L’elastico della distanza
- 18 Aprile 2020

L’elastico della distanza

Scritto da Fabio Lavagno

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La distanza è un dato oggettivo? Lo è certamente quando parliamo di metri o di miglia, quando, cioè, parliamo di unità di misura. Lo è altrettanto quando parliamo di cultura? Prendiamo ad esempio quanto accade tra Oriente e Occidente. In questo caso la distanza è molto più simile a un elastico, e se è vero che i chilometri rimangono sempre immutati, quando parliamo di società (e di cultura) siamo di fronte proprio ad un elastico che si allunga e si accorcia. Ad insegnarcelo è la storia, e a raccontarcelo ancora meglio sono i fatti di questi giorni.

Se è vero che le civiltà si sono sviluppate autonomamente in varie parti del mondo[1], e che, nello specifico, quelle orientali sono sorte lungo le rive di fiumi e quella occidentale privilegiando il bacino del Mediterraneo, è altrettanto vero che ci sono stati momenti di maggiore o minore distanza ed è in questi ultimi che le due civiltà sono arrivate addirittura a toccarsi. A volte non solo a toccarsi, ma addirittura a influenzarsi o per usare un termine ambiguo, ma diffuso, a contaminarsi. Prendiamo ad esempio la scultura del Gandhara[2], l’arte statuaria buddista con chiari ed evidenti riferimenti ellenistici, che si è sviluppata come risultato della massima espansione della koinè, seguita alle conquiste militari di Alessandro Magno verso est sino a raggiungere le valli dell’Indo. Altre volte, le stesse civiltà, hanno corso in parallelo e contemporaneamente. Possiamo a questo proposito citare gli esempi di Socrate e Confucio[3], vissuti in due parti completamente differenti del mondo, entrambi educatori, il cui pensiero, per quanto differente, è stato trasmesso dai propri “discepoli” con testi dallo stesso titolo (I Dialoghi), rifiutati dai propri stati d’origine (l’uno suicida per evitare l’esilio, l’altro esiliato), ma entrambi con lo stesso disegno: dare vita ad una morale razionale, orientandosi con la bussola della ragione. Un altro momento di corsa parallela è rappresentato dalle esplorazioni navali. I Colombo, e i Magellano occidentali trovano un corrispettivo contemporaneo ad est in Zheng He. Se è vero che le teorie, che tanto hanno avuto risalto mediatico, rispetto alla sua “scoperta” delle Americhe[4] sono risultate tanto suggestive quanto inverosimili, è altrettanto vero che il navigatore cinese era dotato di mezzi maggiori e superiori di quelli messi in campo, o meglio in mare, da spagnoli e portoghesi e che, contemporaneamente a quanto avveniva sulle coste europee, si dedicò alle esplorazioni navali.

Se la vittoria nel 1905 del Giappone nella guerra con la Russia rappresentò la prima volta in cui l’Oriente, in tempi moderni, superò l’Occidente, non significa che questo non sia già avvenuto precedentemente, dimostrando che l’Oriente è molto distante da una concezione eurocentrica a cui siamo abituati. La cosiddetta “pax tartarica” nel XIII secolo non solo rappresentò un primo fenomeno di globalizzazione, ma anche un punto di grande superiorità tecnologica, culturale e politica dell’Oriente sull’Occidente. In questo contesto si spiegano le tante missioni francescane partite dall’Italia e dall’Europa, a volte prima di quelle di Marco Polo, volte a richiedere, da parte papale, un’assicurazione di non-belligeranza, quando non di alleanza anti-islamica[5].

Spesso la percezione dell’Oriente relegato a una presunta e perenne inferiorità[6], favorita dalla dimensione semi-coloniale imposta dopo i “trattati ineguali” delle due Guerre dell’Oppio, è causa del grande errore che ci impedisce di vedere le cose come stanno e di quanto l’altalena della superiorità e della distanza sia costantemente instabile[7].

Il tema della distanza inevitabilmente incontra quello del “confine” ed anche questo assume una dimensione tutt’altro che immutabile. Dove si colloca il confine tra Oriente e Occidente? La storia anche in questo caso potrebbe fornirci molti esempi, ma scegliamo una dimensione temporale a noi molto più vicina. Ricordiamo gli anni Novanta? Lo stesso decennio è stato inaugurato dall’entusiasmo (rivelatosi con il tempo del tutto fallace) derivato dalla caduta dei muri e in particolare del Muro. Questo ha rappresentato un immediato e impensabile, fino a pochi anni prima, riavvicinamento tra mondi che erano per definizione chiusi e in competizione. La guerra tra le repubbliche che costituivano la Jugoslavia, nel cuore dell’Europa (con un’Europa che nel migliore dei casi è stata spettatrice, nel peggiore è intervenuta basandosi su concezioni geopolitiche di interessi nazionali propri del XX secolo), ha avuto nell’immediato l’effetto di allontanare nuovamente quel confine che sembrava riavvicinato, anzi caduto[8]. Il rebus turco, poi: un piede in Europa e il corpo in Asia; il Bosforo che si allarga e si restringe sembra essere geograficamente la migliore metafora, da sempre, di questo effetto a elastico.

