Recensione a: Paolo Messa, L’era dello sharp power. La guerra (cyber) al potere, Università Bocconi Editore, Milano 2018, pp. 192, euro 16,50 (scheda libro).
Scritto da Alberto Prina Cerai
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Negli ultimi anni i processi di globalizzazione e il graduale cambio di paradigma tecnologico – con l’ormai prossima informatizzazione di ogni aspetto della vita dei cittadini – hanno severamente alterato gli equilibri di potere. Tuttavia, alla concezione prevalentemente gerarchica o top-down del potere i prossimi decenni vedranno l’affermarsi definitivo di una versione più reticolare, trasversale e dunque anche più sfuggente. Il teatro di scontro, il cyberspazio, è di per sé un’astrazione che ha più influenza sulla realtà di quanto non si sia disposti ad ammettere. È dunque cruciale comprendere l’impatto di quella che accademici ed esperti già definiscono una vera e propria rivoluzione nella scienza politica tanto per gli affari internazionali quanto per le questioni domestiche di ogni Stato. L’era dello sharp power di Paolo Messa – fondatore della rivista «Formiche» e docente alla LUISS Business School – edito da Università Bocconi Editore si presta a mettere in guardia policymakers e cittadini sulla pervasività dei nuovi metodi di diffusione e di manipolazione delle informazioni a scopi, spesso malcelati, che nel gergo della security community sono definiti «short of war».
Ma che cosa si intende con sharp power? È davvero una novità nella panoplia a disposizione delle grandi potenze? La storia, in realtà, ci ha spesso mostrato come la capacità di veicolare determinate informazioni, favorire una narrazione egemonica o destabilizzare regimi politici abbia scandito la lotta per la supremazia. E questo tanto nella costruzione del consenso interno, quanto nelle campagne di infiltrazione all’estero. Due dimensioni che, già durante la Guerra Fredda, si sono spesso sovrapposte. E non è un caso che le moderne tecniche di political warfare siano state concepite e affinate proprio durante l’equilibrio del terrore. Scriveva in un memorandum George Kennan:
«[Il political warfare] è la diretta applicazione della dottrina di Clausewitz in tempo di pace. Nella sua definizione generale, […] è l’impiego di tutti gli strumenti [short of war] a disposizione di una nazione per raggiungere gli obiettivi nazionali, per avanzare la sua influenza ed autorità ed indebolire quella dei suoi avversari. Tali operazioni sono sia manifeste che celate […]»[1].
Tuttavia, nell’era del potere organizzato nella scacchiera «tridimensionale», per come l’aveva immaginata Joseph S. Nye[2], le leggi e i postulati che si pensava inquadrassero il mondo bipolare risultano davvero anacronistici. Come fu per le leggi della fisica classica con l’approdo della teoria della relatività, oggi la nuova rivoluzione scientifica nel campo delle scienze sociali abbraccia un terzo paradigma affiancato all’hard power e al soft power. Ed è proprio a partire dalla problematizzazione di quest’ultimo concetto, ormai entrato di diritto nel vocabolario di qualsiasi ambasciata o centro di ricerca, che l’Autore decide di iniziare la sua riflessione.
