l’ESS si è strutturata anche come un approccio e un movimento riconosciuto a livello globale. In un contesto in cui, nell’ambito dell’economia dello sviluppo, stanno ritornando in auge i concetti di politiche “place-based” o “place-sensitive”, a discapito delle teorie “one-size-fits-all”, qual è la credibilità di un modello globale dell’ESS? Secondo te l’ESS che potenziale può avere per i paesi in via di sviluppo, e in particolare per l’Africa?
Jean Fabre: Per rispondere a questa domanda vorrei partire dal racconto di un’esperienza abbastanza diffusa nel continente africano e che trovo particolarmente interessante, ovvero la cosiddetta “tontine africaine[3]” (letteralmente “associazione africana”). È una pratica che potremmo definire di economia sociale e solidale, in cui le persone mettono insieme le proprie risorse per finanziare un progetto o l’acquisto di beni che servono alla collettività, ad esempio per aiutare qualcuno a avviare la propria attività professionale, oppure per assicurare l’acquisto di prodotti di cui hanno tutti bisogno. Ci sono poi alcune tontine che svolgono una funzione equivalente a quella dell’asilo, grazie alle quali vengono raccolti dei soldi per pagare una persona, solitamente un anziano, che si occupi dei bambini mentre le donne vanno a lavorare nei campi. Tutte queste strutture esistono da tempo, e nei paesi cosiddetti in “via di sviluppo” – odio questa espressione – vi sono meccanismi che fanno parte della logica del mutuo aiuto, del sostegno reciproco, le cui radici risiedono nelle configurazioni relazionali locali. Tali meccanismi di solidarietà reciproca esistevano quindi ben prima della colonizzazione e alcuni sono sopravvissuti, mentre altri si sono persi a seguito dei processi di riorganizzazione della vita sociale imposti dai colonizzatori.
Una grande sfida dunque per l’ESS nel continente africano è, e sarà, quella di riuscire a coniugare pratiche di mutualismo e solidarietà tradizionali con forme nuove di valorizzazione delle risorse a disposizione, le quali però non possono prescindere dalla considerazione delle situazioni politiche di ciascun paese. Io penso che nel continente vi siano grandi potenzialità, ma per farle emergere e garantire loro una certa sostenibilità ci sarebbe bisogno di un esercizio maggiore di fare rete, sia tra le singole realtà, sia tra realtà e istituzioni o grandi organizzazioni che potrebbero svolgere un ruolo maggiormente incisivo.
Penso ad esempio all’ONU, che nei decenni scorsi si era posto obiettivi importanti, ma dovendo tenere conto degli interessi dei tanti paesi che vi partecipano, in molti casi si è verificato uno scarto notevole tra le buone intenzioni da cui si era partiti e le effettive azioni messe in campo. D’altra parte, un punto di forza delle organizzazioni come l’ONU è la possibilità di ragionare e immaginare a medio termine, guardando venti o trent’anni in avanti, cosa che invece i soggetti istituzionali classici non fanno. Negli anni Novanta, ad esempio, quando lavoravo per l’UNDP, il sistema ONU ha realizzato una serie di conferenze su sviluppo e popolazione, sui diritti umani, su sviluppo e ambiente, sulle questioni di genere, sulla situazione sociale, su sviluppo e alimentazione… e ogni volta c’è stato un piano d’azione che guardava molto avanti nel tempo.
Grazie a momenti di confronto di questo genere e i corrispettivi piani d’azione siamo arrivati, nel 2000, a fare adottare dai governi gli Obiettivi del Millennio per lo Sviluppo (MDGs). A differenza della devoluzione di una piccola frazione del PIL per l’aiuto pubblico allo sviluppo votata nel 1970, tali obiettivi non erano fissati in termini di risorse da destinare, ma in termini di obiettivi concreti, come il dimezzamento della proporzione di persone che vivono in povertà assoluta entro il 2015. Quando io sono arrivato all’ONU, e parlavo di sradicare la povertà, i miei colleghi mi dicevano: «calma, calma! Parliamo di ridurre la povertà, perché la povertà c’è sempre stata e ci sarà sempre». E io rispondevo: «ma come, di fronte alla tortura mica si parla di ridurre, si parla di sradicare, di vietare la tortura. Perché non si può pensare lo stesso per la povertà?». Con gli MDGs si è riusciti, a livello di media mondiale, a raggiungere questi obiettivi, perché sebbene alcuni paesi non sono riusciti nell’impegno, altri hanno ottenuto grandi risultati, alzando molto la media. Grazie a questo risultato, che costituiva una dimostrazione di fattibilità di progetti di tale ambizione, per la prima volta nella storia umana, i governi hanno osato impegnarsi sugli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs), che mettono in primo piano lo sradicamento della povertà in tutte le sue forme entro il 2030.
