Effettività del potere e sovrastrutture mediatiche. Intervista a Bruno Montanari
- 24 Febbraio 2021

Effettività del potere e sovrastrutture mediatiche. Intervista a Bruno Montanari

Scritto da Nicola Dimitri

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La vicenda dell’appena trascorsa crisi di governo, che si è inscritta all’interno di un momento storico caratterizzato da un generalizzato senso di incertezza – sanitaria, economica e valoriale –, sembra evidenziare uno scollamento tra la sfera politico-istituzionale e il tessuto sociale. In questo senso, sono sempre di più gli episodi che testimoniano una vera e propria divergenza tra le istanze sociali, che in un momento di emergenza per essere prese in considerazione necessiterebbero di una marcata coesione istituzionale, e le posizioni assunte dagli attori politici che, invece, in conflitto tra loro, sembrano dare priorità a interessi del tutto individuali. Ebbene, un siffatto scenario, testimonia l’esistenza di uno scarto netto, di una distanza profonda, tra realtà politica e realtà sociale. Al riguardo (senza entrare nel merito politico dell’odierna crisi di governo e dei più recenti risvolti) una simile circostanza offre l’occasione per formulare una riflessione attorno al rapporto che lega l’ordinamento giuridico alla società e il potere istituzionale al potere effettivo tenendo, al contempo, in considerazione il ruolo, entro questi rapporti, esercitato dai mezzi di comunicazione. 

Bruno Montanari è Professore Ordinario di Filosofia del diritto e Teoria generale del diritto. Ha insegnato nelle facoltà di giurisprudenza delle Università di Bari e di Catania e dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Tra le sue pubblicazioni: Fenomeni sociali e lettura giuridica (Torino 1989), Effettività e giuridificazione. Il diritto sindacale negli anni ‘80 (Milano 1990), Itinerario di Filosofia del diritto (Padova 1995), Luoghi della Filosofia del Diritto. Idee, strutture, mutamenti (Torino 2009) e La fragilità del potere (Milano-Udine 2013).


Hans Kelsen in Lineamenti di dottrina pura del diritto affermava che in qualsiasi fatto considerato come diritto si possono distinguere due elementi: uno di questi appartiene alla categoria dei comportamenti umani e corrisponde per lo più ad un accadimento esteriore «sensibilmente percepibile», che procede nello spazio e nel tempo secondo la legge di causalità; l’altro elemento, invece, qualifica giuridicamente l’accadimento esteriore attribuendo all’atto umano uno specifico significato normativo. Ad esempio, ci avverte Kelsen: «in una sala si riuniscono degli uomini, tengono dei discorsi, gli uni si alzano dai loro posti, gli altri rimangono seduti: questo è un accadimento esteriore. Il suo senso è che una legge è stata votata». In questo senso, il sistema del diritto non solo interviene e agisce sulla società ma esprime la società stessa: che è rappresentata dalla somma dei fatti giuridici che il diritto ammette. In altre parole, collegando ai comportamenti umani una determinata norma, l’ordinamento giuridico (rappresentato da una struttura “a gradini” – Stufenbau – di norme in reciproco rapporto di convalidazione) risolve i conflitti e permette, in una costante relazione di conformità tra norma e accadimento, di perseguire finalità sociali e incentivare comportamenti vantaggiosi per la collettività. E invero, l’ormai cronica debolezza del parlamento – definito da Kelsen, non a caso, «organo della società» – accompagnata dal sempre più frequente ripiegamento dell’azione politico-istituzionale ad esigenze del tutto particolari, evidenzia uno smarrimento della forza legittimante l’azione di governo?

Bruno Montanari: Come ha affermato nella premessa, esiste un’evidente distanza tra realtà politica e realtà sociale dovuta ad un progressivo smarrimento del senso delle istituzioni – del loro significato costituzionale e del loro valore politico – che si è andato ad affermare, aggiungo io, a partire dai primi anni Novanta. Le ragioni di una così marcata discrasia sono numerose ma, senza dubbio, parte di questo fenomeno è riconducibile alla spettacolarizzazione della politica da parte dei mass media. In questo senso, i cosiddetti media hanno finito, col tempo, per sostituirsi, direi strutturalmente, ai luoghi istituzionali della politica; al riguardo, basterebbe pensare all’utilizzo disinvolto dei social network, per veicolare dichiarazioni anche a forte rilievo istituzionale. È un tema centrale per la nostra conversazione, sul quale tornerò.