Nell’introduzione l’Autore riscopre la storia e la genesi del soft power, che «possiamo definir[e] come l’abilità di ottenere qualcosa attraverso l’attrazione piuttosto che la coercizione» (p.11). Nella concezione mainstream esso è associato alle pratiche multilaterali, alla diplomazia pubblica e a ciò che concerne i rapporti culturali, le iniziative sportive e le strategie mediatiche. Messa fornisce fulgidi esempi, anche recenti, della sua applicazione concreta. È innegabile che il soft power rimanga una valida chiave di lettura delle relazioni internazionali. Tuttavia, come suggerisce l’Autore, è necessario demistificarlo in qualità di «concetto normativo». Chiaramente non esiste ‘a priori’ una sua versione benevola o malevola, in quanto strumento subordinato a determinati scopi. Infatti, se il fine non sempre giustifica i mezzi, sarebbe giusto calibrare questi ultimi in funzione dei primi anche per uno strumento che non è sempre distinguibile dalla propaganda. E soprattutto non più così benigno nel contesto di una competizione tra grandi potenze. In questa competizione l’Autore, in una chiara cornice interpretativa che vede contrapposta la comunità atlantica all’emergere dirompente delle potenze illiberali, intravede l’affievolimento dell’egemonia del discorso liberal-democratico. Un indebolimento che rispecchia non soltanto lo straniamento delle società occidentali, ma che è il risultato di una crisi strutturale delle sue fondamenta socioeconomiche sotto i colpi dell’iper-globalizzazione. Spartendosi i cocci del contratto sociale delle democrazie occidentali, i regimi illiberali cercano così di «delegittimare gli Stati democratici dalle fondamenta, portandone in superficie i limiti e le contraddizioni» (p.33). Potenze autoritarie che non cercano di imporre un regime change, tanto per una carenza di strumenti o per una velata non-interferenza nella sovranità degli altri paesi, ma piuttosto di destabilizzare le democrazie attraverso campagne di fake news allo scopo di delegittimare le istituzioni, manipolare il dibattito pubblico e così diminuire la resilienza e la cogenza dei principi liberali, nutrendo l’ondata di risentimento, le divisioni e le criticità che affliggono ormai da lungo tempo le nostre società.
L’obiettivo non è più quello di esportare un modello, ‘conquistando i cuori e le menti’ dei cittadini europei o statunitensi, ma quello di presentare quello liberal-democratico come obsoleto e di rendere i regimi autoritari più tollerabili o, addirittura, appetibili alle masse. Lo strumento prediletto è, dunque, una nuova forma di potere, tagliente e a tratti impercettibile, che si insinua in ogni alveo della società civile. Questi Stati fanno uso indiscriminato della globalizzazione informatica, sfruttando quella che gli esperti definiscono «un’asimmetria»: impermeabili, o quasi, alle influenze esterne per via di monopoli, censura e barriere che legittimano le gerarchie interne, all’estero godono indisturbati dell’orizzontalità della rete digitale. Cultura, politica ed economia – ormai tre dimensioni profondamente inter-correlate alla dimensione cyber – diventano così i terreni privilegiati per l’applicazione dello sharp power. Ma quali sono gli attori che più di tutti hanno affinato queste strategie? Paolo Messa prende in considerazione gli elementi più controversi della campagna di influenza culturale della Cina, tramite la diffusione capillare degli Istituti Confucio, le tattiche di information warfare della nuova dottrina militare russa e last but not least la ricerca di legittimazione internazionale della Repubblica Islamica dell’Iran. Tuttavia, limitarsi a questi tentativi perlopiù propagandistici non esaurisce il quadro: anche la Belt and Road Initiative o la geopolitica dell’energia praticata dal Cremlino rientrano a buon diritto nel «vasto range di strumenti» attraverso cui Pechino e Mosca possono «esercitare una pressione politica» sui governi occidentali (p.75).