Il problema però più rilevante, che ancora resta, è quello di riuscire a portare avanti sforzi comuni in maniera coordinata e continuativa: su questo c’è molto da lavorare. Come osservate anche voi, in Africa la ricetta non è necessariamente la stessa che si può proporre in Asia o in Europa. Lì c’è un contesto culturale e societario che richiede strategie diverse. È fondamentale non dimenticarsi del rapporto strettissimo tra dimensione territoriale, risorse e possibili innovazioni perché è qui che l’ESS deve inserirsi. Il ruolo che possono avere istituzioni come l’ONU è quello di facilitare la costruzione di contesti per lo sviluppo, ma il vero livello di azione, da cui scaturiscono le esperienze più interessanti, rimane quello locale. Insomma, quello che voglio dire è che dal mio punto di vista l’ESS non può venire calata dall’alto, può solo nascere dal basso, perché richiede l’adesione a determinati principi e una risposta ritagliata su misura per i bisogni delle comunità. Le istituzioni dovrebbero invece occuparsi di creare contesti che favoriscano le sperimentazioni e le innovazioni, liberandosi dalla presunzione di possedere soluzioni universali o ricette efficaci al cento per cento.
Mi viene in mente il caso del sindaco coreano di Seul, il quale ha iniziato la sua carriera nel mondo dell’ESS e solo successivamente è entrato in politica. Durante il suo mandato, seguendo questa logica di favorire i contesti per lo sviluppo, ha creato un incubatore per le imprese dell’ESS, che tra l’altro funziona molto bene, l’ho visto personalmente. Inoltre, ha avuto l’intelligenza di creare il Global Social Economy Forum (GSEF), per contribuire alla crescita dell’ESS nel mondo intero. L’approccio del GSEF è quello di partire da ciò che esiste a livello locale, aggregando le persone e cercando di aiutare le diverse esperienze creando reti, stimolando la crescita delle progettualità che nascono e favorendone la scalabilità. In Asia, penso soprattutto a paesi quali la Corea o il Giappone, sono da sempre molto interessati all’innovazione tecnologica, e non è un caso che molte realtà importanti dell’ESS di quei paesi emergano proprio dal settore tecnologico-digitale. Come dicevo: il contesto locale influenza in maniera profonda la natura di qualunque nascente esperienza di ESS. Peraltro, è proprio questo radicamento nei rispettivi contesti locali, lo stretto legame con le persone che popolano quelle comunità, la conoscenza delle dinamiche socio-economiche, ha costituito un elemento di grande vantaggio per le imprese dell’ESS durante i momenti di crisi come quella del 2007-2008, mostrando una solidità e capacità di resistenza del settore inaspettata.
Quindi, per riassumere, per l’Africa non si tratta di importare un modello, ma di ricreare le condizioni per dare importanza a modelli che già erano presenti?
Jean Fabre: Ritorno sull’espressione “in via di sviluppo”: perché non mi piace? Perché a livello mondiale si è affermata questa visione per la quale il concetto di sviluppo rappresenta l’orizzonte da perseguire costantemente, ma senza poterlo mai raggiungere realmente. Non esiste un paese che ritiene di aver già raggiunto il proprio punto massimo di sviluppo. Quando uno dice “in via di sviluppo”, mette purtroppo come punto di riferimento il modello capitalista nato in occidente, l’unico che si ritiene debba essere seguito da tutti i paesi. Invece, quando uno produce del benessere, quello che in America Latina chiamano Buen vivir, non si intende il vivere bene nel senso di guadagnare di più, ma essere felici, in buona salute, con una rete di amicizie e familiare solida, con possibilità di esprimersi liberamente… la felicità insomma, in tutta la sua articolazione e complessità, che non esclude la dimensione economica, ma evita di fare di quest’ultima il metro di paragone. Invece, quando si guarda ai paesi dell’Africa definendoli “in via di sviluppo”, ci stiamo rivolgendo a quelle realtà con categorie totalmente arbitrarie, frutto di una diversa visione del mondo che pretende di essere l’unica valida.
In secondo luogo, il nostro ruolo, nel XXI secolo, non dovrebbe essere quello di “portatori di verità”, quanto piuttosto quello di “levatrici”. Gli attivisti, i politici, le organizzazioni internazionali, non devono essere quelli che sanno e che fanno, prendendo le decisioni per gli altri. Al contrario, devono spendere il proprio tempo per aiutare le persone e le comunità a elaborare le soluzioni ai problemi. Nessuno può sapere come vivono gli altri. Io ho girato il mondo, ho vissuto tantissime esperienze, e ancora non ho capito la metà di come vive l’umanità. Bisogna fare si che le soluzioni nascano dalle persone. Avere la presunzione di poter insegnare a vivere agli altri in quanto portatori di un sapere superiore, frutto di un percorso di sviluppo maggiore, è un grande errore che si fatica a correggere… Le soluzioni ai bisogni che si incontrano e il significato di cosa sia la felicità o il benessere, dovrebbero essere il risultato di un percorso fatto insieme alle persone e non, di nuovo, calato dall’alto o frutto di una qualche forma di indottrinamento politico o commerciale.