Per il momento intendo osservare che la sostituzione ora segnalata determina una ulteriore, grave, conseguenza: mentre il Parlamento – definito da Kelsen, appunto, “organo della società” – è un luogo dotato di una sua precisa identità materiale che, proprio per questo, identifica, legittima e responsabilizza chi vi siede e vi agisce, e dove il dibattito avviene in modo diretto e immediato, la comunicazione mediatica, quella distribuita tra diverse reti in concorrenza tra loro, ma tutte appartenenti al “sistema della affidabilità”, determina lo svuotamento della identificazione istituzionale e la conseguente trasformazione del dibattitto nella liquefazione di affermazioni apodittiche e, spesso, narcisisticamente contrapposte tra loro. Un simile fenomeno, non favorendo il confronto, disabitua il cittadino al rispetto delle Istituzioni; anzi, lo induce ad ignorarle, sia dal punto di vista della loro conoscenza, sia da quello della legittimità dell’azione. Tra la performatività immediata e pervasiva dell’agire massmediatico e la lentezza, spesso opaca, del funzionamento delle procedure – propriamente – istituzionali, si determina il ripiegamento dell’azione politico-istituzionale ad esigenze del tutto particolari ed il potere funzionale proprio del governare si mescola e si confonde con una negoziazione tra poteri di fatto.

 

Claus Offe nel volume L’Europa in trappola. Riuscirà l’UE a superare la crisi? traspone le problematiche finora esposte a livello europeo. Al riguardo sostiene che «ci troviamo di fronte ad un divario abissale tra le politiche e la politica, tra le misure che sarebbero necessarie e le istituzioni in grado di approntarle». Sorge dunque, sia in Italia che in Europa, un problema di accountability e responsibility, quindi di capacità della classe politica nel rispondere ai bisogni collettivi e di responsabilità nel veicolare le sfide di governo verso le più concrete istanze sociali?

Bruno Montanari: La sua domanda che si ricollega alla precedente, sollecita, ora, una riflessione attorno allo stato in cui versano le cosiddette democrazie occidentali, ove è evidentemente in gioco una vera e propria contrapposizione tra “poteri di fatto” (o effettivi) e “poteri funzionali” (o istituzionali, in senso ampio). La distinzione tra poteri effettivi e poteri istituzionali è sempre storicamente esistita anche se con modalità diverse: ora in modo non apparente, ora, invece, in modo evidente. Senza addentrarci negli esempi che non mancano, preferisco limitarmi a quanto accade nelle società democratico-rappresentative del secondo Novecento. In esse sembra verificarsi una coabitazione dei due tipi di potere, spesso in modo chiaramente distinto e talora anche in maniera diffusa e trasversale nelle istituzioni. Con una novità, però, che differenzia lo scenario novecentesco da quello attuale: la globalizzazione nella sua declinazione tecnologico finanziaria. Mi spiego. Il rapporto tra poteri effettivi e poteri istituzionali nelle democrazie rappresentative avveniva, prima dell’avvento della globalizzazione, sotto il primato indiscusso della politica e della sua sede costituzionale, lo Stato.

Del resto, non poteva essere diversamente, posto che quel sistema di potere, come dimostra il successo della teoria normativistica kelseniana, aveva nel suo DNA il rispetto dell’ordinamento giuridico come strumento di controllo di ogni abuso autoritario. In altre parole, presupponeva la coincidenza tra Stato di Diritto e Diritto dello Stato ed il rispetto, sia pure “ipocrita”, ma socialmente efficace, dei poteri effettivi per le forme istituzionali.

Lo scenario cambia radicalmente già dagli anni Novanta, e definitivamente nel secolo che viviamo. A partire da questo tempo, infatti, appare chiaro come quel DNA non si sia trasmesso nelle generazioni che si sono formate (“formate”, non nate) dagli anni Settanta in poi, nelle quali il mercatismo economicistico ha generato l’idea che i fatti economici siano più forti e incisivi delle norme del sistema ordinamentale classico. Basti sottolineare come alla parola “ordinamento” si sia sostituito, nella abitudine comunicativa, il termine “governance” che è l’esatto contrario; basti notare l’incertezza delle istituzioni europee e la loro dipendenza politica, nei fatti, dai mercati finanziari e dalle agenzie di rating e, ancora, basti osservare la disinvoltura con la quale alcuni Stati dell’UE contestino qualsiasi controllo circa la conformità del proprio sistema di governo ai principi dello “Stato di diritto”.