Cercare di comprendere l’intensità e le modalità con cui si manifestano le pratiche dello sharp power, svincolandole dalla natura politica degli attori responsabili, potrebbe risultare un esercizio vano. È la stessa critica che, ricorda Messa, si è avanzata in passato per smascherare l’apparente olismo intorno al concetto di soft power, un ‘catch-all term’ che ha finito per mistificare il comportamento o l’agency occidentale sotto false spoglie, nascondendo mai sopiti interessi e logiche di potenza. Realizzare l’entità del pericolo e l’ormai spregiudicatezza di alcuni Stati è la chiave per potersi preparare all’incombente cyberwarfare. La pervasività della rete ha esteso il campo di battaglia in ogni aspetto della vita nazionale. Nessun individuo, azienda o dipartimento pubblico può davvero ritenersi al sicuro. In più, «quando parliamo dell’universo cyber viene meno la distinzione fra Stati democratici e Stati illiberali […] Né regge la distinzione fra uso offensivo e uso difensivo degli strumenti cyber» (p.82). Dunque, gli obiettivi militari si ‘democratizzano’ nella misura in cui l’accesso (vitale) al web espone informazioni, dati e hardware cruciali per la sicurezza nazionale, mentre veri e propri squadroni cyber – spesso organizzazioni criminali, o ‘lupi solitari’, sul libro paga di agenzie governative – attendono nel deep web in attesa di infiltrarsi in qualche server. Aldilà del nexus tra crimine organizzato e governi, quest’ultimi già dispongono di veri e propri apparati speciali che si occupano di cyberwarfare, e questo è sicuramente il caso della Russia di Vladimir Putin. Come dimostrano gli attacchi alla Georgia nel 2008 e all’Ucraina nel 2014, «gli attacchi alle infrastrutture critiche di un Paese non solo sono in grado di causare gravi danni economici, ma hanno un impatto psicologico sulla popolazione […]» (p.91). Ma soprattutto sono nuovi strumenti a disposizione del Cremlino per perseguire la propria grand strategy. Anche per la Cina di Xi Jinping la dimensione cibernetica è diventata un aspetto cruciale per definire le ambizioni internazionali del Paese. Come sottolinea Messa, Pechino ha individuato proprio nel settore informatico la ‘punta di diamante’ per provare a scalfire il predominio tecnologico statunitense. La riforma militare avviata nel 2015, infatti, è il culmine di uno sforzo decennale per la definizione e l’implementazione di una strategia cyber cinese, che ha visto la creazione di nuovi dipartimenti e unità dedicate alla guerra cibernetica. Una ‘corsa al riarmo’, però, a differenza del passato molto più asimmetrica e volta a capitalizzare sui ritardi – nel caso americano, nel campo appunto informatico – dell’avversario.
Nell’ultima parte del volume l’Autore traccia un dettagliato resoconto delle, più o meno, evidenti incursioni di attori come Russia e Cina nel nostro Paese. Quali sono stati i motivi, le strategie e gli attori coinvolti? È così semplice stabilire la diretta implicazione dei governi stranieri negli affari politici italiani? Quali e dove sono le tracce dello sharp power in Italia? Per rispondere a queste domande Messa inizia analizzando il ‘Russiagate italiano’, che nelle ultime settimane è tornato alla ribalta per via dei presunti finanziamenti del Cremlino alla Lega Nord di Matteo Salvini. Lungi dall’abbracciare formulazioni deterministe, è inevitabile considerare lo stretto legame tra l’ascesa dei populismi – non solo in Italia – con le campagne diffamatorie, le interferenze e la propaganda antidemocratica messa in atto tramite l’utilizzo dei social network e di testate online filo-russe. È una storia il cui filo conduttore segue la relazione personale tra Silvio Berlusconi e Vladimir Putin fino all’esplosione del web ai giorni nostri. Russia Today (RT) e Sputnik rappresentano le testate/agenzie che più di tutte cercano di veicolare e dettare i contenuti del dibattito pubblico (agenda setting), screditando le versioni ufficiali (o mainstream), insinuando il ‘beneficio del dubbio’ allo scopo di fungere da «cassa di risonanza alla propaganda russa» (p.117). Fake news e profili social creati ad hoc diventano veicolo e oggetto di finanziamento, sfruttando le dinamiche pubblicitarie (visualizzazioni, condivisioni) che facilitano a loro volta, in un circolo vizioso, la viralizzazione di questi contenuti. Dinamiche che, il più delle volte, non sono soltanto ‘sistemiche’ ma gestite e manovrate da aziende specializzate (Clickio, AdLabs in Russia sono le più celebri) con chiari interessi di parte. Se soppesare l’influenza russa in Italia attraverso Internet risulta un esercizio complesso e analiticamente non sempre rivelatorio, ricostruire la rete fisica dei contatti sul territorio tra alcuni partiti e organizzazioni no-profit (specialmente le associazioni culturali volte a stimolare gli scambi e le relazioni italo-russe) risulta, forse, più lampante. L’Autore non può esimersi dall’indagare forse il rapporto più eclatante, quello tra la Lega di Salvini e l’influenza politico-culturale del Cremlino. Vengono riportati episodi, incontri formali e informali, dichiarazioni esplicite che mostrano con chiarezza la posizione del Carroccio e, infine, nell’ultimo anno del Ministro degli Interni, specialmente sul dossier ucraino. Posizioni che hanno non poco imbarazzato l’asse atlantico, specialmente riguardo ai rapporti con Washington. Infatti, tra i policymakers e i comitati d’intelligence statunitensi è ben radicata l’idea che l’Italia sia diventata un obiettivo prediletto dell’Internet Research Agency (IRA), un’azienda russa con stretti rapporti con il governo ed «accreditata per essere lo snodo centrale delle più importanti attività di disinformazione» (p.131). Un’autentica fabbrica di troll per infettare il dibattito pubblico e manipolare l’informazione, tramite i social network – in particolare Twitter – con messaggi e contenuti a favore di Lega e non ultimo del M5S.