Questi discorsi seppur possano apparire distanti dal tema dell’ESS non lo sono affatto, in quanto il modo di operare delle imprese che ne fanno parte ha alla base anche la coscienza delle necessità di mantenere sempre un approccio critico e riflessivo, che viene poi tradotto in specifici modelli di business. I casi del progetto Sardex o di Libera Terra (descritti più avanti nell’intervista, ndr) sono esempi lampanti di quanto sto dicendo. Bisogna dunque saper ascoltare la gente e accompagnarla nella ricerca di soluzioni per loro adeguate: non per noi, per loro. Il nostro ruolo deve essere quello di facilitatori, di “levatrici” appunto. L’ESS aiuta a porsi degli interrogativi, è un processo allo stesso tempo economico e riflessivo, richiede un lavoro sulle coscienze che animano una collettività.
Una grande lezione che ho imparato, proprio rispetto a quanto vi ho appena raccontato, me l’ha insegnata un collega dell’UNDP che si chiama Fernando Mujica, in Bolivia. Quando sono arrivato lì, mi hanno messo in ufficio con questo Fernando, un tipo incravattato e molto formale, tra me e me mi chiedevo dove fossi capitato. Appena due giorni dopo però mi dice: «Jean, domenica mattina alle cinque andiamo nei campi». E lì l’ho visto all’opera: una levatrice magnifica! In una zona dove la siccità aveva messo in ginocchio i raccolti, lui gestiva un fondo dato dagli svedesi all’UNDP per quell’emergenza. Il suo non era un approccio “militare”, non voleva comandare, ma far riflettere le persone sulla situazione che stavano vivendo. Chiedeva loro: «raccontatemi cosa è successo? Perché? Come si può rimediare secondo voi? Dove possiamo trovare le risorse?» E loro, ragionandoci e rispondendo, riuscivano a trovare soluzioni che sentivano proprie.
Fernando poteva benissimo assumere una ditta che venisse a fare il lavoro, invece no, voleva coinvolgere la comunità, creare partecipazione e far pensare la gente. Sono passate decine di anni da questa storia, ma se ti portassi lì sono sicuro che troveremmo i canali di irrigazione costruiti allora, che funzionano ancora, puliti e in ordine. Così bisogna fare le cose: dal basso, costruendo insieme alle persone, facendole crescere. Questo per me è l’impatto profondo che dovrebbe avere l’ESS. Questo deve essere anche il ruolo degli enti per lo sviluppo, così come della politica in generale. In un mondo che a breve ospiterà dieci miliardi di persone, ne bastano 300 milioni che si comportano male per cancellare i risultati ottenuti dal comportamento virtuoso delle altre 9 miliardi e 700 milioni e rendere la loro vita insopportabile.
Parliamo di sviluppo in maniera più trasversale. La nozione di ESS, con nomi e sfumature concettuali diverse, si sviluppa a livello accademico e in maniera sistematica però solo a partire dagli anni Settanta-Ottanta, per descrivere tutte quelle pratiche economiche orientate a obiettivi sociali, ovvero all’aumento del benessere di individui e comunità. Oggi questi obiettivi sociali sono uno dei tre cardini dello sviluppo sostenibile, per come è definito nell’Agenda di Sviluppo Sostenibile, ed è stato affiancato sistematicamente da obiettivi ambientali in quasi tutti gli interventi di sviluppo. Qual è il posto delle questioni ambientali/ecologiche negli obiettivi dell’ESS? C’è una naturale tensione alla tematica ambientale? Se c’è, è abbastanza radicata da poter continuare il suo “business as usual”, oppure è necessario ripensare il paradigma dell’ESS verso una concezione più integrata e duale, che metta sullo stesso piano ambiente e società?
