Scritto da Alessandro Strozzi
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Ventunesimo secolo. Globalmente il termine lobby è sinonimo di “un gruppo di persone la cui attività è finalizzata ad influenzare il decisore pubblico (legislatore – governo – pubblica amministrazione) al fine di garantire il soddisfacimento di un determinato interesse”. Ma il teatro di questa analisi è l’Italia, dove i professionisti del settore preferiscono identificarsi come rappresentanti di interessi, nella mal celata consapevolezza che l’originario termine anglosassone può sollevare indignazioni populiste o memorie di faccendieri della Prima Repubblica. Questa vulgata si basa sull’erronea convinzione che l’interazione con il decisore pubblico si basi su semplici relazioni di interessi personali — “a Fra’ che te serve” — piuttosto che su un lungo processo di analisi strategica e lavoro di back office; sulla promozione di terribili interessi multinazionali, piuttosto che sulla promozione di un più efficiente dialogo tra società civile e politica. Questo il quadro odierno nel nostro Paese, di un’attività la cui genesi però è ben lontana nei secoli, tanto che si potrebbe partire con un fiabesco c’era una volta…
Prima della storia era il mito, luogo della sfumatura, dell’illimite e del mistero. Terra dell’eroe Achille, del re degli achei Agamennone, ma sopratutto di Ulisse, consigliere ante litteram dei sovrani greci. Poi venne la storia e con essa l’evolversi della società umana. Che si accetti la prospettiva rousseauiana o quella hobbesiana, quella platonica o quella aristotelica, l’uomo rimane inserito in un contesto plurale. La necessità di preservare la propria individualità nella pluralità ha costretto gli esseri umani ad imporre ordine in quel che altrimenti sarebbe stato il caos. Da qui hanno origine le strutture sociali, da cui le gerarchie. Tra formiche e api, la gestione del formicaio/alveare è rimandata al “cervello collettivo”, rete neurale diffusa, di cui i singoli insetti costituiscono i neuroni. All’opposto, nella società umana, l’individuo può giocare un ruolo determinante grazie alla sua sola intelligenza, perciò si rende necessario fornire ad un gruppo di selezionati, le élite, la capacità di poter prendere decisioni che orientino l’intero corpo sociale, (nonostante non siano gli unici a poter interpretare tale ruoli). Da qui la nozione di potere, dal sanscrito pa, radice che rimanda a categorie quali creazione, dominio e responsabilità. Quella per il potere è la più spietata tra le lotte umane, che ha impegnato intere esistenze nella storia, determinate ad assicurarsi gloria, profitto o, più semplicemente, una maggior sopravvivenza. Ma la potenza (sociale) non è un attributo chiaro, marmoreo, solido. Piuttosto è un materiale plastico, mutevole che sfugge non appena si tenti di dare lui limites determinati. Come una brezza, che si può apprezzare solo lasciandola fluire senza tentare di afferrarla, così va il potere, che si nutre di scambi, relazioni e connessioni. In questa indeterminatezza si andrà consolidando quel tipo di figure, di cui i rappresentanti di interessi sono l’odierna testimonianza.
Nella “cosa pubblica”, potente è colui che appare tale, identificabile dalla “porpora”, colore del sangue e del sacrificio, che abbaglia con la sua maestosità ogni sguardo. Ma la porpora è solo un colore all’interno di una scala cromatica del potere che, nelle sue molteplici sfumature, ne contiene un secondo, più anonimo e neutro, ma non per questo meno rappresentativo: il grigio. È questo il colore caratteristico delle cosiddette “eminenze”, dette appunto grigie, titolo di cui hanno potuto fregiarsi coloro che nella storia furono in grado non tanto di detenere formalmente il potere, quanto di influenzarlo.
