“Egemonia. Da Omero ai Gender Studies” di Giuseppe Cospito
- 11 Luglio 2022

“Egemonia. Da Omero ai Gender Studies” di Giuseppe Cospito

Recensione a: Giuseppe Cospito, Egemonia. Da Omero ai Gender Studies, il Mulino, Bologna 2021, pp. 184, 14 euro (scheda libro)

Scritto da Giulio Pignatti

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Il concetto di egemonia è protagonista, ormai da qualche anno, di una vera e propria riscoperta a livello mondiale. Valorizzato in ambito anglofono e portato alla ribalta dalle diverse branche dei Critical Studies, è oggetto, in parte di riflesso, di un numero sempre crescente di studi anche in Italia. Se infatti la galassia concettuale dell’egemonia è indissolubilmente legata alla teorizzazione di Antonio Gramsci, il recente libro di Giuseppe Cospito, che pur è tra i maggiori esperti italiani del politico e pensatore sardo, intitolato appunto Egemonia. Da Omero ai Gender Studies (il Mulino 2021), si pone l’obiettivo di allargare lo sguardo sulla lunga storia della nozione.

In questo contributo accessibile anche ai non specialisti, volutamente non esaustivo nelle sue varie tappe, Cospito recupera la radice greca di hegemonia per mostrare la “classicità” di un concetto presente fin dalla nascita della civiltà occidentale nel suo lessico fondamentale. Egemonia perde dunque la sua caratterizzazione eminentemente gramsciana – come direzione politica e intellettuale di una classe sociale rispetto alle classi alleate e dominio su quelle avverse – per andare a indicare, più in generale, quella dialettica tra forza e consenso caratteristica dei rapporti di conflitto – politici, sociali, internazionali. Come scrive l’autore, tale plesso di dominio e persuasione, peculiare di ogni relazione egemonica, «coinvolge una serie di fenomeni molto più numerosi di quanto comunemente si creda» (p. 12).

Probabilmente è il “momento greco” – e la sua valorizzazione anche nella prospettiva della ripresa ottocentesca e della stessa elaborazione gramsciana – la parte più innovativa del libro. Se nei poemi omerici ricorre spesso il verbo del “condurre”, hegeomai, e il corrispettivo hegemon, “guida” o “capo militare”, è con gli storici greci, Erodoto e Tucidide, e soprattutto con l’assetto delle polis greche del V secolo a.C. che emerge il significato più pregnante dell’egemonia. In questo contesto ad essere egemone è una polis, Atene, che non esercita un dominio coercitivo sulle altre città greche ma incarna piuttosto il compito di guida e di direzione, che all’elemento militare affianca quello più largamente politico e culturale. In Erodoto questo modello di libera associazione plurale sotto un hegemon preminente viene poi contrapposto al dispotismo monocratico orientale, in un’antitesi che sarà caratteristica di larga parte della civiltà occidentale e del suo pensiero politico – nonché, da ultimo, dello sguardo con cui oggi guardiamo verso Est.

Dal mondo greco e dall’egemonia ateniese sulla Lega delio-attica emerge insomma un modello di governo basato sul consenso e in cui anche gli elementi intellettuali e retorici – «la parola esercita l’egemonia su tutte le cose», insegna Isocrate – giocano un ruolo rilevante. Non a caso, è con il declino della leadership ateniese che il termine hegemonia torna a indicare, come in Omero, il semplice comando militare.

Da allora, quella del concetto di egemonia è soprattutto una storia di termini – scomparsi, mutati, mancanti e ripresi. “Egemonia” si inabissa nell’inconscio della civiltà occidentale per secoli: non ci sono attestazioni significative né in epoca romana né medievale. Non si tratta evidentemente di ragioni meramente lessicali: la modalità di espansione dell’Impero Romano, basata sulla forza militare e sulla codificazione giuridica ma poi su un pluralismo dal punto di vista culturale, linguistico e politico, mal si adatta al concetto di origine greca, seppur per i primi secoli della storia romana la nozione di imperium – come dominio basato sul riconoscimento non violento di una maggiore autorità, anche morale – possa in parte sovrapporvisi.