Jean Fabre: Si, l’ESS è nata in genere dall’attenzione ai problemi sociali, e in pochi casi c’è stata attenzione alla qualità dell’ambiente, delle risorse naturali o dei fenomeni naturali. A volte c’è, ma non è una cosa innata. Il tema della sostenibilità (ambientale, energetica, ecc.), come ben sapete si è affermato solo di recente a livello internazionale, e non per un reale avanzamento della sensibilità intellettuale o politica dei paesi, ma per le conseguenze dei cambiamenti climatici che oramai sono sotto gli occhi di tutti, periodici stravolgimenti causati da eventi naturali particolarmente violenti o da eventi drammatici sotto il profilo sociale, che costringono i sistemi politici e le organizzazioni a prendere misure di tutela corrispondenti. Il problema è che si agisce sempre dopo e non si gioca mai di anticipo. Vi racconto un esempio molto banale, ma indicativo dei cambianti in atto. Quando ero ragazzino, non si parlava dei prodotti biologici. Quando andavi a comprare una mela, questa non poteva che essere “bio”. Oggi tu devi andare nel negozio o nel reparto dedicato per essere sicuro di comprare un prodotto senza troppi agenti chimici, non OGM e via discorrendo. Facciamo molta fatica a renderci conto di quanto sia delicato l’equilibrio che regola la convivenza tra uomo e natura, bastano piccoli errori e ci troviamo costretti a dover cambiare in maniera profonda i nostri modi di vivere e di consumare. E purtroppo abbiamo rotto molti di questi equilibri, accorgendocene troppo tardi. Io, quando faccio le conferenze, chiedo scusa alle nuove generazioni, chiedo perdono. Perché la mia generazione trasmette a quelle successive una situazione quasi impossibile da gestire. Poi, un po’ scherzando e un po’ sul serio, dico che, avendo fallito in questo senso, questo mi impedisce di morire. Non ho più il diritto di morire, perché devo raddrizzare questa situazione che abbiamo creato con la nostra leggerezza e mancanza di capacità di condurre le cose nel modo giusto. Avendo figli e nipoti, non possiamo lasciargli in eredità questo mondo. Sono costretto a vivere finché abbiamo corretto queste cose, poi in buona pace potrò morire. Lo dico in questo modo, un po’ drastico, per far capire la gravità della cosa.
Ad ogni modo, perché voi possiate farvi un’idea più precisa riguardo nello specifico il tema della rilevanza delle questioni ambientali o della sostenibilità all’interno dell’ESS, vi cito un esempio pratico: a Ginevra è stata creata la Camera dell’Economia Sociale e Solidale. Per farne parte ciascuna organizzazione deve rispondere a certi criteri legati alla trasparenza, all’interesse collettivo della mission e all’autonomia dal punto di vista finanziario. Una volta riconosciuto il possesso di questi requisiti, è necessario che l’organizzazione si prenda l’impegno (da realizzare nell’arco di al massimo due o tre anni) anche verso altri tre ambiti: le attività che realizza devono rispettare l’ambiente, (gestione dei rifiuti, quantità di energia consumata, risorse naturali impiegate, etc.); deve esservi una reale buona gestione interna (nessuna forma di sfruttamento o di discriminazione, favorire la conciliazione tempi di vita e tempi di lavoro, garantire la sicurezza a tutti i lavoratori, etc.); e la gestione complessiva dell’organizzazione deve prevedere forme di partecipazione democratica. Sono aspetti questi che, se realizzati concretamente, fanno la differenza, sia dal punto di vista etico che funzionale.
Nel favorire il raggiungimento degli SDGs, le realtà dell’ESS possono dunque giocare sicuramente un ruolo importante, a patto che anch’esse rispettino i criteri a cui si è accennato, perché non basta l’etichetta di “impresa sociale” per essere un’impresa che è realmente sostenibile, nell’accezione più ampia del termine, e non solo in termini economici. Inoltre, come detto già più volte in precedenza, l’ESS assomiglia ad un arcipelago composto da tante isole all’interno del più vasto oceano dell’economia mainstream, e se vuole davvero riuscire a cambiare le cose, deve far crescere questo arcipelago, sia quantitativamente che qualitativamente: deve rivolgere maggiore attenzione alle questioni di genere, all’impatto ambientale, di trasparenza, e via dicendo.
La stessa economia tradizionale dovrebbe capire quanto sia importante la sostenibilità ambientale per il mantenimento dei suoi stessi mercati, eppure, sembra che non riesca (o non voglia) capirlo. Il che porterà a ripercussioni sull’intero contesto sociale globale perché, come stiamo osservando anche in questi giorni, l’interdipendenza tra un paese e l’altro, tra una popolazione e l’altra, oggi è elevatissima, e quello che succede da una parte avrà necessariamente degli effetti anche sull’altra. L’impegno verso le tematiche della sostenibilità e dell’ambiente, non riguarda solo le realtà dell’ESS, ma tutti.