Infine, l’Autore ridiscute un tema forse un po’ sottovalutato negli ambienti giornalistici e non solo: il livello e la capillarità dell’influenza cinese, specialmente nei settori ritenuti strategici. A differenza della controparte russa – forse orfana di asset e strategie d’investimento che non siano direttamente collegate al settore energetico e, soprattutto, fortemente avvelenata da antiche e mai sopite avversioni ideologiche verso l’Occidente – quella di Pechino è un’altra modalità di esercizio dello sharp power, meno propagandistico e più specchio di quanto il leverage economico del colosso orientale sia diventato un fine e calibrato strumento magnetizzante. La diversificazione dei suoi prodotti – finanziari ed economici – rende la Cina molto appetibile, specialmente in questa fase di intensa riconversione e innovazione tecnologica. In poche e significative parole, Messa ritiene, data la particolare congiuntura economica, che la «prospettiva di aumentare il business con la Cina [abbia] prevalso, in Italia, sulle considerazioni relative alla sicurezza» (p.144). È in questa cornice interpretativa che vanno inserite le recenti iniziative del nostro Paese, dall’adesione alla Banca Asiatica per gli Investimenti nelle Infrastrutture alla partecipazione nella Belt and Road Initiative. Una partnership italo-cinese sostenuta a gran voce da figure illustri dell’universo politico e delle imprese ma anche costruita localmente grazie alle reti di associazioni e gruppi d’interesse diffuse nelle maggiori metropoli italiane. Insomma, grandi opportunità ma anche grandi rischi: per Messa la situazione di crisi di fiducia, di forte aumento dello spread e le tensioni con l’Unione Europea hanno indotto a scrutare l’orizzonte asiatico senza tenere conto degli imprevisti lungo il sentiero.
Il libro di Paolo Messa – che si conclude con un’interessantissima intervista a Steve Bannon – è davvero una lettura consigliata per superare alcune false percezioni rispetto all’agency delle potenze autoritarie. È anche un esercizio allo spirito critico, a contestualizzare e a de-ideologizzare la minaccia, a escludere manicheismi fuorvianti. Ciò non toglie la serietà e l’urgenza con cui è necessario affrontare questo tema cruciale. La discussione sull’argomento è chiaramente in divenire, poiché la stessa categoria di sharp power sarà suscettibile a nuove forme, concetti e interpretazioni. Serve un quadro normativo per imbrigliare (e così governare) il settore informatico/tecnologico, che a sua volta richiede una collaborazione internazionale che induca gli attori con il know-how necessario – allo stato dell’arte, le aziende private – a condividere risorse e strumenti e ad incentivare una cultura digitale, al fine di «proteggere le nostre democrazie e i valori occidentali da una competizione globale che la disruption tecnologica ha reso meno soft di quanto immaginiamo» (p.162). Un libro che presenta tesi chiare e strategicamente realista nell’affrontare ciò che è in gioco nel futuro di noi tutti.
[1] George F. Kennan on Organizing Political Warfare, 30 aprile 1948.
[2] La «scacchiera superiore delle questioni politico-militari», la «scacchiera dell’economia» e «la scacchiera inferiore dei rapporti transnazionali», Joseph S. Nye, Soft Power: The Means to Success in World Politics, New York, Public Affairs, 2004, op. cit., p. 172.