Nel teatro della politica, la mente mediocre dirà “sii il protagonista”, mentre la mente raffinata dirà “sii il direttore di scena”. Così si dirige il mondo, non sedendo sopra il trono, ma gestendo l’ingresso alla sala in cui lo stesso si trova. Contrariamente a quanto l’opinione comune sostiene, “eminenza grigia” originaria non fu il Cardinal Richelieu, Segretario di Stato di Luigi XIII durante la Guerra dei Trent’anni, quanto piuttosto l’assistente del Cardinale medesimo, un certo François Leclerc, detto Padre Giuseppe, che in quanto frate cappuccino si distingueva per il saio grigio, tipico indumento dell’ordine francescano. E così, mentre Richelieu assisteva nella sua appariscente veste rosso porpora sormontata da una incredibile armatura all’assedio di La Rochelle, il nostro “umile” frate lo consigliava sporco e scalzo, assistito dalla sua incrollabile fede riposta nell’Altissimo e dalla capillare rete di agenti segreti coltivata in tutta Europa.
Il dubbio sorge immediato. Chi fu il vero protagonista? L’appariscente Cardinale, agitato, dubbioso e spesso in preda a gravi crisi nervose, oppure il silenzioso e titanico frate, calmo e lungimirante? Al lettore l’ardua sentenza. Un dato però emerge chiaro: la storia sembra appiattirsi, per una naturale tendenza umana a ripiegare pigramente sul “fenomeno”, l’ufficialità, i colori accesi… tralasciando compromessi, complessità, nuances. Purtroppo però solo quest’ultimi strumenti concettuali possono fungere da bussola per fendere la fitta nebbia che avvolge le cose del mondo e degli uomini. Nebbia opaca, grigia, come i grandi consiglieri del passato… come gli antichi miti. Dunque, forse non è il potere formalmente riconosciuto, instituito e proclamato ad essere veramente tale, quanto piuttosto quello in grado di influenzarlo, plasmarlo, nasconderlo. Come la dottrina della guerra atomica insegna, non è l’effettivo utilizzo delle testate nucleari ad essere la vera arma, quanto piuttosto la minaccia implicita di utilizzarle. Nel potere il mistero dunque è tanto, forse tutto.
Se Alessandro Magno si rifece ad Achille e Prometeo non è un caso: il mito può permettersi con la sua potenza evocatrice di non sottostare ai vincoli della storiografia, la quale tenterà sempre di assomigliare al primo. Reale versus Ideale. Un potere misterioso, non rivelato, è di grado superiore rispetto ad un potere ostentato, rivelato. Il re regna, ma non governa, così l’eminenza/consigliere guida, ma non si espone. Perché ciò che si conosce si può capire, misurare, mentre ciò che non si conosce ricorda la natura divina e incute rispetto, riverenza. Il potere per essere tale ha bisogno di una ritualità avvolgente, che distanzi gli oggetti dello stesso dai suoi soggetti. In tale zona mediana, di ritualità e filtro tra “piazza” e “torre”, tra “anticamera” e “sala del trono”, si muovono i consiglieri del “Principe”, i mandarini imperiali, le eminenze.
La storia fugge, incalza e cambia certo, ma solo per tornare uguale a se stessa. Lo stesso principio è applicabile alla natura umana che, nonostante numerose conquiste tecnologiche e intellettuali, rimane nel suo nucleo immutata. Di modo che dinamiche sociali apparentemente vetuste, spesso solo perché identificate con terminologie altrettanto antiche, si ripropongo oggi identiche nella sostanza. In inglese la parola lobby sta ad indicare un corridoio collegato ad una sala più grande o ad una serie di sale, utilizzato come passaggio o sala d’attesa. Che differenza c’è tra la mitica tenda di Agamennone (che ospitava il consiglio dei re greci) ed il Transatlantico di Montecitorio? Emerge qui un paragone spontaneo, quasi lapalissiano, che ci riporta in maniera circolare all’inizio della presente riflessione: il lobbista non è che l’ultima evoluzione, erede culturale naturale della secolare arte delle eminenze grigie, grandi consiglieri di re. La sostanza è sempre la stessa, quella dell’influenza sul potere.