Il futuro dell’Economia Sociale e Solidale
In anni recenti c’è stato un forte aumento dell’attenzione della cooperazione internazionale sul tema dell’ESS, in conseguenza della maggiore importanza che quest’ultima ha assunto nell’agenda politica di alcuni paesi e di alcune grandi istituzioni internazionali tra cui l’UE e l’ONU. Un esempio tra i tanti è l’istituzione nel 2013 della United Nations Task Force on Social and Solidarity Economy. Per descrivere questo trend, c’è chi parla di momentum dell’ESS a livello globale. Come si è arrivati a questo punto? Quali sono stati i principali momenti di svolta che hanno portato a questo aumento di interesse? Quali sono gli attori principali a livello internazionale?
Jean Fabre: Premetto che la risposta a questa domanda è frutto di una visione molto personale. Il riconoscimento dell’ESS da parte dei governi e dell’ONU non è calato dal cielo. Se mettiamo da parte le trasformazioni che nascono in seguito ad un trauma, le prese di coscienza internazionali sono il risultato di lunghi processi nei quali si combinano la lungimiranza di un certo numero di individui e le evoluzioni che si osservano nel mondo. Per capire bene bisogna risalire agli anni Ottanta, quando alla guida degli USA c’era Reagan e la Thatcher governava nel Regno Unito. Era l’epoca del trionfo delle idee neoliberiste in economia. L’egemonia di queste idee condusse al cosiddetto “Consenso di Washington” che, oltre a vantare i meriti della privatizzazione delle imprese pubbliche e della deregolamentazione del commercio, portò la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale a condizionare i loro prestiti ai Paesi in via di sviluppo all’accettazione di specifiche ricette monetarie e fiscali che limitavano notevolmente le progettualità in ambito di sviluppo e welfare.
Alcune delle misure dettate dalle istituzioni finanziarie internazionali, come ad esempio gli Structural Adjustment Programs (SAPs), potevano sembrare dotate di buon senso e accettabili. Infatti è giusto dire che se tu, come paese, guadagni tot, non puoi spendere più di tot, sennò ti metti in disequilibrio, e produci nuovo debito senza alcuna certezza che che in futuro riuscirai effettivamente a rimborsarlo. Si chiedeva perciò ai paesi che volevano un aiuto di seguire determinate ricette per non sbilanciarsi, tra cui i tagli alla spesa pubblica. Guarda caso però, quando gli si diceva di mettere in equilibrio il bilancio, venivano indicati determinati settori nei quali ridurre la spesa, però tacendo su altri (le spese militari non vengono mai menzionate). Oppure si consigliava di esportare di più per ottenere denaro dai mercati internazionali, creando però in questo modo nuovi vincoli di dipendenza dal punto di vista delle importazioni.
Un esempio classico, in ambito agricolo è quando le migliori terre venivano usate per produrre prodotti da esportazione (ad esempio il cotone), monopolizzate a tal punto che poi era necessario importare alimenti, provenienti dai surplus europei svenduti a prezzi più bassi di quelli dei produttori locali. Sorsero allora molte riflessioni, in seno alla società civile e all’ONU, sull’impatto dei SAPs sullo sviluppo. All’UNDP non potevamo non porci delle domande, poiché gestivamo aiuti per più di 5 miliardi di dollari l’anno e in più coordinavamo sul terreno l’attività delle varie agenzie ONU. Lo sviluppo non poteva essere solo una questione di misure macro-economiche e di denaro, come se la produzione di ricchezze si traducesse automaticamente in vita migliore per tutti.
Ma, per fortuna, alla fine degli anni Ottanta, bussò alla porta dell’UNDP un certo Mahbub ul Haq, pachistano, ex alto funzionario della Banca Mondiale e ex-ministro delle finanze del Pakistan. Fu un grande piacere lavorare con lui. Era una persona di grande intelligenza, grande umiltà e grande umanità. Allora l’UNDP era guidato da un certo Bill Draper, o come si dice nelle dinastie americane, William H. Draper III, figlio del Generale Draper, quello che aveva gestito il Piano Marshall. Bill Draper era un milionario, diventato ricchissimo con il venture capitalism, investimenti nei capitali di rischio, amico di George Bush padre che l’aveva nominato direttore della Ex-Im Bank, la banca USA per gli import-export, e poi lo fece mettere a capo dell’UNDP, posto che allora, tradizionalmente, spettava a uno statunitense. Lui arrivò con spirito manageriale, da finanziere, invitando per esempio il personale a considerare i diversi Paesi come dei clienti. Draper, comunque, era un politico e dirigente molto serio, pieno di buone intenzioni, per dirla con una battuta potremmo definirlo “un capitalista con un grande cuore”.