Conseguenza di tale fenomeno è, inevitabilmente, l’evaporazione della politica (e, con essa, l’indebolimento della figura dello Stato) nonché, la frantumazione dell’ambiente sociale in una moltitudine individualistica, privata, almeno in Italia, di quella intermediazione politica (partiti e sindacati) che edificava, culturalmente, e garantiva, socialmente, una accettabile rappresentatività. È in questo senso che le due figure Stato di diritto e diritto dello Stato sono divenute progressivamente non coincidenti. Non coincidenti al punto che il “principio di legalità” ha finito per cedere il passo, talora, ad atti normativi anche costituzionalmente incerti nella sostanza e, nel contesto europeo, ha finito per sostenere governi sì legali, ma chiaramente fuori dello Stato di diritto.

In definitiva, il processo di globalizzazione tecnologico-finanziaria realizza nei fatti il deperimento dello Stato e con esso della forza direttiva della politica. I profitti monetari sono rapidi e immediati e ormai sono indipendenti da qualsiasi riferimento sociale; in più, possono prescindere da un riferimento politico di base, come è accaduto con l’Euro e come accade oggi con il Bitcoin. La crisi odierna appare, quindi, il prodotto di quella profonda disarticolazione, che investe il sociale e l’idea stessa di politica (“il Politico”: das Politische), che si è verificata nell’ambiente umano a partire dall’egemonia della globalizzazione economicistica cominciata nell’ultimo decennio del Novecento e progredita nel nuovo secolo in maniera più pervasiva a causa della sua declinazione tecnologico-finanziaria.

 

Tra istituzioni e tessuto sociale intercorre un fitto rapporto di interdipendenza. Più nel dettaglio, ogni organismo pubblico si fa portatore di una serie di principi e valori che, inevitabilmente, influenzano la collettività e la condotta degli individui. Ad esempio, ci ricorda Mary Douglas, se le pratiche solidaristiche e di sostegno reciproco non trovano conforto a livello istituzionale, i cittadini saranno meno propensi ad operare in cooperazione tra di loro. Pertanto, posto che i principi e i valori imperativi del mercato hanno, nel tempo, inciso notevolmente sulla priorità dello Stato – basti pensare all’attenzione spasmodica che le istituzioni riservano alle agenzie di rating o alle misure che vengono adottate al solo fine di mantenere alta la fiducia degli investitori privati – è ancora possibile parlare di rappresentatività dell’elettorato? Inoltre, in che modo il linguaggio adoperato dalle istituzioni, spesso stravolto dal linguaggio economico (si pensi, appunto, ai termini austerity o governance), e veicolato acriticamente dai mass media, incide sulla consapevolezza dei cittadini circa le più concrete priorità sociali, le più opportune misure da adottare, le necessarie riforme da apportare.

Bruno Montanari: Questa domanda solleva la questione della, ormai, debole tenuta delle democrazie rappresentative. Max Weber in Economia e Società metteva in luce come la legittimazione del potere, fondato sulla legalità, presupponesse un ambiente sociale in cui fosse vigente la «credenza» (Glaube – più propriamente nel senso anche di “fiducia”) nell’ordinamento e nelle Istituzioni. Parlare di credenza, riferita al potere e alla sua legittimazione, significa avere presente – empiricamente – un gruppo di uomini unito nell’idea che il potere cui deve obbedire è credibile ed è “credibile” in quanto espressione di un apparato legale condiviso, denominato “ordinamento giuridico”; il potere di fatto si converte, così, in autorità di governo. In altre parole, in tanto prende forma una “credenza”, in quanto si costruisce un tessuto sociale attorno a valori di fondo condivisi e quindi unitivi e stabili.