Che le si voglia regolamentare o meno, visto ciò che incarnano, bisogna accettare il fatto che le lobbies – in quanto protagoniste dell’influenza sul potere – ci sono, sono sempre esistite e sono qui per rimanere. Quello che il legislatore può fare, innanzi a questa mutevole “terra di mezzo”, è limitarne i confini, senza però pretendere di regolamentarne ogni minima sfumatura. Questo non per perpetuare la temuta opacità del potere ma piuttosto per necessità fisiologica. I luoghi del potere attrarranno sempre a sé rappresentanti del mare magnum sociale – avvocati, giornalisti, uomini d’affari, ONG… – desiderosi a vario titolo di interloquire con il decisore pubblico. Se non potranno ufficialmente, certo è che lo faranno in altri modi, forse molto poco trasparenti. Meglio non inseguire l’utopica trasparenza assoluta, ma creare spazi consentiti di incontro tra stakeholders, riconoscendone la funzionalità. James Madison, Padre Costituente degli Stati Uniti d’America, parlò nel Federalist Paper n° 10 di factions: “Un numero di cittadini, che siano essi una minoranza oppure la maggioranza, che sono uniti e mossi da comuni impulsi delle passioni o di interesse, che sono avversi ai diritti degli altri cittadini, o agli interessi permanenti ed aggregati della comunità”. Il grande pensatore americano seppe individuare la imprescindibile presenza dei gruppi di interesse all’interno del sistema istituzionale, che per questo dovevano essere razionalizzati. Così già la Costituzione del 1787 contiene il right to petition, da intendere secondo il significato del tempo come possibilità di interloquire con il decisore pubblico. Sempre in anticipo sul mondo, nel 1946 gli USA hanno emanato una regolamentazione organica delle lobbies, attraverso l’emanazione del Federal Regulation of Lobbying Act.
In Italia la prospettiva più in voga è quella della lotta senza quartiere, una cieca crociata verso la Gerusalemme della trasparenza, che ha determinato – ovviamente in concomitanza con molti altri fattori non analizzabili in questo contesto – la mancata emanazione di una consapevole e sistematica regolamentazione della rappresentanza di interessi. Come ha sapientemente indicato Pierluigi Petrillo nel volume Teorie e tecniche del lobbying, nel nostro Paese siamo in presenza di una normativa “strisciante ad andamento schizofrenico”. Senza nemmeno aver positivamente definito la fattispecie, sono stati introdotti istituti, come il traffico di influenze illecite, che puniscono un fenomeno dai contorni imprecisi. Di ben 82 progetti di legge presentati in materia di lobbying nessuno è stato approvato. Eppure a livello ministeriale e regionale, con alcuni tentativi nobili e altri assolutamente parossistici, sono emerse parvenze regolatorie. Ma basti, per superare i possibili dubbi di legittimità in materia di rappresentanza di interessi, fare riferimento alle sentenze 1 e 290 del 1974 della Corte Costituzionale, le quali statuirono il diritto di influenza sui poteri pubblici esercitato da gruppi di interesse.
In una relazione dicotomica che unisce bianco e nero, come Yin e Yang nella raffinata dottrina taoista, si configura inevitabilmente un trait d’union che sia “pontefice” dell’incontro tra i due opposti, senza il quale la relazione non sarebbe. Di nuovo ecco il grigio, non più come colore di un saio francescano, ma come tonalità che identifica le varie combinazioni di bianco e nero, i quali individualmente non possono esistere se non come assoluti. Come nell’incontro-scontro tra interessi particolari all’interno di un determinato settore di mercato – pensiamo ad esempio a quello energetico – il lobbista è quel soggetto “sfumante” che è in grado di fornire al decisore pubblico – inteso come potere formale – la mediazione più soddisfacente tra i vari interessi degli stakeholders toccati da un provvedimento, una nuova infrastruttura, una nuova scoperta scientifica. Una corretta “contemperazione” degli interessi è stella polare per il vero lobbista, che sa anticipare in tempi brevi le soluzioni che il decisore pubblico (forse) riuscirà ad assumere solo dopo molto tempo (di cui scarseggia) e scontri tra le parti (che possono minare il suo consenso elettorale).