Mahbub ul Haq propose a Draper di pubblicare un rapporto sullo stato del mondo che facesse da contraltare ai rapporti della Banca Mondiale e al discorso economico dominante centrato sulla crescita economica, cioè intendevano lo sviluppo come semplice aumento del PIL. Mahbub voleva spostare l’attenzione di tutti i governi dal PIL verso l’unica cosa che secondo lui contava davvero: la gente! Voleva far capire che bisognava cambiare bussola. Non si può misurare il benessere e la possibilità di vivere dignitosamente e realizzarsi semplicemente attraverso l’aumento del PIL. Il PIL da’ l’impressione che per riuscire a fare qualsiasi cosa ci vogliono soldi, per cui esso deve crescere continuamente. Ma il PIL non significa nulla, a meno che tu non sia un economista finissimo che capisce che cosa c’è dentro. Se io produco un’auto, la vendo, magari serve per trasportare sul mercato le patate coltivate dal contadino, oppure serve per trasportare un malato dal medico o in ospedale, tutto ciò fa crescere il PIL e va benissimo. Se poi con la macchina faccio un incidente stradale, ci sono 2 morti e 2 feriti, anche grazie a questo il PIL cresce. Funerali per i due morti, cure mediche per i feriti, meccanico per la macchina… tutto fa crescere il PIL, che sia positivo o negativo. Invece, secondo Mahbub, la bussola andava ripensata alla luce della complessità che caratterizza il benessere di una persona e di una collettività, non riducibile unicamente alla dimensione economica. In luce di questo ragionamento, propose la creazione di un Indice di Sviluppo Umano. Contro ogni previsione, Draper ebbe l’intelligenza di cogliere subito la portata della proposta, e nel 1990 l’UNDP pubblicò il primo Rapporto Mondiale sullo Sviluppo Umano, aprendo un dibattito enorme attorno a cosa conta di più nella vita di una persona e di una collettività. L’ISU non è perfetto, ma tenta di riflettere in modo grossolano un’idea sufficientemente articolata e complessa di benessere. Da quel momento, ogni anno, abbiamo pubblicato un rapporto sullo sviluppo umano che analizza vari fattori della società (per esempio le tecnologie, o il lavoro, o la democrazia, o il consumo…) e l’impatto di ogni fattore sullo sviluppo umano, e viceversa. Questo rapporto ha contribuito, nel corso degli anni Novanta, insieme alle conferenze ONU sui vari aspetti dello sviluppo (sociale, ambiente, genere, popolazione, alimentazione, etc.) fatte nello stesso periodo, a uno spostamento, anche se ancora insufficiente, dalla centralità dell’elemento economico, alla centralità della persona.
Tutto questo processo era in sintonia con l’arcipelago mondiale delle realizzazioni dell’Economia Sociale e Solidale. Mettendo l’accento sulle raccomandazioni meso e micro-economiche, ma anche politiche, volte a consentire ad ogni persona di realizzarsi, di ampliare le proprie scelte e di avere una influenza sui processi che determinano la propria vita, ha aiutato a mettere in luce i medesimi principi e valori dell’ESS. Il Rapporto sullo Sviluppo Umano mette la ricchezza della vita umana di ciascuno al di sopra della ricchezza delle nazioni, nello stesso modo in cui l’ESS tesse dei rapporti economici che non sono fine a loro stessi, ma hanno come scopo il bene comune e la realizzazione di ciascun membro della società.
Ma non basta aprire un dibattito che investe certi circoli per fare dell’ESS un riferimento della cooperazione internazionale come lo è diventato l’ambiente… Il pensiero classico ha una certa resistenza al cambiamento, anche quando i fatti dimostrano ampiamente che è obsoleto o dannoso, come lo dimostra per esempio la difficoltà a prendere in tempo le misure necessarie per frenare il cambiamento climatico. L’adozione alla fine del 1999 degli Obiettivi del Millennio per lo Sviluppo (MDG) ha avuto il merito di fissare l’attenzione sulla necessità di raggiungere degli obiettivi centrati sull’essere umano. Ma le misure prese durante la presidenza Clinton hanno scatenato la finanza internazionale in una corsa senza precedenti al profitto, e l’ONU ha provato ad aprire un dialogo con le grandi imprese proponendo un patto per la responsabilità sociale e ambientale del settore imprenditoriale. Nel frattempo, però, vari governi hanno colto l’importanza delle imprese a vocazione sociale e del volontariato. L’Italia che aveva riconosciuto le cooperative attraverso la legge Marcora nel 1985, ha dotato il terzo settore di un codice e dato uno statuto alle imprese sociali. Vari Paesi hanno fatto delle leggi per dare uno statuto all’ESS, dall’Uruguay alla Francia nel 2014, ma in numero ancora limitato.