Ma dove manca la parola non per forza difetta anche il concetto, e così l’elemento politico del consenso e della persuasione gioca un ruolo decisivo anche in un’epoca troppo spesso descritta come il trionfo dell’oppressione e del monolitismo fideistico quale il Medioevo. Proprio la presenza di potenze diverse e interdipendenti (la Chiesa, gli imperi, le realtà territoriali con la loro autonomia, ecc.) pone decisamente la questione della supremazia e delle sfere d’influenza. È più produttivo, sostiene ad esempio Cospito, leggere il primato di Firenze sulla Toscana del Trecento con le lenti dell’egemonia piuttosto che con quelle del predominio politico-militare. E in questo caso, secondo il topos che all’inizio della civiltà occidentale opponeva Atene a Sparta o alla Persia, al modello egemonico è contrapposto quello tirannico del dominio di Milano sulle città lombarde. Infine, a proposito di Firenze e del suo più famoso Segretario, l’autore riprende un’osservazione di Gramsci sulla «doppia natura del Centauro machiavellico, ferina ed umana, della forza e del consenso, dell’autorità e dell’egemonia, della violenza e della civiltà, del momento individuale e di quello universale (della “Chiesa” e dello “Stato”), dell’agitazione e della propaganda, della tattica e della strategia ecc.» (p. 52). Manca la parola, c’è il concetto.

Ma i termini possono anche rinascere, e così “egemonia” torna nell’uso delle lingue europee nel corso dell’Ottocento. Le prime attestazioni si riferiscono proprio alla storia dei rapporti tra le polis greche, e del resto i vocaboli moderni non sono che dei calchi del termine ellenico (hégémonie, hegemony, Hegemonie, ecc.). Ma questo concetto che porta con sé anche un’esperienza storico-politica determinata, dalla quale almeno all’inizio è inscindibile, viene presto utilizzato più ampiamente per indicare ad esempio il ruolo della Prussia e del Piemonte in relazione ai rispettivi processi di unificazione, tedesca e italiana. Proprio in ambito italiano, è a Vincenzo Gioberti che si deve una delle prime e più ricche teorizzazioni – a cui si richiamerà anche l’autore dei Quaderni del carcere – in merito all’egemonia, definita come «quella spezie di primato, di sopreminenza, di maggioranza, non legale né giuridica, propriamente parlando, ma di morale efficacia, che fra molte province congeneri, unilingue e connazionali, l’una esercita sopra le altre» (p. 70). Ci si avvicina sempre più all’uso moderno del concetto, che già in Gioberti si estende all’ambito linguistico, molto valorizzato da Gramsci stesso.

Infine, i termini possono ingannare, per la plurivocità ed evoluzione del loro significato. È il caso del concetto di dittatura, la cui storia si intreccia, pur non sovrapponendosi, con quella dell’egemonia. Da magistratura romana esercitata in nome e in difesa del popolo e caratterizzata da una durata limitata a rappresentazione del male assoluto nelle democrazie liberali, nella sua forma di “dittatura di classe” occupa, secondo le interpretazioni riprese da Cospito, il luogo dell’egemonia nel pensiero di Marx. È solo una sensibilità storico-concettuale che salva dal denunciare allora un nucleo totalitario nella teorizzazione marxiana, quando invece la dittatura del proletariato, come emerge soprattutto dalle opere storico-politiche del filosofo di Treviri, ha più a che fare, classicamente, con un intreccio di direzione e dominio esercitato nell’interesse della maggioranza e per una durata limitata.

Ed è proprio in seno alla tradizione marxista che il concetto di egemonia assume il suo carattere più determinato. All’impiego – corrente all’epoca – per l’analisi delle relazioni internazionali si affianca con il marxismo russo (da Plechanov fino a Lenin) la gegemoniya come direzione del proletariato del processo rivoluzionario, in alleanza con altri gruppi sociali, in primis i contadini. Egemonia del proletariato vuol dire allora capacità di esercitare il potere nel nome dell’interesse generale e non di quello corporativo, e dunque esige una ricerca di consenso politico ma anche più ampiamente culturale – come testimoniano le teorie di Aleksandr Bogdanov e l’istituzione del suo Proletkult.