Nonostante le molte similitudini, un elemento distingue l’operato dell’eminenza di un tempo e quella del rappresentante di interessi odierno: la decentralizzazione del potere, sempre meno in mano a singoli individui, ma piuttosto in capo a istituzioni complessivamente intese. I corridoi si moltiplicano e alle sale trono si sostituiscono autorità indipendenti, gabinetti ministeriali e commissioni parlamentari… ah che semplici i tempi in cui c’era il sovrano assoluto, unico centro di potere! Un novello padre Giuseppe dovrà quindi togliersi il saio, smetterla di muoversi a piedi – obbligatorio sacrificio previsto dall’antico ordine monastico – e dotarsi di zaino da consulente (rigorosamente nero, gli status symbols sono importanti), caschetto e scooter (finché la transizione al monopattino elettrico non sarà completata), per essere più veloce e raggiungere i decentrati decisori nel più breve tempo possibile. Al decentramento però subentra un accentramento di natura diversa: quello del mondo privato, delle grandi compagnie nazionali e multinazionali, dotate di una potenza di fuoco economica incredibile. I lobbisti in house delle grandi aziende possono indubbiamente esprimere su un decisore pubblico sempre meno competente e centralizzato una influenza ben maggiore, che può determinare un equilibrio troppo fragile nel mercato degli interessi. Per stabilizzare il campo di gioco, la competenza risulta condizione necessaria, rispetto alla non sufficiente relazione sociale, per una efficacia azione di lobbying. Di tale competenza non beneficerà solo l’interesse rappresentato dal lobbista, ma l’intero ecosistema, che saprà assestarsi su un punto mediano più consapevole.
Davanti alla calata dei barbari che contraddistingue la politica odierna, forse è giunto il momento di riconoscere la nobiltà del lavoro del lobbista che, attraverso la sua attività di back e front office – sintesi di competenza e relazione – può consigliare il “governante”, portando dinnanzi allo stesso gli interessi dei “governati” ed assicurando che si mantenga così un sano equilibro tra “piazza” e “torre”. Solo l’arte del compromesso, della mediazione e del rispetto della posizione altrui, possono risollevare l’assetto istituzionale del Paese, in preda ad improbabili assolutismi e ad un dialogo bipartisan inesistente.
L’opinione pubblica deve essere messa nelle condizioni di capire quanto sia fondamentale il ruolo di una sapiente integrazione della galassia di interessi privati e particolari all’interno del macrocosmo dell’interesse pubblico generale. E non si tratta di favorirne alcuni a discapito di altri, ma piuttosto di trovare un giusto compromesso tra tutte le posizioni presenti al tavolo. Le vituperate lobbies, qualora messe nella posizione di operare con maggior chiarezza normativa e fiducia generale, potranno sfatare le storture culturali accumulatesi negli ultimi decenni, per farsi attori di una maggior mediazione tra cittadini ed imprese da un lato e parlamento, governo e pubblica amministrazione dall’altro.
Infine, dunque, per chiudere su di un piano più teoretico, chi prevale tra potere sostanziale e potere formale? Senza Kissinger e Zhou Enlai, Nixon e Mao Tse Tung avrebbero saputo, soli e diffidenti, essere interpreti di un avvicinamento epocale tra le due potenze che oggi si scontrano per il predominio geopolitico globale? Che ne sarebbe della Francia oggi se al Congresso di Vienna si fosse seduto Napoleone piuttosto che Talleyrand? E ancora, che paese sarebbe il nostro se De Gasperi non fosse stato accompagnato dal Divo Giulio? “La storia fu fatta da Nixon, Mao Tse Tung, Napoleone e De Gasperi!” Diranno in molti; “Ma solo perché Kissinger, Zhou Enlai, Talleyrand e Andreotti la indirizzarono.” Diranno in pochi. Nessuno può avere una risposta esaustiva. In ogni caso qualche decennio fa, per anticipare il pensiero di qualche lettore, qualcuno disse all’incirca così: “Si esatto, la situazione era un po’ più complessa”.
Si tenga bene a mente: il mito è molto più importante e vero della storia. La storia è il reale, mentre il mito è l’ideale a cui il reale inesorabilmente tende. Se la lobby è la storia dell’influenza sul potere, le eminenze grigie ne sono il mito.