Mentre si avvicinava la scadenza del 2015 per gli MDGs, tutte le agenzie ONU che hanno a che vedere con lo sviluppo si sono impegnate in consultazioni per la fase successiva che ha dato luogo nelle Settembre 2015 all’adozione degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG) che fanno parte dell’Agenda 2030. Siamo stati molti nelle diverse agenzie e programmi ONU a renderci conto dell’immenso potenziale dell’ESS per raggiungere gli SDGs, in particolare del contributo che possono dare le sinergie con gli Enti Locali, e del contrasto con il fatto che l’ESS non era un riferimento forte nelle istituzioni come lo sono i temi legati all’ecologia o alla parità di genere.
Fortunatamente alcune istituzioni erano più avanzate in questo processo, come per esempio l’ILO, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, che promuove il “Decent Work”. L’ILO è un organismo peculiare del sistema ONU, che unisce – ed è l’unico di questo tipo – i rappresentanti dei governi, delle imprese e dei sindacati. È l’unico consesso internazionale con questa struttura tripartita. Siccome promuove la qualità del lavoro, mette in luce il contributo forte dell’ESS in materia. Questa coscienza era molto forte anche nell’Organizzazione ONU per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO), perché in agricoltura ci sono molte cooperative (il cooperativismo gioca un ruolo di primo piano in agricoltura). Questa consapevolezza ha portato poi alcuni membri dell’ILO, della FAO e dell’UNDP, a ragionare insieme con l’UNRISD (Istituto di Ricerca per lo Sviluppo Sociale), la più piccola istituzione dell’ONU, in particolare in occasione di eventi organizzati dal Forum Internazionale per l’ESS (ESSFI), decidendo di condividere l’impegno e fare fronte comune su queste tematiche, creando una Task Force sull’ESS alla quale hanno aderito subito una quindicina di agenzie ONU. Uno degli obiettivi – che non è ancora pienamente raggiunto – era di assicurarci che le organizzazioni e le agenzie fossero pienamente coinvolte e coordinate nel lavoro relativo all’ESS. Non si tratta, attraverso la Task Force ONU, di imporre una visione, ma piuttosto di poter offrire, nel ventaglio di opzioni che si presentano ai governi, i vantaggi che possono trarre dal creare un quadro legislativo che facilita le iniziative basate sull’ESS, e magari di prevedere dei meccanismi par aiutarle a crescere. Sottolineo che gli organismi ONU devono essere neutri di fronte agli orientamenti politico-economici di ogni nazione. L’aiuto fornito dall’ONU non è condizionato ma risponde agli orientamenti di ciascuno in piena trasparenza internazionale. Parallelamente, altre istituzioni hanno preso delle iniziative per sostenere l’ESS, tra le quali posso menzionare l’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), che fa da volano per le riflessioni su queste tematiche, con personale dedicato, di cui è incaricata l’italiana Antonella Noya; e l’Unione Europea. L’UE investe nel sostegno all’ESS in maniera molto efficace. Per migliorare il confronto e il coordinamento abbiamo quindi inserito nella Task Force ONU l’OCSE e l’UE, cosi come vari osservatori della società civile tra i quali il RIPESS (Rete Intercontinentale per la Promozione dell’ESS), ESS-FI (Forum Internazionale dell’ESS), il GSEF (Global Social Economy Forum) e altri. Le riflessioni e i lavori si svolgono in modo orizzontale, anche se le decisioni sono prese dalle agenzie ONU. Contemporaneamente all’istituzione della Task Force, grazie all’ESS-FI, si è creato un gruppo pilota di paesi dedicato alla promozione dell’ESS, per portarla all’attenzione dei governi. Iniziativa, questa, per cui dobbiamo in particolare ringraziare François Hollande che si è personalmente impegnato mentre era Presidente della Repubblica Francese. Ne fanno parte il Marocco, le cui esperienze di ESS dimostrano ampiamente l’utilità di questo modello economico, il Costa Rica, la Colombia, l’Ecuador ed altri.
Uno degli obiettivi di lavoro attuali della Task Force è di fare prendere coscienza del ruolo di spicco che svolgono le strutture dell’ESS per il raggiungimento degli Obiettivi dello Sviluppo Sostenibile, in particolare a livello locale. Ci sono molti modi per far crescere questa economia a livello locale e usarne le soluzioni creative per migliorare la situazione in delle comunità.