La rivoluzione digitale è stata certamente la più grande rivoluzione dai tempi di quella industriale, ma non ha rappresentato solo un cambiamento dei mezzi di produzione, ha avuto un impatto enorme per quanto riguarda gli aspetti cognitivi e percettivi. La rivoluzione digitale ci restituisce nel bene o nel male una società più orizzontale e percettivamente un mondo più piccolo, che qualcuno con piacevole gusto del paradosso ha addirittura definito finalmente “piatto”[9]. Si tratta di un fenomeno che si inserisce nel processo definito come globalizzazione a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni. Poiché si tratta di un fenomeno che abbiamo vissuto e stiamo ancora vivendo, stentiamo a darne un giudizio obiettivo e pieno. Ai detrattori della globalizzazione andrebbe osservato come questa abbia permesso a milioni di persone, che spesso ne erano escluse o sfruttate, di accedere ai processi produttivi; mentre agli entusiasti di stampo iper-liberista andrebbero ricordati gli enormi drammi sociali e occupazionali che questo ha comportato nelle società definite più avanzate e quali danni può aver prodotto la conseguente omologazione culturale. Quello che è certo è che questo fenomeno, unitamente alla rivoluzione digitale, ha certamente reso minori le distanze del mondo intero e anche all’interno della società. L’uso dei social network ha inevitabilmente ridotto, ad esempio, le distanze tra i cittadini e i propri rappresentati politici tanto da indurre addirittura partiti politici a basare sulla presunta efficacia della rappresentanza in rete la propria stessa ragione (di esistenza) e resistenza politica[10]. Eppure mai come oggi la distanza tra cittadini e rappresentanti politici appare elevata, tale da mettere in discussione l’intero impianto delle democrazie liberali[11]. Sono i social network ad aver permesso con un’enorme campagna di sostegno e foundraising agli Stati Uniti di eleggere il primo presidente afro-americano e sempre gli stessi social network hanno dato la possibilità a personaggi come Trump di distruggere anni di politica estera, diplomazia e diritto internazionale in soli 140 caratteri.

Sarà la tecnologia digitale, seguendo l’esperienza di Corea del Sud e Taiwan, a salvarci dalla presente epidemia mondiale in assenza di un vaccino? Ad oggi, in assenza di soluzioni concrete, il “distanziamento sociale” ha assunto un valore ormai intrinseco, divenendo in poche settimane un mero sinonimo di aspetto virtuoso. Eppure questo contrasta con quanto finora dato per assodato, in cui la sfera sociale e di socialità era un requisito fondamentale di integrazione e accettazione, mentre una generica asocialità scivolava presto in un giudizio legato a caratteristiche antisociali (politiche o patologiche). Quello che resta certo è che nell’attuale situazione di emergenza sanitaria la soppressione della vita pubblica ha enormemente aumentato la distanza tra gli individui, costretti ad una sfera fisicamente privata (le proprie abitazioni), ma ha anche dimostrato una volta di più come il mondo si sia enormemente rimpicciolito. In questo contesto, è paradigmatica l’evoluzione di un paese come la Cina che nel giro di poche settimane è passato da grande paziente – lontano e da allontanare – a interprete (e portatore) di una via d’uscita dalla crisi epidemica grazie ad un’azione diplomatica e di soft power intensa e capillare[12].

Se nel 1967 Marco Bellocchio titolava La Cina è vicina, dando origine ad uno degli stereotipi verbali tra i più abusati e falsi, oggi quella affermazione è quanto mai vera ed in questa dimensione resta anche ambigua. Sarà proprio rispetto alle distanze che si costruiranno le nuove sfide del XXI secolo.


[1] Diamond J. (2006), Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Torino, Einaudi [Nuova edizione accresciuta].

[2] Sherman E. L. (1965), Storia dell’arte orientale, Milano, Garzanti.

[3] Jaspers K. (2013), Socrate, Buddha, Confucio, Gesù. Le personalità decisive, Roma, Fazi.

[4] Menzies G. (2002), 1421 La Cina scopre l’America, Roma, Carocci.

[5] Sabattini M. e Santangelo P. (1996), Storia della Cina, Roma-Bari, Laterza.

[6] Borsa G. (1977), La nascita del mondo moderno in Asia Orientale: la penetrazione europea e la crisi delle società tradizionali in India, Cina e Giappone, Milano, Rizzoli

[7] Morris I. (2010), Why the West rules – for now: The Patterns of History, and what they reveal about the future, Londra, Profile Books.

[8] Dicosola, M. (2010), Stati, nazioni e minoranze. La ex Jugoslavia tra revival etnico e condizionalità europea, Milano, Giuffré.

[9] Friedman, Thomas L. (2006), Il Mondo è piatto. Breve storia del ventunesimo secolo, Milano, Mondadori.

[10] Lanzone M.E. (2015), Il Movimento Cinque Stelle, il popolo di Grillo dal web al Parlamento, Novi Ligure, Epoké.

[11] Di Gregorio L. (2019), Demopatìa. Sintomi, diagnosi e terapie del malessere democratico, Soveria Mannelli, Rubbettino; Morlino L. (2011), Changes for Democracy: Actors, Structures, Processes, Oxford, Oxford University Press.

[12] Lavagno F., Il ruolo della Cina durante (e dopo) la pandemia? Sempre più forte nel mondo, in «Gli Stati Generali», 25 marzo 2020.

Scritto da
Fabio Lavagno

Laureato in Lingue e Letterature Orientali (cinese) all’Università Ca’ Foscari di Venezia e specializzato in Studi Storici Internazionali all’Università Sorbona di Parigi, è professore di Lingua e Civiltà Cinese presso due Licei del Piemonte. Parlamentare nella XVII Legislatura, ha fatto parte delle Commissioni Finanze e Lavoro ed è stato membro di diverse delegazioni internazionali a Taiwan e in Giappone. Nel 2018 ha ottenuto una borsa di perfezionamento nell’ambito del Huayu Enrichment Scholarship Program dei Ministeri dell’Educazione e degli Affari Esteri della Repubblica di Cina (Taiwan) presso la National Normal University di Taipei. È autore con Vladimiro Satta di “Moro. L’inchiesta senza finale” (Edup 2018) e collabora con «Gli Stati Generali».

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