Tutto dipende, insomma, dalla qualità sociologica del presupposto di fatto sottostante l’ordinamento. Se, infatti, le due figure, società e ordinamento, sono tra loro in continuità in virtù della credenza, allora il principio di legalità e la legittimazione politica del potere sono l’una lo svolgimento fisiologico dell’altra; ma se le due figure, per ragioni storiche, non sono più in continuità, allora il principio di legalità non costituisce un argine all’autoritarismo del potere (come già avvenne nei due decenni successivi alla Grande Guerra).

Vengo ora al profilo tematico contenuto nella domanda: la rappresentatività dell’elettorato. Una tale questione è intimamente connessa con il tema della credenza sociale e, dunque, con gli strumenti comunicativi attraverso i quali il potere si legittima. Il processo comunicativo per antonomasia, come è noto, è la propaganda (alla quale negli anni Cinquanta, non a caso subito dopo il secondo conflitto mondiale, Lasswell e Kaplan dedicarono uno studio particolarmente penetrante, pubblicato in Italia dal Mulino nel ’97 con il titolo Potere e società) la quale orienta certamente i comportamenti ma, ancor prima, mette in forma qualcosa di più profondo, direi subliminale: l’abito mentale dei destinatari. Esso consiste in una predisposizione di fondo dell’ambiente sociale verso la introiezione e meccanica condivisione di un apparato dei messaggi linguistici e iconici capaci di indurre reattivamente la risposta comportamentale progettata dall’attore del messaggio. E, invero, con l’attuale primato dell’economia sulla politica e il conseguente venir meno di un solido pensiero giuridico, capace di riflettere la fiducia del cittadino nell’ordinamento, è evidente che si indebolisca la capacità del potere politico-istituzionale non solo di farsi promotore – per così dire – di istanze sociali, ma anche di elevarsi a rappresentante del tessuto sociale che le ha poste.

Ecco che allora la questione della rappresentatività / rappresentanza del sistema politico apre l’interrogativo circa il ruolo che svolgono i media della informazione, sia dal punto di vista del dare o non dare le notizie, sia soprattutto nel come veicolarle: con quale ordine, con quale linguaggio, con quale costruzione e sottolineatura degli argomenti; soprattutto, con quale riferimento alle Istituzioni interessate ed al ruolo ed alla funzione delle persone che le incarnano e le rappresentano. Non è senza significato che l’immediatezza linguistica, di cui si avvale la comunicazione mediatica, sia quella dei mezzi di informazione più tradizionali sia quella che circola sul Web, esiga di saltare ogni riferimento ad entità che appaiono impersonali (come sono appunto le Istituzioni); meglio ripetere, invece, nomi di persone, incardinandoli in specifiche attività o operazioni secondo etichette stereotipate. Il nome più l’etichetta corrispondente hanno un impatto mediatico immediato assai più efficace che non allenare il cittadino alla comprensione e ad una riflessione consapevole.

 

È un fatto che, sia in Europa che in Italia, la politica è divenuta sempre più mezzo di legittimazione di scelte economico-finanziarie dettate dai mercati. Una simile circostanza non solo ha allontanato la comunità dal partecipare attivamente alle questioni di politica sociale che concretamente involgono gli interessi dei cittadini (allontanati dal pervasivo paternalismo tecnocratico che si fa promotore di riforme apodittiche e alimenta l’asimmetria culturale e linguistica) ma ha creato spazi vuoti, destrutturanti, in cui ad essere compromesso è lo stesso spazio pubblico. In altre parole, come ha affermato Zagrebelsky, è evidente come «la parte più importante delle decisioni che riguardano la nostra vita è oramai collocata su una scala dimensionale sulla quale gli Stati non hanno più presa». Ebbene, si potrebbe affermare che il potere effettivo, il potere esercitato dai mercati, ha preso il sopravvento sul potere istituzionale, addomesticandolo?