Al ruolo di guida del proletariato in seno all’alleanza con i contadini fa riferimento anche la prima occorrenza in Gramsci, nel marzo 1924, della nozione studiata da Cospito. Nei Quaderni del carcere il concetto si approfondisce ed estende, fino a diventare l’arma teorica indispensabile per spezzare una visione economicista della storia secondo la quale la rivoluzione sarebbe un esito necessario dello sviluppo strutturale delle società. A seconda delle occorrenze, l’egemonia, che ora si riferisce all’esercizio del potere di qualsiasi gruppo sociale (non solo del proletariato), oscilla tra l’indicare l’elemento della direzione e del consenso che si affianca a quello del dominio e il significare, invece, l’inestricabilità dei due momenti. Su questa ambiguità si giocherà anche una buona parte dei dibattiti sull’eredità gramsciana e, ancor più, sulla natura del partito che Gramsci contribuì a fondare, il PCI. Una lettura dell’egemonia del partito vicina alla dittatura di classe marxiana – la lettura di Palmiro Togliatti – poneva evidentemente il problema dell’ammissibilità del PCI all’interno del gioco democratico, ed era pertanto l’arma critica di liberali e cattolici; un’interpretazione che valorizzasse maggiormente l’elemento del consenso era il modo, per altri intellettuali e politici di sinistra, di allontanarsi dall’URSS, in particolare dopo il 1956. Rimane in ogni caso il fatto che «non può esistere alcuna funzione dirigente e dominante senza una qualche forma di coercizione, indiretta e inavvertita, e viceversa» (p. 105). Per questo l’autore di Egemonia critica letture contemporanee del concetto gramsciano come quella dei Cultural Studies, che, nel tentativo di rivalutare l’aspetto “sovrastrutturale” (culturale e ideologico) della subalternità, tendono a trascurare il ruolo della forza e del potere coattivo.

Al pensatore sardo e alle sue celebri riflessioni sulla società civile, sul ruolo degli intellettuali e la “guerra di posizione” è dedicato il capitolo più denso di Egemonia; alla sua ricezione e all’eredità politica novecentesca, da Togliatti ai Subaltern Studies una sezione inevitabilmente più didascalica – ma molto utile per un primo orientamento.

Così, «da Omero ai Gender Studies», la cavalcata è completata. Retrospettivamente ci si può domandare la legittimità di questa operazione; in effetti, il rischio di voler mantenere una continuità nel senso dell’egemonia lungo tutta la storia della civiltà occidentale è quello di annacquare il concetto, slabbrandone i contorni. Cospito riesce bene a dipingere le figure della presenza di questo “soft power” in tutte le epoche storiche e politiche – anche se la scelta di disancorare il fatto dell’egemonia (inteso generalmente come intreccio di dominio e persuasione) dalla concettualizzazione e dall’uso espliciti della nozione (assenti, come abbiamo visto, dalla fine della classicità greca all’età premoderna) espone talvolta a una eccessiva indeterminatezza. Tuttavia, ciò a cui, anche per la sua concisione, il libro non risponde è la questione della rottura storica, in particolare tra l’epoca delle polis e quella moderna degli Stati nazione.

Infine, l’altra domanda che rimane aperta è quella sull’egemonia oggi – domanda che, anch’essa, esula dagli orizzonti del libro ma che è senz’altro decisiva da un punto di vista teorico e politico. Cospito in conclusione nota una «progressiva sottrazione all’orizzonte teorico-pratico del movimento comunista internazionale» (p. 169), a partire dagli anni Ottanta, del concetto gramsciano di egemonia, che pur va di pari passo con un grande successo di tale armamentario teorico – a detrimento di altri concetti “classici”, come quello di lotta di classe. Questa evoluzione, così come quella già menzionata relativamente ai Cultural Studies, ad essa legata, forse non è solo un riflesso della disaffezione politica rispetto alle esperienze del socialismo reale, ma è anche il sintomo di una differente composizione, almeno nell’Occidente “libero”, dei livelli del conflitto, tra quello politico-materiale della forza e della repressione e quello ideologico legato all’immaginario collettivo e al modo di rappresentarsi della società. Se l’egemonia ha sempre tenuto insieme dominio e persuasione, forza e consenso, forse è oggi più urgente – pur non cadendo nell’illusione di un mondo pacificato dove sarebbero scomparse violenza e coercizione – concentrare le attenzioni analitiche e politiche sul secondo lato, che già in Gramsci era il più innovativo. Atene non esitò ad assediare ferocemente l’alleata Mitilene, che voleva liberamente uscire dalla Lega delio-attica, mostrando apertamente la persistenza dell’elemento imperialistico in quello egemonico; oggi l’aspetto coercitivo appare invece sempre più incorporato e celato nel nocciolo stesso del consenso ideologico e culturale. Nel fiorire degli studi e delle discussioni sull’egemonia c’è forse anche questa consapevolezza – nonché la ricerca di risorse politiche e teoriche all’altezza per giocare il conflitto.

Scritto da
Giulio Pignatti

Dottorando di ricerca in Filosofia politica all’Università di Padova, dove si è laureato, e all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi. Collabora con una testata giornalistica locale ed è stato alunno del corso 2023 della Scuola di Politiche. I suoi interessi di ricerca riguardano la storia dei concetti politici moderni e la tradizione sociologica francese. È autore di “L’opinione dei moderni. Scienza sociale, critica e politica in Durkheim” edito nel 2024 nella collana “Critica Sociologica” di Castelvecchi Editore.

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