Nel raccontarti tutto questo, voglio sottolineare quanto potere abbiano le persone nel produrre cambiamento. Il motore della Storia sono sempre le persone che prendono un impegno. I 28 pionieri di Rochdale, Duttweiler della Migros e via discorrendo. Che sia 1, 20 o 200, sono le persone che fanno la differenza. E la Storia, all’ONU, si sta facendo con i Mahbub e con i Draper. Una struttura organizzativa perfetta, ma senza le persone adeguate, non ha alcuna efficacia. Quando qualcosa non funziona, ciascuno si chieda che cosa ha fatto di sbagliato, o cosa non ha fatto e avrebbe dovuto fare. L’adozione degli SDGs, ad esempio, è il risultato finale di un impegno enorme del personale ONU, partito tre anni prima della scadenza degli MDGs. Le agenzie in quanto tali (l’UNDP, l’UNFPA, l’UNICEF etc.) hanno provato a coinvolgere il maggiore numero di persone e istituzioni per arrivare a degli obiettivi che non fossero calati dall’alto, ma facendoli nascere dal basso. La consultazione dell’UNDP, ad esempio, ha coinvolto 2 milioni di persone. Questi processi contribuiscono a far sorgere una coscienza collettiva e magari una nuova cultura. Oggigiorno abbiamo bisogno che i responsabili delle imprese dell’ESS capiscano l’importanza di non limitarsi a fare bene il loro lavoro, ma di impegnarsi anche con tempo e risorse per fare crescere l’ESS a tutti i livelli, per farle acquistare un peso maggiore nell’economia generale.
Noi ora vorremo che l’Assemblea Generale dell’ONU riconoscesse ufficialmente il ruolo positivo dell’ESS dovunque esiste, e ne sottolineasse il potenziale per raggiungere gli SDGs. Ha già fatto un passo significativo in passato, istituendo la Giornata delle Cooperative, che ha l’obiettivo di puntare l’attenzione sul ruolo positivo del cooperativismo. Ma l’ESS va ben oltre le sole cooperative, il che richiede ancora lavoro per ampliare la rappresentanza di tutti gli attori che rientrano in questo campo.
Parliamo del futuro dell’ESS. Quale sarà secondo te la principale evoluzione dell’ESS nel prossimo futuro? Quale sarà il suo ruolo nella trasformazione dei sistemi economici?
Jean Fabre: È difficile fare una previsione esatta, perché la Storia non è mai scritta. Possiamo sperare che quello che abbiamo costruito sia sufficientemente forte e in grado di resistere a lungo, ma ciò che costruiamo di positivo si scontra sempre con quelle che in economia si chiamano “esternalità”. L’economia egemonica, nel mondo, sarebbe crollata senza l’ESS. Ma non vogliamo che l’ESS sia un cerotto sulla piaga, come dicevamo all’inizio della nostra chiacchierata. Io non ti posso dire qual è il futuro dell’Economia Sociale e Solidale. Penso, però, che il futuro sia l’economia sociale e solidale. I modelli economici tradizionali hanno mostrato i loro limiti e le conseguenze disastrose che seguono. L’alternativa è un mondo caratterizzato da sempre maggiori tensioni, violenze, disuguaglianze, e con un ambiente naturale devastato in maniera irreversibile.
Perciò io credo che dobbiamo capire come costruire il futuro, insieme. Una delle cose importanti, per riuscirci, è concepire il nostro mondo secondo il principio di sussidiarietà. Per cui le decisioni devono essere prese sempre il più vicino possibile alle persone, mettendo al centro il loro benessere e felicità, e non il capitale. L’ESS va bene perché, avendo molte radici locali, può facilitare questa cultura della sussidiarietà. Cultura che non nega affatto l’interdipendenza e la rilevanza dei grandi attori sociali e istituzioni, ma pone la soluzione dei problemi al livello giusto. Se riusciamo a crescere umanamente, allora riusciremo a superare la sfida. Non bisogna rimanere paralizzati di fronte alle esternalità negative prodotte dalle politiche e dell’economia egemonica, ma reagire ad esse. Attraverseremo dei tempi complicatissimi, perché il sistema economico egemonico è stato cosi pervasivo da raggiungere ogni ambito delle nostre società. Il sistema attuale è sempre più instabile, ha bisogno non solo di correttivi, ma di un’altra via. Il futuro non può essere lì. Il futuro sta nel prenderci cura gli uni degli altri, attraverso un modello economico e modi di fare impresa che mettano al centro la persona e le comunità, puntando a sistemi sostenibili sia dal punto di vista sociale che sul piano ambientale.
[1] Si veda l’articolo di Amitai Etzioni: The Third Sector and Domestic Missions, «Public Administration Review», Vol. 33, n. 4, 1973.
[2] Rafael Chaves e Jose Luis Monzón, Beyond the crisis: the social economy, prop of a new model of sustainable economic development, «Service Business», 6(1) 2011, 5-26.
[3] Zygmunt Bauman le definisce: «Les tontines sont des associations regroupant des membres d’un clan, d’une famille, des voisins ou des particuliers, qui décident de mettre en commun des biens ou des services au bénéfice de tout un chacun, et cela à tour de rôle».