Bruno Montanari: La risposta alla sua domanda implica una osservazione preliminare: qualsiasi riflessione che abbia per oggetto specifiche proiezioni pratiche dell’attività umana, nei diversi settori in cui essa si svolge, non può prescindere da una antropologia che definisca il tipo di umanità collocata in un certo tempo e in un certo spazio. Oggi, le tecnologie digitali dell’informazione, la cosiddetta “Infosfera” (secondo il lessico di Luciano Floridi), hanno prodotto una vera e propria “mutazione antropologica”, nel senso che, intervenendo sulla identità stessa del “sé”, hanno modificato di conseguenza il senso delle relazioni interpersonali e dello “stare insieme” (la frantumazione sociale prima accennata ne è manifestazione). Il che significa che è cambiato il concetto stesso di “società”, così come ci è pervenuto nel tempo storico. Tale mutazione riguarda evidentemente tanto i cittadini comuni quanto le classi dirigenti. Poiché i sistemi democratico-rappresentativi sono nati e cresciuti come espressioni di una idea di società (e con essa di politica e di diritto) precedente la mutazione antropologica verificatasi con il successo dell’Infosfera, la questione che si pone è se ci sia ormai coerenza tra il sistema politico ereditato dal Novecento (tanto per rimanere in un tempo a noi vicino) e l’attuale conformazione dell’ambiente umano di riferimento.

Ciò che, allora, viene attualmente in questione è proprio quella performatività sociale del sistema comunicativo, prima sottolineata, che ha reso fragile, nei fatti, l’effettività del sistema politico – istituzionale, fondata su di un’idea di cittadinanza comune, capace di mettere in forma una unità di fondo, costituzionalmente formalizzata, oltre le fisiologiche differenze culturali. In tale contesto, i “colossi” tecnologico-finanziari, proprio navigando nella globalità del pianeta, superano i confini dell’ordinamento giuridico e dominano nei fatti la scena comunicativa e istituzionale. Essi, quindi, pur non dipendendo, come è noto, da alcuna autorità politica statuale o sovranazionale, realizzano a tutti gli effetti una attività che dovrebbe definirsi, se legittimamente svolta, di servizio pubblico; rispetto alla quale, invece, la politica, come sistema di governo, ha rinunciato alla sua propria funzione regolatrice. In altre parole, nell’assenza della politica di fronte a detti colossi, si manifesta compiutamente l’effettività del loro potere, cui corrisponde l’irrilevanza dei poteri istituzionali: si pensi all’assenza fiscale. Ciò rappresenta, da un lato e più in generale, la ritirata dello Stato dalle decisioni più importanti della vita in comune e, dall’altro, il modo in cui il sistema di potere effettivo stabilizza la propria performatività, arrivando a interferire con il servizio pubblico dell’informazione mediatica formalmente legittimo, fino a disciplinarne anche il dettato.

In questi termini, la situazione che ho descritto mi sembra dar conto della questione posta circa l’esercizio di un potere effettivo del cosiddetto “mercato” sui processi istituzionali. Se, infatti, si incrociano i vari elementi illustrati, l’interrogativo che si pone è: quale rapporto esiste oggi tra conformazione umana dell’ambiente sociale e sistemi democratico-rappresentativi? Meglio: su quale livello di consapevolezza e responsabilità del cittadino si fondano i processi elettorali che legittimano le linee di governo interne ed internazionali? E, ancora, quale è la meccanica di ragionamento di coloro che fanno parte delle attuali classi dirigenti? A quale cultura politica, in senso proprio, essi si sono formati? Questi interrogativi ne rinviano ad un altro che sta sul fondo: quali sono gli interessi, di varia natura, economici, finanziari, socio-politico-gestionali e di conformazione dell’ambiente umano, che muovono le finalità gestionali dell’informazione-comunicazione dei “colossi” del Web e dai quali risulta condizionata anche la comunicazione mediatica domestica?

Si tratta di interrogativi che spesso trovano posto in ricognizioni che possono essere svolte con il distacco proprio di un esercizio intellettuale; la cosa cambia, quando essi si pongono in corrispondenza di momenti che, coinvolgendo la vita interna di una società e di uno Stato, finiscono per toccare immediatamente la vita del cittadino comune, in quanto si materializzano nella esperienza quotidiana di ciascuno di noi.

Scritto da
Nicola Dimitri

Assegnista di ricerca in Filosofia del diritto presso l’Università degli Studi di Messina. Dottore di ricerca in Filosofia del diritto e Storia della cultura giuridica presso l’Università di Genova, si è formato all’Università degli Studi di Roma Tre, all’Università di Verona e all’Istituto di Studi Filosofici di Napoli. È autore di: “La crisi della solidarietà. Condizioni del legame sociale e paradossi europei” (Castelvecchi 2024).

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